La Stampa, 30 agosto 2022
L’immortalità è una seccatura
Immagino che il sopravvivere come un fantasma, per esempio come un filmato su YouTube, appaia come una modesta sopravvivenza, quasi una presa in giro o un modo di dire. Non è vero, per almeno tre motivi.
Primo, quello che sopravvive è un significato, non un aggregato di particelle. Ho sempre trovato futile la considerazione per cui, se nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma, nessuna distruzione è reale, e prevale la trasformazione. Sapere che nello yogurt che mangio in questo momento ci potrebbero essere degli atomi di mia madre non mi dà consolazione, né per me né per lei, ma soltanto ribrezzo, ed è per questo che preferisco non pensarci. Mia madre era mia madre anche per gli atomi che la componevano, ma soprattutto per la forma che quegli atomi avevano preso in un organismo e in una esistenza storica. Tolte queste due circostanze, mi sembra che il ripresentarsi di particelle di mia madre nella mia colazione sia testimonianza, più che di una circolazione universale della vita, di un processo di riciclaggio.
Secondo, se la sopravvivenza è quella di un significato, è selettiva, ossia bisogna meritarsela. Non a tutti è dato di vivere nei cuori degli americani, proprio come non a tutti è dato di vivere in una casa. Ma se vivere in una casa è un diritto, dunque dormire per strada è una ingiustizia, per vivere nei cuori (o più esattamente nelle memorie) di postumi, quale che ne sia la nazionalità, bisogna aver fatto qualcosa di notevole, nel bene o nel male. Ecco dunque una forma di paradiso laico e, soprattutto, senza dogmi, perché sono i postumi che sceglieranno. Sono sicuro (basta leggere il testamento politico che dettò poche ore prima di suicidarsi) che Hitler fosse sicuro che sarebbe vissuto nei cuori dei tedeschi. Sappiamo che (nonostante delle minoranze rumorose), Hitler sopravvive nel disonore e nel disprezzo, e, per sopravvivere così, meglio non essere ricordati. Il Weltgericht, il tribunale della storia, può benissimo ingannarsi, ma mai quanto gli individui si ingannano su se stessi. Così, proprio come ci ricordiamo Hitler per la sua cattiveria, abbiamo assistito ancora in tempi recenti a politici che, a torto o a ragione, si sono richiamati a Churchill.
Terzo, sopravvivere come un fantasma è molto meglio che sopravvivere in carne ed ossa, come si annuncia oggi. Mi chiedo se anche in questa campagna elettorale Berlusconi si giocherà la carta, già utilizzata all’inizio del secolo, di promettere a tutti centovent’anni di vita. Oltre al fatto che lui per primo dimostra quanto sia problematico pretendere di fermare il tempo, non si capisce cosa possa esserci di attraente nel vivere centovent’anni in un mondo già minato dalla sovrappopolazione e dall’invecchiamento dei suoi abitanti, e dai problemi economici, sociali e climatici che questo comporta. Non oso immaginare cosa accadrebbe se si vivesse milleduecento anni, per non dire dodicimila o centoventimila. Centoventimila anni fa gli umani vivevano nelle caverne, erano antropofagi, analfabeti, e immagino maleducati. Cioè quello che noi appariremmo, oltretutto senza la possibilità di cambiare a causa dell’età molto avanzata, ai nostri posteri del 122022. È questo che vogliamo?
Fra tutte le opere che segnalano le controindicazioni della vita sempiterna (e non eterna, perché nascere nasciamo tutti) la migliore, per un consenso abbastanza diffuso almeno tra i filosofi, è Il Caso Makropoulos, una commedia del ceco Karel ?apek. Debuttò nel dicembre 1926, ma già nel dicembre dell’anno precedente era uscita la versione operistica che Janá?ek aveva realizzato d’accordo con l’autore, e che oggi è probabilmente molto più conosciuta e rappresentata della commedia. La protagonista è una donna di quasi quattrocento anni, che però ne dichiara quarantadue e sembra più giovane dell’età pseudoanagrafica. Ha vissuto molte vite, fatto molti lavori (adesso è una cantante d’opera), avuto molti amori e molta felicità ma, come si può immaginare, non ne può più, tanto è vero che rinuncia a bere la pozione magica che le aveva garantito l’immortalità e muore, mentre una giovane donna, scontentando parecchi anziani signori intorno a lei, ne brucia la ricetta.
