Corriere della Sera, 31 agosto 2022
Biografia di Irene Grandi raccontata da lei stessa
La prima volta che Irene Grandi incontrò Vasco Rossi aveva 13 anni e gli offrì un pezzo di pizza. «Eravamo in montagna, dalle parti della sua Zocca. Lui stava aspettando da un po’. Gli urlai: “Prendi una fetta della mia, quella con i carciofini. Tanto a me non piacciono!”. Quando l’ho incontrato, da grandicella, per incidere La tua ragazza sempre, gliel’ho detto. Non ricordava nulla, ovvio. Rideva: “Ma dai, quindi ho mangiato dalle tue mani”».
Avete più preso una pizza insieme?
«No, ma le patatine fritte sì. Andavamo in un localaccio dove ci infilavamo di nascosto, perché se lui esce di casa è un casino. Ma più che altro con Vasco si è bevuto champagne perché ogni volta che ci si incontrava bisognava sempre aprire una bottiglia: festeggiavamo il grande successo che aveva scritto per me. Gli piaceva la mia aria sbarazzina, irriverente, intrepida. Diceva che ero un Vasco in gonnella».
Che uomo è ?
«Amo tantissimo la sua compagnia, è divertente, stimolante. Una volta mi ha confidato: “Per me scrivere una canzone è come risolvere un rebus: so che ci sono le parole, ma le devo trovare”. La sua è una vita chiusa, privata, si impegna nella musica totalmente. Il suo desiderio è far sognare la gente, arrivare al cuore delle persone».
Trent’anni fa (compresi gli esordi da corista) la «toscanaccia» Irene Grandi irrompeva nell’italian pop con una grinta che conquistò pubblico e colleghi. Il suo esordio sul palco di Sanremo, nel ’94, tanto per non lasciare dubbi, lo affidò a Fuori («Facile passare il limite/ Saltare il muro della libertà »). Adesso, abbandonati gli eccessi e le inquietudini di gioventù e archiviati due matrimoni – il primo, con l’imprenditore Alessandro Carotti, finito nel 2010, e il secondo con l’avvocato Lorenzo Doni, sposato nel 2018 e terminato da poco – l’ex cattiva ragazza del rock made in Italy si è trasformata nella sofisticata protagonista di concerti blues («Mamma mia, quanto mi diverto!»).
Quando ha deciso di dedicarsi alla musica?
«Io, che nei sentimenti sono timida, quando c’è da salire sul palco mi trasformo, divento esuberante. Da bambina mi piacevano le recite dell’asilo, in chiesa ero solista. Pigrissima per la scuola, quando c’era da andare alle prove del coro ero un fulmine. All’università frequentavo Lingue, studiavo anche il russo. Rimanevo indietro, arrancavo. D’estate i miei compagni andavano all’estero per imparare le lingue. Io avevo i miei concertini. Che facessi questo mestiere s’è deciso quasi da solo».
È sempre stata una ribelle?
«Da ragazzina non mi fidavo delle cose troppo facili. Difendevo le cause difficili, per non dire perse. Ma soltanto al liceo è venuta fuori questa mia vena battagliera. Intervenivo spesso all’ora di religione. Ero una libera pensatrice, a volte mi mettevo tutti contro: scioperavo quando gli altri entravano in classe e entravo in classe quando gli altri scioperavano. Roba così, insomma».
Quanta differenza fra ieri e oggi che ha 53 anni.
«Non ero uno stinco di santo, mi sentivo diversa dalle altre, irriverente. Volevo guidare una band. Ora cerco di assecondare l’età, gli interessi, i cambiamenti. L’energia non è la stessa dei vent’anni ma c’è l’esperienza che mi sostiene. Forse se avessi continuato a cantare Bum Bumavrei molto più successo. Mi va bene così. È una strada più impervia, però è la mia. Prima ero un fuoco che bruciava, adesso sono un fuoco che scalda».
Il grande successo degli anni Novanta come lo ha vissuto?
«Non lo avevo mai veramente preso in considerazione. Mi spiazzò. Non è stato semplice: la notorietà ti fa perdere certe libertà. Non potevo andare in giro quando e come mi pareva, le vacanze dovevo programmarle in momenti diversi dagli altri, gli impegni erano così tanti che a volte dimenticavo gli affetti più cari. La mia amica del cuore una volta mi disse: “Certo che la tua è una vita complicata. È difficile persino per me perché vogliono tutti che parli soltanto di te”. Non è che fossi infelice, la passione per la musica mi permetteva di superare qualunque ostacolo, tutta la fatica. Ero contenta, però con gli anni ho capito che parecchie cose le ho sacrificate».
Anche i vestiti che indossa sono sempre particolari.
«Fin dagli inizi.... con le scollature che lasciavano fuori la spalla, i leggins che mettevo quando in giro se ne vedevano pochi, gli anfibi. Quando non avevo soldi mi arrangiucchiavo, andavo al mercatino militare di San Lorenzo a Firenze, compravo abiti oversize che mi divertivo a cambiare, tagliando colli, scorciando, aggiungendo spacchi».
Sa cucire?
