Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  agosto 31 Mercoledì calendario

Flop e contestazione per Domingo all’Arena

Due serate da dimenticare. Meglio, da non ripetere mai più. Atteso all’Arena di Verona per cantare in un gala verdiano e per dirigere un’opera, Turandot, Plácido Domingo è entrato nell’anfiteatro romano da leggenda della lirica e ne è uscito come un mito infranto. Preceduto dalle accuse di un suo presunto coinvolgimento in una setta argentina che forniva dietro cospicui compensi schiave sessuali, Domingo non si è tirato indietro. Sfidando le polemiche, le richieste di annullamento, il caldo, gli acciacchi dei suoi 81 anni ha voluto onorare l’impegno con il teatro dove è di casa da oltre mezzo secolo, dove aveva trionfato con Don Carlo, Turandot, Manon Lescaut. 
Ma stavolta è bastato che comparisse alla ribalta per capire che il leone di un tempo non c’era più. Al suo posto un anziano signore malfermo, bisognoso di sostegno, dall’aria un po’ spaesata. Una fragilità rispecchiata anche dalla voce. La sua voce meravigliosa, per decenni sfolgorante da tenore poi capace di reinventarsi nelle tonalità brunite del baritono, ha perso il suo smalto. Incrinature vocali aggravate da vuoti di memoria, nonostante la presenza di un suggeritore fin troppo udibile e due «gobbi» di supporto. 
E così, a metà concerto, dopo arie da Aida e Don Carlo, arrivato al brindisi del Macbeth, Plácido ha dovuto gettare la spugna. Al suo posto è subentrato il russo Roman Burdenko, già pronto tra le quinte debitamente truccato e in costume a riprova che il forfait era previsto. Non andrà meglio la sera dopo, venerdì, quando nell’altra sua veste di direttore d’orchestra, Domingo è salito sul podio di Turandot.
Opera di per sé impervia, difficilmente sostenibile per il maestro, che per tenere il passo con il suo carnet frenetico, aveva previsto una sola prova. L’esito è stato talmente deludente che alla fine gli orchestrali, invitati dal direttore a alzarsi per i consueti ringraziamenti, sono rimasti ostinatamente seduti in segno di protesta. Insomma, una doppia débâcle. 
Imbarazzante per l’Arena ma ancor più per un artista che è stato un fuoriclasse e avrebbe meritato un’uscita di scena più decorosa. Lo choc è stato tale che ieri i rappresentanti del Sic, Sindacato lavoratori comunicazione Cgil Verona, hanno inviato una nota in cui chiedono alla Fondazione Arena e al suo presidente, il sindaco Damiano Tommasi, di annullare il gala Domingo già previsto per la prossima stagione o almeno ridurlo a un «tributo» alla carriera da parte di artisti amici. 
Invecchiare bene è difficile. Ancora più difficile è capire quando è il momento di dire basta. La longevità straordinaria di Plácido Domingo non sembra portagli consiglio: continua a seguire ritmi da quarantenne. Basta guardare il suo calendario, che a settembre lo porta in 15 giorni da Siviglia a Muscat, in Oman, e pure in Turchia. E poi da Amburgo a Budapest, dalla Bolivia al Paraguay. Dal Belgio alla Croazia Dubai… Ore e ore di aereo, fusi orari, jet lag, affrontati temerariamente. Forse in nome della fama, forse del botteghino, forse della fede in una vita eterna, almeno sulla scena. 
«If I rest, I rust», se mi fermo arrugginisco. Il suo mantra, la sua condanna. Più saggio il motto di una sua famosa collega, Giulietta Simionato: «Meglio farsi rimpiangere che farsi compiangere».