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 2022  agosto 31 Mercoledì calendario

In morte di Mikhail Gorbaciov

David E. Hoffman per il Foglio

E’morto il 30 agosto a Mosca Michail Gorbaciov, l’ultimo leader dell’Unione sovietica che intraprese un percorso di riforme radicali che portarono alla fine della Guerra fredda, invertendo la direzione della corsa agli armamenti nucleari e allentando il controllo del Partito comunista nella speranza di salvare il vacillante stato sovietico, ma al contrario spingendolo verso il collasso. Aveva 91 anni. Le sue azioni in origine erano così improbabili e il loro impatto sulla fine del XX secolo così grande che rendono Gorbaciov una figura imponente. Nel 1985 fu scelto per guidare un paese impantanato nel socialismo e in un’ideologia mortificante. In sei anni di tentativi, tattiche improvvisate e rischi sempre più audaci, Gorbaciov scatenò immensi cambiamenti che finirono per demolire i pilastri dello stato. Il crollo sovietico non era l’obiettivo di Gorbaciov, ma sarebbe stata la sua più grande eredità. Pose fine a un esperimento durato sette decenni e nato da un idealismo utopico che portò ad alcune delle più sanguinose sofferenze umane del secolo scorso. Il costoso confronto globale tra est e ovest cessò bruscamente di esistere. La divisione dell’Europa crollò. Il teso stallo nucleare tra superpotenze si attenuò, prima dell’Armageddon. Tutto ciò non sarebbe potuto accadere se non fosse stato per Gorbaciov. Lungo la strada, scatenò una rivoluzione dall’alto all’interno dell’Unione sovietica, stimolando e pungolando un paese stagnante nella speranza di rivitalizzarlo. In quasi sei anni di grandi drammi e trasformazioni mozzafiato, Gorbaciov perseguì un’ambizione di liberalizzazione sempre più grande, lottando contro l’inerzia e contro un’ostinata vecchia guardia. Archie Brown, professore emerito di politica al St. Antony’s College dell’Università di Oxford e un’autorità quando si parla di Gorbaciov, ha scritto che l’apertura e il pluralismo sono stati tra i suoi risultati straordinari per un paese che per centinaia di anni era stato incatenato da un regime autoritario sotto gli zar e i leader sovietici. Gorbaciov introdusse le prime elezioni veramente competitive, permise alla società civile di radicarsi e incoraggiò la discussione sui passaggi oscuri della storia sovietica. Allo stesso tempo, sostiene Brown, Gorbaciov subì dei fallimenti, tra cui lo sforzo di rompere la morsa della pianificazione centrale sull’economia con le riforme note come perestrojka, che iniziarono certamente ma non andarono abbastanza avanti, e la sua incapacità di soddisfare le ambizioni di sovranità tra le insofferenti nazionalità sovietiche, che alimentarono le forze centrifughe che finirono per disgregare il paese. Molti dei successi più importanti ottenuti da Gorbaciov finirono per perseguitarlo. La liberalizzazione del sistema “portò alla superficie della vita politica sovietica ogni possibile problema e lamentela a lungo repressa”, ricorda Brown. “Il piatto politico di Gorbaciov divenne monumentalmente troppo pieno”. Dopo un tentativo fallito di colpo di stato da parte dei sostenitori della linea dura nel 1991, un Gorbaciov indebolito cedette infine il potere a riformatori ancora più radicali, guidati dal presidente russo Boris Eltsin. La bandiera sovietica sul Cremlino fu ammainata il 25 dicembre 1991. Gorbaciov non aveva intenzione di ammainarla, quella bandiera: lui era il prodotto del sistema e degli eventi tumultuosi che avevano scandito la sua vita, dal terrore di Iosif Stalin alle perdite inimmaginabili della Seconda guerra mondiale, passando per le difficoltà, le tregue, i trionfi, le aspettative deluse e la stagnazione del Dopoguerra. Nel corso di molti anni, Gorbaciov si rese conto dell’enorme abisso che esisteva tra la realtà della vita quotidiana sovietica, spesso misera e povera, e gli slogan artificiali del partito e della leadership riguardo al futuro brillante della vita sotto il comunismo. Molti altri vedevano questo divario ma lo ignoravano: ciò che rendeva Gorbaciov diverso era che ne era sconvolto. Quando divenne il leader sovietico, aveva assorbito appieno la terribile realtà, ma aveva capito poco su come cambiarla. Sperava che scatenare le forze dell’apertura e del pluralismo politico avrebbe guarito le altre malattie. Non lo fecero. Tra Stalin e la guerra Michail Sergeievich Gorbaciov nacque il 2 marzo 1931 nel piccolo villaggio di Privolnoye, nella regione delle fertili terre nere di Stavropol, nella Russia meridionale. I suoi genitori, Sergei e Maria, lavoravano la terra in un villaggio che era cambiato poco nel corso dei secoli. Gorbaciov trascorse gran parte della sua infanzia come il preferito dei nonni materni, da cui andava spesso a vivere. Il nonno materno, Pantelei, era ricordato da Gorbaciov come un uomo tollerante e immensamente rispettato nel villaggio. In quegli anni, Gorbaciov era figlio unico: suo fratello nacque dopo la guerra, quando Michail aveva 17 anni. La carestia colpì la regione nel 1933, quando Gorbaciov aveva due anni. Stalin aveva lanciato la collettivizzazione di massa dell’agricoltura, un processo brutale che costrinse i contadini in fattorie collettive e punì i kulaki, che stavano un po’ meglio. La collettivizzazione distrusse i modelli tradizionali dell’agricoltura. Da un terzo a metà della popolazione di Privolnoye morì di fame. “Intere famiglie morivano e le capanne semidiroccate e senza proprietario rimanevano deserte per anni”, ha raccontato. Negli anni Trenta, le purghe di Stalin fecero milioni di vittime tra i contadini. Il Grande Terrore colpì anche Gorbaciov. Suo nonno paterno, Andrei, rifiutò la collettivizzazione e cercò di farcela da solo: nella primavera del 1934, fu