la Repubblica, 30 agosto 2022
Il canto del cigno nero Serena Williams
Essere brave è un conto, lasciare il segno è diverso. E quando ci riesci ti dicono che hai vinto: «In and out the court». Dentro e fuori il campo. Lei ci è riuscita, è stata quello che Obama ha rappresentato per l’America e per il mondo. Per questo la rivista Time scrive che Serena Williams, impegnata a New York nel suo ultimo torneo, è la più grande atleta di sempre. Si sa gli americani tendono all’esagerazione, ma forniscono anche prove. Biglietti esauriti per il suo torneo di addio. Serena lascia a 41 anni non ancora compiuti (il 26 settembre). È mamma di Alexis Olympia, 5 anni, che non ama essere trascurata per il tennis e insiste per una sorellina. Serena è stata grande, ha cambiato il gioco, anche se non ha vinto più di Slam di tutte in singolare, l’australiana Margaret Court con 24 è ancora insuperata. Williams l’ha sfiorata con 23, dieci dei quali ottenuti dopo i 30 anni. Ma sicuramente ha contato, ha firmato un’epoca e ha dimostrato che una black woman poteva vincere anche nello sport delle bianche. Ci sono le testimonianze.
Naomi Osaka che nel 2018 la sconfisse in finale proprio a New York: «Ricordo che da ragazzina ero felice di vedere in tv una forte donna nera che giocava a tennis. Anche se si ritira lascia eredi: Coco Gauff, Sloane Stephens, Madison Keys. Serena è l’atleta migliore di sempre, nessuna ha rivoluzionato lo sport come lei. Non solo tra le donne». Il pilota Lewis Hamilton, sette titoli mondiali in F1: «Nel mondo dell’automobilismo sono l’unico nero, a darmi fiducia è stato vedere eccellere Serena, ma anche sua sorella Venus». Nel 2017 quando Serena giocò l’Australian Open era incinta, il dottore le consigliò prudenza, lei attaccò tutte le palle e non perse nemmeno un set. «Pensai che se me la sbrigavo in fretta sarebbe stato meglio per la gravidanza». Tra il pubblico c’era anche Allyson Felix, velocista americana, che a 35 anni, da mamma, a Tokyo è diventata l’atleta Usa con più medaglie olimpiche (11), superando anche Carl Lewis. «Serena mi ha influenzata e mi ha fatto capire che si poteva essere donne e atlete».
Nella sua epoca Serena è stata la più grande, si è battuta per sé e per i diritti civili, si è impegnata ad aprire il tennis anche a chi veniva dai ghetti (il suo era quello di Compton), ha sostenuto fondazioni e il Black Lives Matter. Come Nina Simone ha cantato in altri modi e a racchettate «Black is the colour», ha dato orgoglio alle curve e ad un’estetica diversa. È stata moderna, contemporanea, cool. Si è vestita, truccata, comportata come le piaceva. Perfettamente a suo agio nel mondo dell’intrattenimento e in quello del business, è presente in una dozzina di società che valgono un miliardo di dollari e che sono state fondate da donne nere. Insomma, una vincente, con un popolo dietro. Anche di consumatrici. Le spettano i meriti di una numero uno che ha sfondato cancelli e ha aperto strade. Ma non è stata la prima. Althea Gibson, che veniva da Harlem, è stata la prima afroamericana nel ‘50 a partecipare all’Us Open e nell’estate del ‘57, la prima a vincere Wimbledon, in tempi in cui a Chicago le rifiutavano una stanza d’albergo e anche di farla mangiare nel ricevimento dato in suo onore. Billie Jean King, 39 titoli del Grande Slam (così per capirci), prima di Serena, ha capovolto leggi, mentalità, gerarchie. In tempi in cui le donne non potevano giocare in pantaloncini e nemmeno avere un libretto di assegni senza la garanzia del marito. Il suo successo su Bobby Riggs nella «Battaglia dei Sessi» nel ’73 incoraggiò anche le impiegate americane a chiedere un aumento. Non solo, ma Obama citò quell’incontro alle figlie per spiegare il valore dei soldi. E il movimento che oggi agita lo sport, «Equal pay for equal work», nasce da lì. Billy Jean ha marchiato la storia del tennis, ha sofferto (perse tutti gli sponsor quando disse che amava le donne), ha aperto lo sport ai transgender, giocando ildoppio con Renée Richards, ha fatto la corista per Elton John che per lei scrisse «Philadelphia freedom», è finita nelle vignette di Charles Schulz, creatore dei Peanuts. Anche Martina Navratilova, 59 prove del Grande Slam, ceca di nascita e naturalizzata americana (’81) è andata contro: ha rifiutato nel ’75 il regime comunista, ha chiesto asilo politico, rimanendo apolide per diversi anni, la prima a dire pubblicamente di essere gay e a fare esercizio fisico in palestra a dimostrazione che il suo tennis era di attacco e non un pregiato ricamo. È stata immensa anche la corsa dell’olandese Fanny Blankers Koen, soprannominata «Mammina Volante» perché a trent’anni, con due figli, vinse nel ’48 quattro ori ai Giochi di Londra (80 hs, 100, 200, 4x100). Erano altri tempi: su 4.000 atleti le donne erano solo 385. A Fanny avevano detto: sei troppo vecchia, accontentati di fare la mamma. Non la conoscevano: su una pista in cenere trasformata in campo di patate in otto giorni corse 11 prove e le dominò tutte. Gambe secche, fisico asciutto, Fanny non solo vinse, ma fece correre le donne fuori dalle caverne. Stabilì 20 primati mondiali, con lei l’atletica femminile saltò avanti. E lei lo sapeva. In un’intervista dichiarò che Madame Curie, Maria Montessori, Katherine Mansfield e Fanny Blankers erano le quattro donne più importanti del secolo. Quando rientrò in patria al suo paese le regalarono una bicicletta: «Per non fare più tanta fatica». L’addio alle armi di Serena merita un grazie. Per aver cambiato gioco. Grande, grandissima, ma in buona compagnia.