il Giornale, 30 agosto 2022
I 40 anni di Nebraska di Bruce Springsteen
Nel 1981, Bruce Springsteen aveva ottenuto il successo con il singolo Hungry Heart e con l’album The River. Però qualcosa non andava. Passava troppo tempo in studio. Il prossimo disco sarebbe stato diverso. Avrebbe preparato tutto quanto a casa e solo successivamente avrebbe convocato i musicisti della E-Street Band. Chiamò il tecnico del suono e si fece installare in camera da letto un registratore a quattro piste, il minimo della tecnologia disponibile. Quattro piste: una per la chitarra acustica; una per la voce; e le restanti due per piccole sovrincisioni o per un tamburello.
Il 3 gennaio 1982, Springsteen incise, una dopo l’altra, quindici canzoni. Si mise il nastro in tasca e andò in studio. Niente da fare. Gli arrangiamenti erano sempre pessimi. A un certo punto, ebbe una illuminazione. Non c’era bisogno di arrangiare un bel niente. Il disco ce l’aveva già. Nebraska sarebbe stato un album di Springsteen e basta, voce e chitarra.
Il pubblico si aspettava di ballare. Invece, quando la puntina si abbassava sul vinile, era chiaro che il disco non avrebbe fatto da colonna sonora ad alcuna festa. Il Boss aveva mandato tutti a riflettere sulla violenza della società americana.
Nebraska compie quarant’anni e Leonardo Colombati lo celebra con un bel saggio, canzone per canzone, con testi originali e traduzioni a fronte (Nebraska. Bruce Springsteen, Sironi editore, pagg. 122, euro 12). Il libro offre una ghiotta occasione per riascoltare il disco definitivo di Springsteen, «definitivo» nel senso che probabilmente è la sua vetta artistica. Nella session di Nebraska nascono anche diverse canzoni del successivo Born in the Usa, a partire proprio dal brano che dà il titolo al disco. Born in the Usa nasce come dolente pezzo folk e come tale è stato spesso eseguito da Springsteen in concerto. La versione rock da stadio arriva dopo, e qualcuno aggiungerebbe purtroppo, perché non pochi fan preferiscono la prima versione. Quella rock era trascinante ma tradiva lo spirito del brano, che infatti fu scambiato (da Ronald Reagan) per un inno patriottico. Era patriottico ma di certo non celebrativo. Anzi, criticava la condizione dei reduci del Vietnam, dimenticati da tutti.
Nebraska comunque andò abbastanza bene e trovò ammiratori un po’ dappertutto. Piacque a chi amava il folk ma anche il rockabilly e perfino l’elettronica da combattimento per il suo minimalismo estremo.
Nebraska è un disco di storie che finiscono quasi sempre male. È un viaggio nel cuore nero dell’America.
Il sangue sgorga a fiotti, e Bruce si chiede come possa la gente comune, alla fine di una dura giornata, trovare un motivo di fede nel futuro (Reason to Believe).
La canzone Nebraska prende spunto da un clamoroso caso di cronaca nera. Nel 1958 Charles Starkweather e Caril Fugate uccisero dieci persone nel corso di un viaggio senza meta nelle terre del Nebraska e del Wyoming. Springsteen scrisse il brano dopo aver visto La rabbia giovane, il film capolavoro di Terrence Malick, anch’esso ispirato a quei fatti. Charles, artefice dei delitti, fu giustiziato nel 1959. Caril, sua fiancheggiatrice, fece diciotto anni di prigione (uscì nel 1986). Quello che colpì tutti, Springsteen incluso, è il fatto che la coppia uccise senza odio. Lo fece per divertimento e indifferenza. Charles e Caril erano sanguinari. Eppure ostentavano buone maniere e idee conformiste. Erano il futuro diventato nel frattempo il nostro presente: un nuovo tipo di mostro si aggirava nelle campagne e nelle città di provincia.
Anche Johnny 99 parla di un assassino e della sua condanna a 99 anni di prigione, in pratica l’ergastolo. Ma questa volta Johnny è un uomo che non riesce a mantenere la sua famiglia ed è strozzato dalla banca. Ubriaco, spara a un guardiano notturno e poi minaccia di farsi saltare le cervella.
In questo disco, c’è tutto quello che si può incontrare di notte in autostrada. Piccoli criminali che fanno rotta su Atlantic City per partecipare a una guerra tra bande, amanti nelle stazioni di servizio, poliziotti onesti e meno onesti, rivenditori di macchine usate. Ma c’è anche qualche ricordo di famiglia, specie nella ballata My Father’s House che forse contiene la chiave di lettura del disco: «La casa di mio padre / risplende luminosa / è come un faro che mi chiama nella notte / mi chiama e mi chiama ancora, così fredda e isolata / splendendo al di là di questa buia strada / dove i nostri peccati giacciono impuniti».
La postfazione del libro di Colombati è firmata da Bruce Springsteen che spiega di essersi ispirato ai romanzi e ai racconti di Flannery O’Connor, James M. Cain, Jim Thompson e al volume fotografico The Americans di Robert Frank. Musicalmente, pensava a John Lee Hooker e Robert Johnson, due giganti del blues. Obiettivo: «Volevo che l’ascoltatore sentisse parlare i personaggi, entrasse nelle loro teste, in modo da poter udire e percepire i loro pensieri, le loro scelte». Il tema ricorrente, aggiunge Springsteen, è il «sottile confine che divide l’eternità da quell’attimo in cui il tempo si arresta e tutto diventa nero, quando le cose che ti connettono al tuo mondo – il tuo lavoro, la tua famiglia, gli amici, la fede, l’amore – ti abbandonano. Volevo che la musica suonasse come un sogno a occhi aperti e che il sangue sull’album venisse percepito come fatale e profetico».
Vastissimo programma per un disco folk-rock. Ma se c’è un classico immortale di Springsteen, è proprio Nebraska. La copertina minacciosa e oscura mette in guardia l’ascoltatore. Oltrepassata la soglia si apre un mondo disperato. Raramente i testi delle canzoni si sono avvicinati così tanto alla letteratura.