arrestato e accusato di non aver rispettato il piano di semina stabilito dal governo per i singoli contadini. “Ma non c’erano semi disponibili per rispettare il piano”, ha ricordato in seguito Gorbaciov commentando l’assurdità dell’accusa. Andrei fu dichiarato “un sabotatore” e mandato in un campo di prigionia per due anni, ma fu rilasciato nel 1935. Al suo ritorno, divenne un leader della fattoria collettiva. Due anni dopo, anche il nonno Pantelei fu arrestato. Le accuse erano altrettanto assurde: era stato membro di un’organizzazione controrivoluzionaria e aveva sabotato il lavoro della fattoria collettiva. L’arresto fu “il mio primo vero trauma”, disse Gorbaciov: “Lo portarono via nel cuore della notte”. Pantelei fu rilasciato una sera d’inverno del 1938 e tornò a Privolnoye. Seduto a un tavolo piallato a mano, raccontò alla famiglia quello che gli era successo. Gorbaciov, che allora aveva 7 anni, ascoltò con attenzione. Pantelei era convinto che Stalin non fosse a conoscenza delle malefatte della polizia segreta, che lo aveva torturato. Non ne parlò mai più. “Fu per me un enorme choc che da allora è rimasto impresso nella mia memoria”, ha scritto Gorbaciov nel suo memoir. Mantenne così segreto il calvario di Pantelei che ne parlò apertamente soltanto mezzo secolo dopo. Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, il padre di Gorbaciov partì per il fronte. Nell’estate del 1942, il villaggio cadde sotto l’occupazione tedesca, che durò quattro mesi e mezzo, finché le truppe sovietiche non respinsero i tedeschi. La guerra devastò la campagna. L’unità del padre cadde in un’imboscata e la famiglia di Gorbaciov ricevette una lettera in cui si diceva che Sergei era stato ucciso. Ma si rivelò un errore e arrivarono altre due lettere che dicevano che era vivo. Quando tornò a casa, Sergei disse al figlio che quella confusione era tipica del caos della guerra. “L’ho ricordato per tutta la vita”, scrisse in seguito Gorbaciov. Aveva 14 anni quando la guerra finì: “La nostra è la generazione dei figli della guerra. Ci ha bruciati, lasciando il segno sul nostro carattere e sulla nostra visione del mondo”. Gorbaciov entrò all’Università statale di Mosca, la più prestigiosa del paese, nel settembre del 1950 – un ragazzo contadino nella metropoli vivace. Arrivò con una formazione scolastica da villaggio, e gli amici che avevano acquisito più cultura negli anni precedenti lo prendevano spesso in giro. Gorbaciov si iscrisse al Partito comunista nel 1952. I primi due anni della sua vita universitaria coincisero con la campagna anticosmopolita di Stalin contro studiosi e scrittori ebrei. Per Gorbaciov fu un’esperienza che gli aprì gli occhi. Una mattina un amico ebreo era stato assalito da una folla urlante che lo scherniva e che poi lo spinse violentemente giù da un tram: “Sono rimasto scioccato”. Secondo i suoi stessi racconti, Gorbaciov era preso dall’ideologia sovietica, come molti della sua generazione che speravano che la guerra, la carestia e il Grande Terrore fossero cose del passato e che credevano di costruire una nuova società, con giustizia sociale e potere popolare. Quando Stalin morì nel 1953, Gorbaciov si unì alla folla in fila per rendergli omaggio nella Piazza Rossa. Negli anni successivi, però, Gorbaciov cominciò a vedere Stalin in modo diverso. Al 20esimo Congresso del Partito, il 25 febbraio 1956, Nikita Kruscev pronunciò il suo famoso “discorso segreto”, denunciando il culto della personalità e l’uso della violenza e della persecuzione da parte di Stalin. Solo dopo il discorso, “cominciai a capire il legame interiore tra ciò che era accaduto nel nostro paese e ciò che era accaduto alla mia famiglia”. Suo nonno Pantelei aveva detto che Stalin non sapeva delle sue torture. Ma, pensò Gorbaciov, forse era Stalin il responsabile del dolore della sua famiglia. “Il documento contenente le denunce di Kruscev circolò per breve tempo all’interno del partito e poi fu ritirato”, ha ricordato Gorbaciov, “ma riuscii a metterci le mani sopra. Rimasi scioccato, sconcertato e smarrito. Non era un’analisi, ma solo fatti, fatti letali. Molti di noi non riuscivano a credere che quelle cose potessero essere vere. Per me è stato più facile. La mia stessa famiglia era stata una delle vittime della repressione degli anni Trenta”. In seguito Gorbaciov ha spesso definito “coraggioso” il discorso di Kruscev: non fu una rottura totale con il passato, ma fu comunque una rottura. Durante l’università, Gorbaciov incontrò e sposò Raissa Titorenko, una brillante studentessa di filosofia. Lei inizialmente evitò il ragazzo di campagna, ma alla fine si lasciò conquistare. Nei due anni successivi alla morte di Stalin, Mosca cominciò ad aprirsi a nuove idee. Nel 1954 fu pubblicato il romanzo di Ilya Ehrenburg “Il disgelo”. All’università Gorbaciov conobbe un giovane studente ceco, Zdenek Mlynár, che divenne un amico per la vita e con il quale si accesero burrascosi dibattiti. L’esperienza universitaria iniziò ad aprire ulteriormente gli occhi di Gorbaciov, ma allo stesso tempo “per me e per altri della mia generazione non si pose il problema di cambiare il sistema in cui vivevamo”. Dopo l’università, Gorbaciov decise di fare carriera nel Komsomol, la divisione giovanile del partito, come vicecapo del dipartimento di Agitazione e Propaganda. Si trattava di un percorso di carriera conformista. Gorbaciov si buttò a capofitto nel lavoro, affinando le sue capacità oratorie, spesso facendo viaggi nella regione di Stavropol per esortare i giovani a essere buoni socialisti e a credere nel partito. In un primo incarico, fu inviato in un distretto locale per decantare il discorso di Kruscev su Stalin. Ma il lavoro lo portò anche a confrontarsi con la desolazione della vita quotidiana, soprattutto