«No, per niente. Ero un’esperta del taglio a vivo e poi mi si rompeva tutto. Crescendo, ho trovato nella stylist Stella Falautano una collaboratrice preziosa. Adesso è un momento di ristrettezze per tutti e quindi stiamo rielaborando i vestiti che ho accumulato nel tempo. Qualche giorno fa abbiamo fatto uno scollo a v su una canotta un po’ troppo semplice».
L’arte del riutilizzo. Per il suo primo matrimonio, a Las Vegas, indossò una gonna comprata per il primo Sanremo.
«Non riuscivo a metterla tutti i giorni, la tenevo per le occasioni speciali. Era in camoscio, uno stile un po’ cowboy. Così decisi che sarebbe diventata il mio abito da sposa, il velo lo acquistai in un negozio di giardinaggio: un tulle strano, trasparente, di un arancione simile alla terra, quasi rosso. Il look alla fine era fortissimo».
Gli incontri musicali: Jovanotti.
«La sua esplosione con Serenata rap è coincisa con la mia nascita professionale. Era importante che mi notasse perché era il più figo di tutti. Al mio primo Sanremo tifava per me: “È nata una stella, sei bravissima, che bello il tuo progetto, mi piaci da morire”. Ci siamo visti, ho letto i suoi quaderni e fu naturale pensare di fare un pezzo insieme. T.V.B. è stato un grande regalo di Lorenzo».
Pino Daniele.
«Mi scelse lui, lo affascinava la mia vena blues. Mi invitò pure come ospite ai suoi concerti nei palazzetti. Appena finivo di cantare, mi infilavo un cappuccio e lo andavo a vedere al mixer. Questa storia ha reso felice mia madre: Pino era il suo cantante preferito».
Stefano Bollani.
«L’ho conosciuto poco più che adolescente. Lui era un ragazzino con un talento smisurato. Ci siamo incontrati a una festa di compleanno in una sala prove. Gli chiesi se aveva voglia di rivedermi perché cercavo di inserirlo in una delle mie prime band. La sera eravamo tutti truccati e in tiro, il giorno dopo andai a casa sua con gli occhiali e un paio di jeans sdruciti. Mi venne ad aprire la porta. Io: “C’è Stefano?”. Lui: “Scusi, chi è?”. Non ci eravamo riconosciuti. Spiriti naïf, quando si suonava non si capiva più nulla, manco la faccia che si aveva».
A settembre uscirà la sua rilettura di E poi, portata al successo da Mina negli anni Settanta. L’ha mai incontrata?
«Ho un debole per lei, The Voice. Purtroppo non l’ho mai incontrata. Colpa dei miei manager, non mia (ride)».
L’ex Police Stewart Copeland l’ha voluta nella sua opera rock The Witches Seed, ambientata nel passato, fra presunte streghe, peste e Inquisizione. Si sente un po’ strega?
«In effetti.... erano donne controcorrente, indipendenti economicamente, senza marito e avevano una loro spiritualità, rifiutavano i dogmi. Il loro pensiero non si piegava al potere, erano innovative, scomode anche se forse estreme. C’è un’altra caratteristica che mi lega a loro».
Quale?
«Quando mi arrabbio faccio paura. Urlo, divento un’altra. Non me ne vanto, mi rendo conto che è un limite, il mio difetto più grande».
Ha scelto di vivere nella campagna toscana, perché?
«Mi piace stare in mezzo alla natura. Ho un piccolo giardino, e anche se con la siccità muore tutto, sono riuscita per miracolo a far crescere la lavanda. La raccolgo e la infilo nei sacchettini da mettere nel bucato. A volte penso che sono isolata, in città avrei più occasioni per il mio lavoro. Poi però non ce la fo’ a lasciarla».
Complice la pandemia è riuscita a realizzare un sogno.
«Sono diventata un’istruttrice di yoga. Non ho una classe, ma durante il lockdown ho dato lezioni online ai fan. Dopo la musica è la mia seconda passione, mi riempie la vita. Chissà, quando diventerò più anziana diventerà la prima... perché a un certo punto bisogna avere il coraggio di venire via. Pratico uno yoga non particolarmente acrobatico, è meditativo, legato al respiro. Porto sempre un tappetino con me e prima di un concerto o dopo un lungo viaggio faccio esercizi di pranayama. Spesso scelgo vacanze yogiche, cambio stile di vita: mi alzo e vado a letto presto».
Quando ha cominciato?
«Nel 2010. Lo yoga si apprezza nei momenti di crisi. Mi ero accorta che tutto quello per il quale avevo lavorato non mi dava più soddisfazione. I miei punti di riferimento erano volati via. In crisi, disperata, stanchissima decisi di partire da sola, per Bali. Scoprii un altro mondo, legato alla spiritualità. È stata una purificazione generale. Sono tornata in forma smagliante. Per un periodo ci sono andata ogni anno, fino a quando ho scoperto che vicino a me, a Ponsacco, c’è il Centro studi Bhaktivedanta, una scuola splendida. Bisogna studiare parecchio, entrare in un linguaggio, si usano tante parole in sanscrito, fanno anche dei corsi per insegnarlo».
Parla il sanscrito?
«Conosco qualche vocabolo. Il maestro mi ha consigliato di studiarlo, finora mi è mancato il coraggio».