Corriere della Sera, 29 agosto 2022
In morte di Giulio Giustiniani
Nella storia di ogni giornalista c’è una destinazione non scritta che a volte diventa quella della vita: la destinazione di Giulio Giustiniani era il «Corriere» e un futuro da direttore. In via Solferino, dopo gli anni alla «Nazione» e al «Resto del Carlino», era arrivato chiamato da Ugo Stille per rafforzare la macchina del quotidiano che voleva tornare a primeggiare per autorevolezza e diffusione e in quel palazzo dai grandi scaloni coi marmi e i velluti è entrato quasi naturalmente da «corrierista», per stile e competenza, e «corrierista» è rimasto. Anche se dopo una lunga stagione da caporedattore e vicedirettore aveva lasciato Milano per Venezia, chiamato a dirigere il «Gazzettino», e poi a Roma alla guida dell’innovativa La7, la sua immagine resta legata a quel giornalismo che al «Corriere» aveva grandi firme e grandi interpreti, capaci di ragionare sulle cose viste.
Era nato 70 anni fa a Firenze da una famiglia all’antica, aveva avuto una formazione liberale, temperata dagli studi con un maestro come Giovanni Sartori, il grande politologo che lui contribuirà a portare al «Corriere». In casa, ha raccontato a Claudio Sabelli Fioretti, si leggeva la «Nazione» e quello fu il primo amore. Voleva fare il politologo ma finì in cronaca con i capi che lo mandavano a chiedere la foto del morto da sfilare dalla cornice, un cinico rituale di cui uno si vergogna per tutta la vita. Era educato, elegante, «all’inizio timido e impacciato», dirà in una delle poche interviste concesse. La sua sensibilità per la cronaca politica s’incrocia nell’81 con quella di un fuoriclasse: Gianfranco Piazzesi. Con lui direttore Giustiniani realizza una delle più importanti inchieste sulla P2 e sulla massoneria toscana: 13 puntate, una bomba che gli esplode in casa. Piazzesi è costretto alle dimissioni, lui viene emarginato dal giornale: nella loggia di Licio Gelli c’erano anche i nomi dei suoi editori. È una medaglia che vale una carriera.
Lo ripescano un anno dopo («il nuovo vicedirettore mi chiese di seguire la cronaca politica, ma c’era ancora l’anatema su di me e dovevo farlo di nascosto»). Quel vicedirettore, Marco Leonelli, lo vuole vicino quando va a dirigere il «Resto del Carlino». Un paio d’anni, poi c’è il «Corriere». Fine anni Ottanta: dopo la Milano da bere ci sono le inquietudini politiche, c’è la Lega, esplode Tangentopoli. Giustiniani guida la macchina operativa di via Solferino con Tino Neirotti e Giulio Anselmi. Sulla sua scrivania la cronaca ribolle, tra manette, dimissioni e suicidi eccellenti. Finisce la prima Repubblica e comincia un’altra era. Anche per lui. Va al «Gazzettino», feudo della Lega. Litiga con Umberto Bossi ma è apprezzato da Luca Zaia che oggi gli rende omaggio. Poi sbarca in tv. E alla fine si chiama fuori. Definitivamente. È una seconda vita. A Percoto, con Elisabetta Nonino, nel regno della grappa e della civiltà del bere. Tre figlie amatissime, che si aggiungono ai primi due. Lascia i giornali per le rose, come un signore d’altri tempi.
Tre mesi fa ci siamo incontrati. Era in forma, giovanile come sempre. «Non ho rimpianti – mi ha detto – abbiamo vissuto un giornalismo irripetibile. Questo di oggi non mi piace più. Troppi io, io, io. Troppa ideologia furente. Si lavora tra internet, chiacchiere e telefonate…». Nessuna nostalgia, però. Voglia di scrivere invece sì. Romanzi. L’ultimo uscirà postumo. Con questa dedica: «A Elisabetta, unico vero amore della mia vita».