negli angoli più arretrati del paese. Le impressioni di Gorbaciov furono plasmate e profondamente rafforzate da Raissa, che aveva fatto delle ricerche e aveva scritto una tesi sulla vita contadina di quegli anni. Per portare avanti le sue ricerche arrancava con gli stivali e girava in moto e in carrozza per la campagna russa. A Stavropol Gorbaciov scalò rapidamente i ranghi del partito fino a diventare il funzionario di grado più elevato, il primo segretario, dal 1970 al 1978. Nell’agricoltura e nell’industria, la mano pesante dello stato soffocava l’iniziativa individuale. Furti, servilismo, incompetenza e malessere erano ovunque. La pianificazione centrale era invadente e tristemente inefficiente. Gorbaciov era un leader di partito ma si confrontava quasi quotidianamente con l’assurdità del sistema che serviva. Riconobbe lo scollamento tra i burocrati della pianificazione centrale a Mosca, che impartivano ordini, e la realtà nelle fattorie e nelle città, dove gli ordini spesso non avevano senso. Le richieste venivano ignorate, le statistiche falsificate, i soldi spesi in modo inefficace e chiunque non si adeguasse veniva punito. “La minima deviazione dal percorso stabilito veniva stroncata sul nascere”, ha raccontato: “Se doveste avere delle idee vostre, preparatevi a passare dei guai. Potreste persino finire in prigione”. Un cambiamento radicale non era possibile in quegli anni. Ma Brown ha scritto in seguito che Gorbaciov era “l’innovatore più pragmatico che la temperie conservatrice dei tempi permettesse”. Sostenne un piano agricolo per dare autonomia a gruppi o squadre di lavoratori, comprese le famiglie. Nel 1978 scrisse un lungo promemoria sui problemi dell’agricoltura in cui chiedeva di dare “maggiore indipendenza alle imprese e alle associazioni” nel decidere le questioni chiave della produzione e del denaro. Ma non ci sono prove che queste idee abbiano mai attecchito su larga scala, e lui non era certo un radicale. Gorbaciov ha dichiarato di essersi finalmente reso conto, in qualità di capo del partito regionale, che nel sistema sovietico ci fosse qualcosa di molto più grave che non la semplice inefficienza, il furto e la scarsa pianificazione. Il difetto più profondo era che nessuno riusciva a proporre nuove idee. Il suo amico Mlynár era diventato un leader della Primavera di Praga, il movimento di liberalizzazione schiacciato dai carri armati sovietici e dalle truppe del Patto di Varsavia nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968. Un anno dopo, Gorbaciov visitò Praga e si rese conto che, per strada, la gente credeva sinceramente nella liberalizzazione e odiava la leadership sovietica: “Fu uno choc per me. Quella visita ribaltò tutte le mie convinzioni”. Gorbaciov visitò Italia, Francia, Belgio e Germania ovest. Ciò che vide in queste democrazie relativamente prospere era molto diverso da ciò che gli era stato mostrato nei libri, nei film e nelle trasmissioni radiofoniche della propaganda sovietica. Si rese conto che a più voci era consentito sfidare la struttura del potere. E “le persone lì vivevano in condizioni migliori e stavano meglio che nel nostro paese. Una domanda mi perseguitava: perché il tenore di vita da noi era inferiore a quello di altri paesi sviluppati?”. Con una mossa che lo portò in alto nella struttura del potere sovietico, Gorbaciov fu eletto segretario del Comitato Centrale e messo a capo dell’Agricoltura negli ultimi anni di potere di Leonid Brezhnev. Il segretario generale era malato e alcune riunioni del Politburo non duravano più di 15 o 20 minuti. L’Urss era in gravi difficoltà economiche. La guerra in Afghanistan, lanciata da un gruppo di persone vicine a Brezhnev, era un pantano. Le speranze di distensione degli anni Settanta svanirono e le tensioni tra le superpotenze aumentarono. Le file per il pane si allungarono. Nei primi quattro anni in cui Gorbaciov fu segretario all’Agricoltura si susseguirono quattro cattivi raccolti e massicci acquisti di grano sovietico all’estero. Dal momento dell’arrivo di Gorbaciov a Mosca, nel novembre del 1978, fino all’inizio degli anni Ottanta, si svolse un’intensa lotta di potere al Cremlino tra la vecchia guardia, bastioni del partito e dell’esercito, e un manipolo di riformatori, per la maggior parte accademici con idee fresche ma senza una base di potere. Quando Brezhnev morì nel 1982, si sperò che il suo successore, l’ex capo del Kgb Yuri Andropov, avrebbe posto fine alla lunga stagnazione. Andropov promosse un gruppo di funzionari più giovani, tra cui Gorbaciov, di cui era stato mentore. Gorbaciov portò con sé alcuni dei riformatori accademici. Ma Andropov morì nel 1984, dopo soli 15 mesi di mandato. Gorbaciov fu brevemente in lizza per la successione ad Andropov, ma fu messo da parte in una manovra dell’ultimo minuto a favore di Konstantin Chernenko, un accolito di Brezhnev di lunga data. Cinque settimane dopo la rielezione del presidente Ronald Reagan per un secondo mandato, nel dicembre 1984, Gorbaciov fece un viaggio storico a Londra, dove fece una grande impressione. Richiamò l’attenzione sui pericoli della guerra nucleare e sottolineò i timori sovietici di una corsa agli armamenti nello spazio. Promise “riduzioni radicali” delle armi nucleari. In sostanza, Gorbaciov non cambiò la politica sovietica, ma il suo stile giovane e vigoroso parlava chiaro. Sembrava promettere un approccio più flessibile, in netto contrasto con la rigidità del passato. Subito dopo la visita, il primo ministro Margaret Thatcher rilasciò un’intervista alla Bbc. Nella sua prima risposta a una domanda, dichiarò: “Mi piace il signor Gorbaciov. Possiamo fare affari insieme”. La sera di domenica 10 marzo 1985, Gorbaciov ricevette una telefonata dal medico del Cremlino, Yevgeny