la Repubblica, 29 agosto 2022
Irina Brook: “Non ho seguito la strada di papà”
Lo corso 2 luglio, la notizia della morte del padre, l’immenso regista Peter Brook, l’aveva raggiunta proprio qui, alla Scala, dove era a lavoro con gli allievi dell’Accademia. «Ci vorrà un tempo lungo di elaborazione ma quella morte che ha scosso tutti nel mondo, non è stata uno shock per me. Da almeno tre anni si stava spegnendo e quando vedi un uomo attivo e brillante che invecchia e che il suo corpo risponde sempre meno, non è bello. La morte può essere quasi un sollievo», dice Irina Brook, tornata alla Scala per la sua regia diIl matrimonio segreto di Cimarosa, vivacissima commedia degli equivoci che si vedrà dal 5 al 19 settembre con l’orchestra e i solisti dell’Accademia diretti da Ottavio Dantone. Bionda, sessantenne, solare, una grande somiglianza con la madre, la grande attrice Natasha Parry morta nel 2015, la regista Irina dice che «Cimarosa è un po’ Woody Allen»
In che senso?
«Il matrimonio segreto è un dramma giocoso che racconta le persone come sono con leggerezza e profondità, proprio come un film di Allen. Ed è scritta benissimo per essere recitata: se decidi che i personaggi non sono caricature ma hanno una psicologia, è già tutto lì, pronto».
Pronto per cosa?
«Per una storia dove scorre la vita.
Non a caso, nessun personaggio è solo una cosa: Carolina, la protagonista innamorata di Paolino ma desiderata dal conte, non è la modesta ragazza che appare e qui ho la fortuna che le cantanti del doppio cast hanno un bel temperamento dandole nuove sfumature. Così come Elisetta non è solo la sorella stizzosa, ma è quasi un’eroina. Immagini cosa sia peruna teenager desiderare di sposare un conte e scoprire che lui non la guarda nemmeno».
È una regia femminista?
«Femminista non so, ma è una lettura dalla parte delle donne. Una commedia su una casa di pazze donne single da raccontare nella loro verità, umanità, alla Woody Allen o alla Almodóvar».
La scena è una serie di gigantesche copertine del libretto e una gran quantità di oggetti marini, coralli, sagome di pesci. Perché?
«Non c’è un significato profondo.
Volevo un set neutrale, per una storia naturalistica che però non è cinema. Sono andata di fantasia, anche nei costumi».
Sente un’eredita paterna nel suo lavoro?
«Mio padre era il primo a volere che io trovassi la mia strada e, nonostante il peso sulle spalle,sento di averla trovata e molto differente dalla sua. Riprodurre gli spettacoli di Peter Brook sarebbe la cosa più terribile del mondo».
Come tener viva la memoria di Brook?
«Non è un mio compito. Ci sono molte persone, gli attori che hanno ascoltato i suoi consigli, Marie-Hélène Estienne che ha lavorato con lui per 40anni, Nina Soufy, mia zia, e altri colleghi che possono trasmettere la sua esperienza. Io non ho spazio per diventare la guardiana del museo».
Ha tanti progetti?
«Sì, specie in Italia e mi fa molto piacere. A gennaio al Biondo di Palermo farò Seagull Dream ma prima dal 28 novembre con lo Stabile di Venezia, proseguirò il lavoro diThe House of us ,un progetto in capitoli: La madr e , La figlia , Il figlio ,cui forse seguirà Il padre ,che è la mia storia familiare ma che si allarga alla vita di tutti. A Venezia si vedrà la nuova versione con l’attore Geoffrey Carey, del capitolo su La madre , un percorso nei miei pensieri più intimi ma anche nella necessità di condivisione, perché a lungo mi sono sentita una bottiglia col tappo, ora che è saltato è come se fossi uscita dall’ombra. Ci ho impiegato tanto, forse ero spaventata. Ma ora esorto i giovani ad avere coraggio. Se non hai paura, puoi fare qualunque cosa».