Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  agosto 31 Mercoledì calendario

Gli scarafaggi tra letteratura e cinema

Una grotta. Buio. Scricchiolio. Luce di accendino. «Non sono biscotti!». Eh no, Shorty: non sono biscotti. Sono milioni di blatte. Scarafaggi: bruni, lucidi, umidi, viscidi. Sotto i piedi, addosso, nei capelli. Quante volte ci siamo chiesti quale effetto speciale Steven Spielberg si sia inventato per girare quella scena diIndiana Jones e il tempio maledetto ? Niente effetti speciali: erano tutti veri. Con buona pace degli animalisti. Sì, perché è veramente difficile simpatizzare con gli scarafaggi, specie quando sono migliaia, quando si trasformano (e lo fanno) in un soggetto collettivo di infinite zampe, infiniti occhi, infinite antenne. William James, filosofo americano di un secolo fa, li chiamerebbe eaches, intraducibile plurale di “ogni”: unità autoreferenziali e insieme parti interconnesse di un grande tutto, agente e pensante come un solo corpo. Immanente, come Dio o la Natura: dal cui corpo, appunto, sgorgano tutte le cose.
Gli scarafaggi sono creature terrestri di lungo corso. Popolano il pianeta dal Carbonifero, 350 milioni di anni. Hanno visto l’alba insieme ai dinosauri; e poi senza. Sono sopravvissuti alle piogge di asteroidi e a treestinzioni di massa. Sopravviverebbero, si dice, a guerre stellari e nucleari. E, quando sarà il momento, non si accorgeranno che ce ne siamo andati.
Spesso li sogniamo, e non sono sogni piacevoli. Figure dell’inconscio collettivo, ci riportano al nostro passato ancestrale di prede, inermi nel buio. Un buio che loro invece dominano: per Linneo infatti i blattoidei sono animali «che rifuggono la luce». Nei sogni ci appaiono smisurati o inarrestabili, ce li vediamo spuntare dal cuscino, dal terreno, dalle parti molli del nostro corpo. Ci mangiano. Sarà per quell’etimologia cannibale, che meglio si vede nell’inglesebeetle,dall’antico anglosassone b?tan, “mordere”. Anche “blatta” fa male: viene da bláptein, che in greco significa “nuocere”.E gli scarafaggi, in effetti, talora ci nuocciono. I loro escrementi, la loro saliva e la loro muta possono trasmettere malattie che vanno dalla dissenteria al tifo e al colera. Alcuni però hanno abitudini tenere: studi recenti mostrano casi di cure parentali delle madri per la prole (del resto, si sa, «ogni scarrafone è bell’a mamma soja»). Tutti invece hanno abitudini discutibili, come mangiare e defecare sullo stesso sito, nello stesso tempo. Inoltre sono onnivori e si nutrono di cadaveri. Un po’ come noi: infatti sono animali commensali, consumano i nostri scarti e spesso rovinano le nostre derrate. Tutto questo però non c’impedisce di essere anche noi a mangiare loro. In Cambogia, ad esempio, gli scarafaggi fritti sono serviti insieme a grilli, tarantole e formiche verdi.È indubbio però che sia stato il nostro immaginario a nutrirsene di più. Il kafkiano Gregor Samsa è il nume tutelare di tutte le blatte letterarie. Di recente anche Ian McEwan ha scritto la sua Metamorfosi, e l’ha intitolata semplicemente The Cockroach, Lo scarafaggio. Rispetto a Kafka, il percorso è capovolto: non è un essere umano a trasformarsi in blatta, ma una blatta a trasformarsi in essere umano. Un umano molto speciale: il primo ministro britannico. E blatte antropomorfizzate sono pure i membri del governo. La storia narra di una cospirazione di scarafaggiche decide di portare il paese al disastro invertendo il corso della sua economia con la complicità di un’altra mega-blatta: il presidente degli Stati Uniti. La ragione? Non c’è una ragione, mica le blatte ragionano, suggerisce McEwan. Si nutrono di cadaveri, e qui si progetta appunto il funerale di una nazione.Favole come questa ricalcano il cliché secondo cui proviamo disgusto per le blatte perché in fondo ci somigliano. Ma c’è chi ha percorso un’altra strada. Lo ha fatto Clarice Lispector. Classe 1920, morta nel 1977, Lispector è l’immigrata ucraina che sarebbe diventata la scrittrice brasiliana più illustre del ’900 –una, per intenderci, che i connazionali chiamano per nome, come solo avviene ai grandi. Nel 1964 Clarice scrive un monologo, La passione secondo G.H. A parlare è una donna sola di mezza età, un’architetta, colta nel torpore di un pomeriggio tropicale. Ripulendo un armadio, G.H. schiaccia una blatta, ed ecco che scatta l’epifania. Perché la blatta resta viva. Viva e intenta a guardarla, con i suoi occhi neri di «mulatta in agonia». C’è tutta la storia del mondo, in quella blatta, dice Clarice. Ci sono le piramidi e i deserti, c’è la formazione dei giacimenti di petrolio e di carbone, il nulla dell’essere informe di una materia primordiale. C’è la sostanza bianca – “il neutro” – che sfida l’io a uscire di sé e ricongiungersi con la sua “parte preumana”.È a questo punto che G.H., con un colpo di teatro che sfida il buonsenso e il ribrezzo, mangia il corpo della blatta, e qui i ruoli si confondono. Ingerita, la blatta entra nell’umano per rendere la donna inumana a sua volta, sprofondandola a testa in giù nella vita della mater materia, origine divina e terribile di tutte le cose: «Io avevo dovuto non dare valore umano alla vita per poter capire la dimensione, ben più che umana, del Dio». «Saremo inumani – come la più alta conquista dell’uomo», dice Lispector.E però di fronte all’inumano si può essere anche profondamente umani. O semplicemente giusti, perché la giustizia, come insegna Anassimandro, sta nelle cose che ritornano alla loro origine indefinita, ossia inumana. Ce lo dice Dino Buzzati in un racconto, anche questo intitolato Lo scarafaggio. È notte, c’è silenzio. Eppure il protagonista non riesce a dormire. Sente il cigolio della porta, l’angoscia della moglie, il latrato del cane, la veglia agitata del canarino; sente una madre in cerca del figlio, gente che vaga per strada, un bimbo che piange. Nel buio, c’è qualcosa che chiama: è uno scarafaggio schiacciato che sta agonizzando nell’ingresso di casa. Lui lo trova e lo finisce: «Allora finalmente il cane tacque, lei nel sonno si quietò e quasi sembrava sorridesse, le voci si spensero, tacque la madre, nessun sintomo più di irrequietezza del canarino, la notte ricominciava a passare sulla casa stanca, in altri punti del mondo la morte si era spostata a gonfiare la sua inquietudine». Da queste blatte morte, eppure vive, dipende l’ordine del mondo, nell’immaginario di questi scrittori. Ma in fondo è un immaginario comune, perché siamo tutti convinti che l’ordine del mondo, oscuramente, dipenda da loro. Sono loro i padroni del pianeta: loro, che sopravviveranno ad apocalissi, estinzioni, diluvi. E allora chiediamocelo: non è, il nostro disgusto, l’altra faccia dello stupore con cui li guardiamo?