Chazov. Chernenko era morto per una malattia cardiaca e per le complicazioni di un enfisema. Il giorno successivo, Gorbaciov fu scelto come nuovo segretario generale. Gorbaciov ha ricordato di aver parlato a lungo con Raissa la mattina presto dell’11 marzo, passeggiando per i sentieri del giardino della loro dacia fuori Mosca poco prima dell’alba, parlando degli eventi e delle implicazioni. Gorbaciov le disse di essere stato frustrato per tutti gli anni trascorsi a Mosca, di non aver realizzato quanto avrebbe voluto, di essersi sempre scontrato con un muro. Per riuscire a fare davvero qualcosa, avrebbe dovuto accettare quel lavoro. “Non possiamo continuare a vivere così”, disse. Onde d’urto e la scomparsa di una nazione Nei primi giorni del suo mandato, Gorbaciov trasmise un’onda d’urto di eccitazione in una società moribonda. In un’epoca in cui le persone erano abituate a dichiarazioni ufficiali fiorite ma vuote, in cui i ritratti dei leader erano doverosamente appesi a ogni parete, in cui il conformismo soffocava l’opinione pubblica, lo stile di Gorbaciov era rinfrescante e diretto. Spesso parlava troppo, esitava sulle decisioni importanti e tardava a uscire dalla vecchia mentalità sovietica. Tuttavia, il cuore del suo impegno iniziale era quello di arrestare il declino del tenore di vita sovietico e di ringiovanire la società. Credeva che una discussione aperta fosse essenziale per la sopravvivenza del socialismo. Non temeva ciò che la gente aveva da dire. Credeva negli ideali di Vladimir Lenin, ma era giunto alla conclusione che i leader successivi a Lenin fossero andati fuori strada e la sua intenzione era quella di rimettere le cose a posto. Sarebbe stato molto più facile ricadere nelle vecchie abitudini, percorrere i vecchi sentieri ben battuti, ma Gorbaciov non lo fece. In un discorso combattivo ai comunisti di Leningrado presso l’Istituto Smolny, Gorbaciov parlò per la maggior parte del tempo senza appunti, insistendo sulla necessità di rivitalizzare l’economia, chiedendo che le persone che non potevano accettare il cambiamento si facessero da parte. “Toglietevi di mezzo. Non siate d’intralcio”, dichiarò. Anatoly Chernyaev, che sarebbe diventato uno dei più stretti consiglieri di Gorbaciov, scrisse nel suo diario all’epoca: “Finalmente abbiamo un leader che sa quello che fa e si diverte, che sa relazionarsi con le persone, che parla con parole sue, che non evita il contatto e non si preoccupa di apparire magistrale. Vuole davvero far uscire i nostri ingranaggi dall’impasse, svegliare il popolo, far sì che sia se stesso, che usi il buon senso, che pensi e agisca”. Ma poi anche Gorbaciov è inciampato. Una delle sue prime battute d’arresto fu una campagna contro l’abuso di alcol. La campagna fu ampiamente ridicolizzata e alla fine fu abbandonata, anche se Gorbaciov si era reso conto, correttamente, che l’alcolismo fosse diventato un flagello nazionale. La prima politica economica di Gorbaciov fu uno sforzo errato noto come “accelerazione”, basato sulla speranza che il sistema esistente potesse funzionare meglio. Non ci riuscì e fu una perdita di tempo. Nel frattempo, durante il suo primo anno, le pressioni economiche sull’Unione sovietica peggiorarono gravemente. L’Arabia Saudita aumentò la produzione di petrolio, un’eccedenza di greggio colpì i mercati mondiali, i prezzi crollarono e così i guadagni in valuta forte sovietica. In seguito, Gorbaciov puntò su una riforma economica più ambiziosa. Una delle sue innovazioni più significative furono le “cooperative”, le prime imprese private dell’Unione sovietica. All’inizio si trattava di piccole imprese in settori come la panificazione, la riparazione di scarpe e i servizi di lavanderia, ma attirarono l’attenzione dell’opinione pubblica come imprese private che si aprivano in un mare di stagnazione socialista. In seguito, furono seguite da discoteche e ristoranti. Una legge sulle cooperative sancì un principio di libertà che divenne il simbolo degli anni di Gorbaciov. La legge stabiliva che qualsiasi attività non specificamente proibita sarebbe stata permessa – una completa inversione di tendenza rispetto a decenni di pesanti imposizioni da parte dello stato. Le riforme economiche di Gorbaciov alla fine non furono sufficienti. Il sistema, costruito in decenni di rigida pianificazione centrale e di mancanza di iniziativa individuale, era troppo scricchiolante, malridotto e pieno di distorsioni, e si arenò. Nel 1990, Gorbaciov accarezzò un piano per trasformare il paese in un’economia di mercato in 500 giorni, ma lo scartò. La sua politica economica andava avanti e indietro. I suoi sforzi per riformare le industrie statali furono inefficaci. Si rifiutò di compiere un altro passo fondamentale: la liberazione dei prezzi dal controllo statale. Gorbaciov incolpò anche i pesanti oneri della corsa agli armamenti per i suoi fallimenti economici. “Le spese per la difesa stavano prosciugando gli altri settori dell’economia”, scrisse nel suo memoir. In politica, con il passare del tempo la rivoluzione dall’alto di Gorbaciov divenne sempre più radicale. Raggiunse il culmine il 26 marzo 1989, con la prima elezione relativamente libera dalla Rivoluzione bolscevica per una nuova legislatura sovietica, il Congresso dei Deputati del Popolo. Nelle votazioni, la leadership del Partito comunista a Leningrado fu estromessa, i partiti favorevoli all’indipendenza vinsero nei Paesi baltici e Eltsin, il riformatore radicale, trionfò a Mosca. L’establishment del Partito comunista subì un duro colpo. Quando la nuova legislatura si riunì per la prima volta dal 25 maggio al 9 giugno, Gorbaciov ordinò che i lavori fossero trasmessi in televisione. Con lo sguardo fisso, milioni di persone rimasero a casa dal lavoro per guardare le trasmissioni; i