Ma allora perché ci sono religioni che promettono la vita sempiterna nell’aldilà e le propagande elettorali che promettono centovent’anni nell’aldiqua? Semplicemente perché, come spesso accade, non si prendono in considerazione le controindicazioni di una vita lunghissima, che invece sono rappresentate vividamente nella commedia di ?apek.
La principale di queste controindicazioni, secondo il filosofo Bernard Williams che ha dedicato un saggio all’argomento (The Makropoulos case: reflections on the tedium of immortality, in Problems of the Self. Philosophical Papers 1956-1972, Cambridge University Press 1973), è il tedio infinito di una vita più o meno uguale e sempre prevedibile. Queste controindicazioni sono espresse con particolare evidenza perché il saggio stesso è noioso quanto basta, il che lo rende più convincente ma meno attraente di una analoga vicenda (in fumetti e in cartoni animati) in cui Qui Quo Qua sono costretti a ripetere il giorno di Natale più e più volte, con il conseguente senso di sazietà, noia, insofferenza che viene dalla ripetizione. Non credo che l’argomento di Williams e di Qui Quo Qua sia invincibile, perché ci sono persone che si annoiano sempre e persone che non si annoiano mai – la serotonina gioca la sua parte –, e per una Emilia Marty annoiata dalla vita eterna c’è sempre un Doctor Faustus disposto a stringere un patto che, da norma contrattuale, lo porterà non alla vita, ma alla dannazione eterna, o un Professor Nietzsche che, come rimedio a una notte di mal di denti, propone l’eterno ritorno di tutte le cose, mal di denti incluso.
La controindicazione di una vita lunghissima non è psicologica, ma sociale. Una vita di centovent’anni o più per tutti è insostenibile ecologicamente ed economicamente; l’immortalità per i più ricchi è una ingiustizia che, forse, apparirebbe evidente anche a Elon Musk. Ma supponiamo che, come appunto nel caso Makropoulos, un qualche filtro magico strettamente individuale permettesse a un singolo, all’insaputa degli altri, di vivere quanto vuole a una età di sua scelta. Possiamo essere sicuri che non si annoierebbe ma, piuttosto, sarebbe in preda a uno stress insopportabile, perché in effetti la parte della sua formazione che conta, quella, diciamo, dei primi quarant’anni di vita, diventerebbe desueta reincarnazione dopo reincarnazione. Come pretendere che una donna nata a Creta nel XVI secolo possa servirsi di Uber? Sarebbe già tanto se si fosse abituata alle automobili, ma di certo non avrebbe imparato a guidare (a quarant’anni è difficile, impossibile se questi quarant’anni sono scoccati tre secoli prima dell’invenzione del motore a scoppio). Soprattutto, come pretendere che veneri Danton come eroe della rivoluzione se lo ha conosciuto e aveva i denti marci? All’obiezione di un estimatore, «I denti di Danton non erano marci. Non può provarlo. E, anche se lo fossero, che cosa importa? È irrilevante», Emilia Marty risponde: «Non è irrilevante. È disgustoso». «Se così fosse, non ci sarebbe nulla di grande nella storia». «Non c’è». «Prego?». «Non c’è mai stato niente di grande nella storia. Lo so». Ecco perché ci sono molte ragioni per cui vivere nei cuori di qualcuno: sopravvivere come un fantasma, è preferibile a vivere troppo a lungo a casa propria.