dibattiti aprirono una nuova strada per la libertà di parola. Ma come molte delle mosse audaci di Gorbaciov, anche questa ebbe un doppio risvolto. Gorbaciov, il partito, il Kgb e le forze armate vennero criticati apertamente e spesso con toni aspri. Ben presto, il margine di manovra di Gorbaciov cominciò a ridursi. Le forze di libertà e di apertura che aveva scatenato cominciarono a superarlo, creando ostacoli e resistenza aperta. Negli anni successivi, molti analisti hanno affermato che Gorbaciov perse un’importante opportunità nel 1990, quando avrebbe potuto dividere il Partito comunista in due: un’ala più progressista che aspirava alla socialdemocrazia dell’Europa occidentale e un altro ramo che ospitava la vecchia guardia. Se Gorbaciov avesse fatto questo salto, diventando il leader dei progressisti, avrebbe potuto superare le divisioni che si stavano creando intorno a lui. Ma Gorbaciov non lo fece e più tardi, nel corso dello stesso anno, si manifestò un contraccolpo; lo stesso Gorbaciov sembrò schierarsi con le forze reazionarie. Il ministro degli Esteri Eduard Shevardnadze, allarmato dalla deriva verso la linea dura, si dimise da ministro degli Esteri, avvertendo che “la dittatura sta arrivando”. In realtà, il potere di Gorbaciov stava scemando ed egli aveva superato l’apice della sua influenza come riformatore. Uno dei momenti più importanti del governo di Gorbaciov fu il disastro della centrale nucleare di Chernobyl nel 1986. Nei primi giorni dopo l’incidente, l’Unione sovietica cercò di nascondere la portata della catastrofe. Poi una nube radioattiva si diresse verso l’Europa e la verità non poté più essere nascosta. L’esperienza rafforzò in seguito la convinzione di Gorbaciov sul valore della glasnost, o apertura. Shevardnadze ha detto che Chernobyl “ci ha strappato la benda dagli occhi e ci ha convinto che la politica e la morale non possono divergere”.
Con il dolore di Chernobyl ancora fresco, quell’estate Gorbaciov si preparò a convincere Reagan a raggiungere un accordo su tagli più profondi alle armi nucleari strategiche, tentando al contempo di imbottigliare il piano di Reagan per una difesa missilistica globale, noto come Iniziativa di Difesa Strategica. I fisici sovietici avevano detto a Gorbaciov che secondo loro il piano di difesa missilistica di Reagan non avrebbe funzionato; Gorbaciov aveva già deciso di non costruire un sistema sovietico equivalente. L’Unione Sovietica non voleva, né poteva permettersi, una nuova corsa agli armamenti nello spazio. Tuttavia, i funzionari sovietici erano perplessi e preoccupati per il motivo per cui gli Stati Uniti stavano investendo denaro nel progetto di difesa missilistica, e sapevano che l’innovazione e la tecnologia americana avrebbero potuto essere una forza potente. Gorbaciov e Reagan si incontrarono a Reykjavik, in Islanda, l’11 e il 12 ottobre 1986, per quella che doveva essere una rapida discussione ma che ben presto si trasformò in molto di più. Improvvisarono, discussero e contrattarono per ottenere i tagli più profondi alle armi nucleari strategiche mai contemplati nell’èra nucleare. Alla fine, il 12 ottobre, una domenica pomeriggio e in prima serata, Gorbaciov chiese a Reagan di limitare la ricerca sulla difesa missilistica al laboratorio. Gorbaciov aveva pianificato questa sfida a Reagan fin dall’inizio. Il presidente si rifiutò. I due si lasciarono bruscamente e il vertice si concluse senza un accordo. In quel momento la rottura sembrò un disastro diplomatico, ma in seguito portò a nuovi progressi nel controllo degli armamenti nucleari. Nel corso dell’anno successivo, Reagan e Gorbaciov si accordarono per eliminare un’intera classe di missili ad armamento nucleare, i missili a raggio intermedio in Europa, firmando un trattato per eliminarli al vertice di Washington del 1987, dove Gorbaciov fermò spontaneamente la sua limousine sulla Connecticut Avenue e iniziò a stringere la mano ai passanti entusiasti. Nel 1988, in un discorso alle Nazioni Unite, Gorbaciov annunciò un massiccio ritiro delle truppe convenzionali in Europa. Tuttavia, in seguito si scoprì che mentre Gorbaciov e Reagan stavano negoziando la riduzione delle armi nucleari, l’Unione sovietica stava continuando a gestire un vasto programma nascosto di armi biologiche, in violazione degli obblighi previsti dal trattato. Il “nuovo pensiero” di Gorbaciov in politica estera mirava a porre fine all’idea di un inesorabile confronto tra due blocchi. Gorbaciov eliminò la “dottrina Breznev” del sostegno sovietico ai paesi socialisti. Disse ai leader dell’Europa orientale che d’ora in poi avrebbero dovuto cavarsela da soli. Mosca non avrebbe più imposto loro cosa fare e non avrebbe mai più fatto ricorso alla forza militare, una lezione che Gorbaciov aveva tratto dalla Primavera di Praga. Questo allentamento delle redini contribuì alla caduta del Muro di Berlino nel 1989, dopo la quale Gorbaciov acconsentì all’unificazione della Germania all’interno dell’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico. Nello stesso anno completò il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan. In tutte queste mosse, Gorbaciov incontrò una forte resistenza interna da parte dei militari e del complesso militare-industriale. Erano riluttanti a rinunciare a qualsiasi cosa, sia al territorio che ai missili a raggio intermedio. Il 28 maggio 1987, un sognatore diciannovenne di Amburgo, Matthias Rust, pilotò un piccolo monomotore da Helsinki a Mosca e atterrò sulla Piazza Rossa, sfidando le difese aeree sovietiche. Gorbaciov licenziò il capo delle difese aeree, accettò le dimissioni del ministro della Difesa e licenziò circa 150 alti ufficiali militari. Gorbaciov ha commesso un errore nella gestione delle rivolte all’interno dell’Unione sovietica. Voleva devolvere più potere alle repubbliche interne tenendole insieme in una federazione volontaria, ma alcune di esse, guidate dai paesi Baltici, ambivano alla piena indipendenza. Come ha notato lo studioso di Oxford Brown, all’interno della macchina del partito-stato, compresi i militari e le agenzie di sicurezza, c’era già una rabbia repressa nei confronti di Gorbaciov e una scarsa volontà di perdere qualsiasi parte dell’Unione sovietica. Gorbaciov stava ancora perfezionando una proposta di trattato per tenere insieme l’Unione quando si recò nel ritiro del leader sovietico a Foros, in Crimea. Alle sue spalle, gli integralisti pianificavano un tentativo di colpo di stato, che fu messo in atto domenica 18 agosto 1991. Il tentativo collassò nel giro di pochi giorni, in parte vanificato da Eltsin, che giurò di resistere ai putschisti in una dichiarazione letta in piedi su un carro armato nel centro di Mosca. Quando Gorbaciov tornò nella capitale il 22 agosto, la tensione aveva colpito duramente la sua famiglia. L’ultimo giorno in Crimea, Raissa aveva avuto un piccolo ictus. “Sono tornato da Foros in un altro paese e io stesso sono un uomo diverso”, dichiarò Gorbaciov. Ma non si rese conto di quanto il paese si fosse profondamente trasformato. Il vecchio sistema – il partito e lo stato che avevano plasmato la sua vita e che lui aveva condotto alla glasnost e alla perestrojka – era ormai morto. Forse sconvolto o preoccupato per il trauma della sua famiglia, Gorbaciov annaspò. Non si rivolse alla grande folla nelle strade. Non si rese conto di quanto la gente fosse cambiata e desiderasse una rottura totale con il vecchio sistema. Gorbaciov disse a una conferenza stampa che il Partito comunista rimaneva una “forza progressista”, nonostante il tradimento dei suoi capi, i golpisti. Due giorni dopo, sotto la pressione di Eltsin, si ritirò, dimettendosi da segretario generale del partito e chiedendo lo scioglimento del Comitato centrale. Eltsin sospese le azioni del Partito comunista dell’Unione sovietica. Il paese si stava rapidamente disintegrando con l’affermazione dell’indipendenza delle Repubbliche, alcune prima e altre dopo il tentativo di colpo di stato. Poi, l’8 dicembre, a Belovezhskaya Pushcha, una località di caccia fuori dalla città di Brest, in Bielorussia, Eltsin e i leader di Ucraina e Bielorussia dichiararono sciolta l’Unione sovietica e formarono una nuova Comunità di stati indipendenti senza informare Gorbaciov, accelerando il crollo. Il 25 dicembre, Gorbaciov si dimise e passò il controllo delle armi nucleari a Eltsin, in qualità di presidente della Federazione russa. Gorbaciov tenne un breve discorso dal Cremlino. Quando era entrato in carica nel 1985, Gorbaciov aveva detto che era una vergogna che una nazione così dotata, così piena di risorse naturali e di talenti umani donati da Dio vivesse tanto male rispetto ai paesi sviluppati del mondo. Incolpava il sistema di comando e l’ideologia sovietica e il “terribile fardello della corsa agli armamenti”. Il popolo sovietico aveva “raggiunto i limiti della sopportazione”, aveva detto. “Tutti i tentativi di riforma parziale – e ce ne furono molti – fallirono, uno dopo l’altro. Il paese stava perdendo il suo futuro. Non potevamo continuare a vivere così. Tutto doveva essere drasticamente cambiato”. Sulla democrazia Negli anni successivi al crollo dell’Unione sovietica, Gorbaciov lavorò in una fondazione da lui stesso creata a Mosca. Era celebrato come un eroe da molte platee straniere e appariva spesso all’estero come paladino delle cause ambientaliste, ma in patria era considerato un uomo finito durante gli anni Novanta, gli anni del cambiamento sotto Eltsin. Gorbaciov era amareggiato per il ruolo di Eltsin nel crollo sovietico, ma non potè fare molto. Quando si candidò alla presidenza nel 1996, ottenne soltanto lo 0,51 per cento dei voti. Raissa morì nel 1999 e al suo funerale, con l’aria stremata e affranta, Gorbaciov si chinò sulla bara aperta e le posò un bacio sulla fronte. Tra i sopravvissuti c’è la figlia Irina Mikhailovna Virganskaya. Gorbaciov, che fu tra coloro che fondarono il giornale ferocemente indipendente Novaya Gazeta, rimase in disparte nei primi anni del governo di Vladimir Putin. Ma negli anni successivi parlò in modo sempre più tagliente delle inversioni democratiche sotto Putin, che ha ricreato un sistema politico largamente dominato da un solo partito, ha represso le libertà di stampa, ha soffocato la società civile. In occasione dei festeggiamenti per il suo ottantesimo compleanno, nel 2011, disse che Putin ha costruito una finta democrazia: “Abbiamo tutto: un Parlamento, dei tribunali, un presidente, un primo ministro e così via, ma è più che altro un’imitazione”. Gorbaciov assistette anche alla fine dell’accordo sul controllo degli armamenti che aveva firmato con Reagan, il Trattato Inf. Nel 2018 scrisse che entrambe le nazioni avrebbero dovuto perseverare nel controllo delle armi nucleari e scongiurare una nuova corsa agli armamenti – che, disse, era già in corso. “Di fronte a questa terribile minaccia alla pace, non siamo impotenti”, disse: “Non dobbiamo rassegnarci, non dobbiamo arrenderci”. David E. Hoffman è al Washington Post dal 1982, ha lavorato a lungo da Mosca ed è autore di molti saggi, tra cui “The Dead Hand”, premio Pulitzer nel 2010. Ha collaborato Mary Ilyushina


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Fabrizio Dragosei per il Corriere della SeraÈ morto ieri a Mosca, dopo una lunga malattia, Mikhail Gorbaciov. Sarà sepolto accanto alla moglie Raissa nel cimitero di Novo Devichye. Della guerra di Putin aveva detto, secondo il direttore dell’Eco di Mosca, pochi mesi fa: «Questa invasione ha rovinato tutti i suoi precedenti sforzi per la Russia».
Quando uscì il suo nome dalla riunione del Politburo che doveva scegliere il successore di Konstantin Chernenko, tutti furono presi alla sprovvista. Il candidato più quotato era Viktor Grischin, 68 anni, un altro esponente della gerontocrazia che da tempo governava l’Urss. Dopo Leonid Brezhnev, morto a 76 anni nel 1982, era venuto il sessantottenne Yurij Andropov, e poi, dopo soli due anni, il settantatreenne Chernenko che se n’era andato il 10 marzo 1985. Invece questa volta il vertice del partito aveva accolto la raccomandazione che Andropov aveva fatto in punto di morte. «Scegliete un giovane, scegliete Gorbaciov perché lui è l’unico che può ridare slancio al Paese, rimettere in piedi l’Urss e ridare fiato al partito».
Così il cinquantaquattrenne Mikhail Sergeyevich, che da poco era diventato membro effettivo del supremo organo di governo dell’Urss, l’11 marzo del 1985 si ritrovò sulla poltrona di Gensek, a coronamento di una carriera brillante, iniziata nella nativa regione di Stavropol, a ridosso della Crimea. Era lì che il giovane Mikhail, nato nel 1931, aveva vissuto il disgelo dell’epoca di Krusciov, che tante speranze aveva suscitato nei quadri più dinamici. Ed era lì che era nata la sua fortuna quando si era trovato, come segretario del partito per la regione, ad accompagnare in vacanza il potente capo del Kgb Andropov, che lo aveva preso sotto la sua ala protettiva.
Già il suo aspetto, il fatto che la moglie Raissa comparisse in pubblico, il voler girare il Paese e incontrare la gente furono visti come una rivoluzione. Si parlò di un nuovo disgelo, mentre lui spiegava che il Paese aveva bisogno di una «accelerazione» per tentare di riguadagnare il terreno perduto nei confronti dell’Occidente.
La situazione, come sapeva bene il Kgb, era disastrosa. Alla stagnazione brezheviana era seguita negli anni Settanta la ripresa della corsa agli armamenti. Ronald Reagan aveva dato il colpo finale con il suo programma di Guerre Stellari che aveva gettato nel panico i militari e aveva fatto saltare ogni piano economico. L’Urss non ce la faceva a produrre generi di consumo, le spese militari erano folli, l’avventura in Afghanistan («per contenere l’avanzata del capitalismo») stava dissanguando il Paese in tutti i sensi.
All’«accelerazione», con gli incentivi alla produttività, fece seguito il programma per legare i salari al lavoro, abbandonando l’egualitarismo. Poi arrivarono la Perestrojka e la Glasnost. Ristrutturazione del sistema economico sovietico con l’introduzione di fortissimi elementi di mercato. E in più la Trasparenza, la partecipazione del popolo di cui Gorbaciov ricercava il consenso.
Di pari passo andava avanti la trasformazione politica. Via i vecchi conservatori dai posti chiave, nel governo e nel partito: Eduard Shevardnadze prendeva al ministero degli Esteri il posto di Andrej Gromiko, sopravvissuto ai tempi di Stalin. Andrej Sakharov ritornava a Mosca dall’esilio interno. Veniva convocata la Conferenza del Pcus nella quale per la prima volta nasceva una specie di «corrente», la piattaforma democratica. Poi le elezioni libere, fino alla storica abolizione nel 1990 dell’articolo 6 della Costituzione che stabiliva il ruolo guida del partito.
Intanto il gensek (generalnij sekretar) affrontava la folle corsa agli armamenti, tentando di convincere gli americani che l’immagine che proiettavano di lui le tv e i giornali popolari era quella vera. La prima a credere in lui fu Margaret Thatcher: «We can do business together» (possiamo lavorare insieme). Al primo vertice, a Ginevra, Reagan non fece grosse aperture. Ma poi gli accordi sulla limitazione delle testate, dei missili intercontinentali, arrivarono, con Reagan e con Bush padre. L’Urss poteva ora destinare le sue risorse a migliorare il tenore di vita dei suoi cittadini.
Forse, però, era ormai troppo tardi. La resistenza dei burocrati, dei direttori delle fabbriche, di tutta la nomenklatura era fortissima. Gorbaciov non ebbe il coraggio di spingere fino in fondo e, per questo, venne abbandonato dai riformisti più accesi, come Eltsin e Shevardnadze. La campagna contro la vodka aveva contribuito a minare la sua popolarità che all’inizio era stata altissima. Poi venne il programma dei cinquecento giorni di Grigorij Yavlinskij, che avrebbe dovuto portare all’introduzione in Urss dell’economia di mercato. Davanti agli attacchi durissimi dei vecchi boss, da Ligaciov a Ryzhkov, Gorby, come lo chiamavano all’estero, fece marcia indietro. Abbandonò il giovane economista per adottare invece un programma assai più moderato. Fu avviata la riforma monetaria che portò alla corsa verso gli accaparramenti nei negozi. Ore di fila per ricevere una salsiccia. Razionati zucchero, sigarette, sapone.
I radicali si erano raccolti attorno a Boris Eltsin che dopo essere stato cacciato dal vertice era «resuscitato» con l’elezione trionfale alla presidenza del Soviet Supremo russo.
L’impero iniziava a sfaldarsi. La vittoria di Solidarnosc alle elezioni polacche del 1989, l’apertura delle frontiere da parte dell’Ungheria, il crollo del muro di Berlino il 9 novembre dello stesso anno, al quale Gorbaciov ebbe l’accortezza di non opporsi. Poi la «recessione» delle tre repubbliche baltiche. Gorbaciov tentò di tenere assieme i cocci dell’Urss ricorrendo al Trattato dell’Unione, tra tutte le altre Repubbliche. Ma la situazione si faceva sempre più difficile. Il segretario, diventato nel frattempo presidente dell’Urss, era incerto, ondeggiava tra i riformisti e i conservatori. Questi ultimi ebbero l’impressione che avrebbe avallato una loro iniziativa per rimettere le cose a posto. E alla vigilia della firma dell’accordo, il 19 agosto 1991, tentarono il colpo di Stato. Sulla carta erano in grado di controllare il Paese: Primo Ministro, ministro dell’Interno, capo del Kgb. Non avevano messo nel conto il fatto che i cittadini dell’Urss erano cambiati. E che Boris Eltsin non era disposto a cedere.
Quando Corvo Bianco si presentò ad arringare la folla davanti al palazzo del Soviet Supremo e salì su uno dei carri armati mandati dai golpisti, l’esercito non reagì. Il colpo di stato era fallito (solo il ministro dell’Interno Pugo si suicidò, gli altri finirono brevemente in prigione).
Il potere oramai era nelle mani del capo della Russia, la repubblica più importante dell’Urss. Di fronte a un nuovo tentativo di Gorbaciov di rilanciare il Trattato dell’Unione, Eltsin passò all’attacco. Assieme ai capi delle altre due repubbliche slave, Bielorussia e Ucraina, decise l’8 dicembre lo scioglimento dell’Urss. Il giorno di Natale del 1991 la bandiera sovietica veniva ammainata dal pennone più alto del Cremlino. Gorbaciov doveva lasciare una poltrona che non esisteva più.
Il «dopo» scioglimento dell’Urss è una storia diversa. Amatissimo all’estero, l’ultimo gensek era odiato in patria. Un suo tentativo di rientrare sulla scena politica, alle elezioni del 1996, fu catastrofico: riportò meno dell’1 per cento dei voti. Ritiratosi nella fondazione che portava il suo nome, ebbe un altro durissimo colpo nel 1999, con la morte dell’amata Raissa. Con Putin, Gorbaciov era uscito in Russia dall’elenco dei «non esistenti» e aveva ricominciato ad avere un ruolo anche di rappresentanza internazionale. Poi, di fronte alla svolta autoritaria di Vladimir Vladimirovich, aveva preso le distanze dal Cremlino, criticando più volte le scelte di Putin. Fino a diventare uno dei proprietari (assieme all’oligarca Aleksandr Lebedev) del giornale d’opposizione Novaya Gazeta p er il quale aveva lavorato Anna Politkovskaya. Nel marzo 2021, per il suo novantesimo compleanno, il portavoce del presidente parlando con i giornalisti disse semplicemente che al Cremlino si guarda a Gorbaciov come a una «parte della storia, con grande rispetto». Certamente saranno molti di più quelli che lo piangeranno nel resto del mondo e soprattutto in Germania.
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Paolo Valentino per il Corriere della SeraUn eroe tragico, un gigante senza pace, il comunista che cercando di salvarlo seppellì il comunismo, il patriota che con le migliori intenzioni preparò la fossa al primo Stato socialista della Storia.
Tutto questo e altro ancora è stato Mikhail Sergeyevich Gorbaciov, l’uomo che, come Icaro, pensò di poter volare vicino al sole ma finì per distruggere sé stesso e l’opera che voleva preservare.
Se potessimo arbitrariamente ridurre a una sola persona, a una sola biografia il Novecento e quelle che Paul Klee chiamava le sue Harte Wendungen, le sue svolte brusche, molto probabilmente questa sarebbe Gorbaciov, ultimo leader dell’Unione Sovietica, vero demolitore del Muro di Berlino e architetto di quella perestrojka che si rivelò il canto del cigno della Superpotenza comunista.
«Non si poteva andare avanti allo stesso modo», disse in una delle ultime interviste ricordando il suo disperato tentativo di riformare un sistema ormai ossificato, travolto dalla bancarotta ideologica, politica ed economica. Un passo obbligato, nella sua visione, ma un passo avventato. Che in fondo lo denudò come cattivo marxista: al contrario dei compagni cinesi, che avrebbero aperto a un capitalismo selvaggio stringendo le viti della democrazia e difendendo brutalmente il ruolo di guida del partito, Gorbaciov iniziò dalla sovrastruttura politica (la glasnost, la fine della censura, il diritto a manifestare) mentre si mosse poco e confusamente nella struttura economica, mezze riforme e timide aperture al mercato.
E intanto, costretto dal riarmo dell’America di Reagan e sperando negli aiuti dell’Occidente, col quale si era vantato di avergli tolto il nemico, cedette pezzo per pezzo i cardini della potenza sovietica: gli euromissili, le armi strategiche e quelle convenzionali, il patto di Varsavia, le aree di influenza.
Quando nel 1989, il generale Sergeij Akromeev incontrò per la prima volta il nuovo capo della delegazione americana ai negoziati Start, Richard Burt, gli disse senza perifrasi che Gorbaciov aveva tradito il comunismo, ma che lui, che aveva combattuto nell’assedio di Leningrado, non avrebbe mai permesso che l’Unione Sovietica venisse umiliata in quella trattativa. Andò diversamente. Ma l’aneddoto conferma che quella di Gorbaciov era la ricetta perfetta per essere odiato in patria: i russi stavano peggio, vedevano la loro superpotenza denigrata e per la prima volta in quattro secoli potevano anche protestare a voce alta.
L’Occidente e il mondo devono però molto a Michail Sergeyevich, che non si è mai pentito delle sue scelte, convinto che non si potessero negare le aspirazioni alla libertà e alla democrazia di polacchi e cechi, ungheresi e tedeschi dell’Est. Rimane scolpita nel marmo la frase con cui ammonì Erich Honecker, eterno leader della Ddr, innescandone la fine: «La vita punisce chi arriva in ritardo». Il paradosso fu che la profezia sarebbe valsa anche per lui.
Si è sempre lamentato Gorbaciov, che dopo la fine della Guerra fredda i leader occidentali non seppero costruire una nuova architettura della sicurezza in Europa. E che nell’umiliazione inflitta alla Russia negli anni Novanta affondino le radici del revanscismo neo-imperiale di Vladimir Putin. Verità elementare.
Ma la sua ferma convinzione che ogni nazione dovesse decidere da sé il proprio destino, riassunta da un suo collaboratore nella cosiddetta «dottrina Sinatra» citando la celebre My Way, è l’esatto opposto della pretesa dell’attuale leader del Cremlino di poter imporre lui, a suon di cannonate, cosa debbano essere un Paese e un popolo. Requiem per un grande della Storia.