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 2022  agosto 29 Lunedì calendario

Su «L’eccezione fa la regola» di Matteo Motolese

La storia di una lingua può essere raccontata anche attraverso gli errori. Ciò che ci fa paura, quando parliamo o scriviamo, è in realtà terreno fecondo per i linguisti e per gli storici. Inizia proprio con una lista di errori, in latino, il saggio di Matteo Motolese L’eccezione fa la regola: l’elenco si trova in appendice a un trattato grammaticale attribuito a un autore di nome Probo, un manoscritto risalente a più di mille e trecento anni fa, forse prodotto nell’abbazia di San Colombano, a Bobbio, vicino a Piacenza, alla fine del VII secolo dopo Cristo o nei primi anni dell’VIII. 
È la prima delle «sette storie che raccontano l’italiano» narrate dall’autore, allievo di Luca Serianni, docente di linguistica italiana alla Sapienza di Roma. Sono raccolte in un volume di colta divulgazione che, ripercorrendo come sia cambiata l’idea di errore nella storia del nostro idioma, analizza momenti e opere fondamentali della letteratura. A differenza da quanto si è portati a credere, spiega Motolese, mai nella storia l’italiano è stato usato da una platea così ampia di persone. Eppure «alle origini della nostra lingua – e non solo della nostra – c’è prima di tutto questo: l’accumulazione di una serie progressiva, gigantesca, di errori che gradualmente ha dato vita a qualcosa di diverso». 
Dalla lista di parole latine corrette di cui parla nella prima storia (speculum, non speclum; masculus, non masclus; calida, non calda e via dicendo), Motolese arriva fino ai nostri giorni, all’era Google e ai correttori automatici, ricordando, per altro, che algoritmo è parola documentata in italiano già dal Trecento. Con andamento amichevolmente narrativo, dando conto anche del piacere persino fisico di avere tra le mani testi e documenti antichi consultati in biblioteche e archivi, l’autore procede attraverso una delle testimonianze più preziose per ricostruire la poesia prima di Dante, cioè il manoscritto confezionato alla fine del Duecento, probabilmente a Pisa (oggi conservato nella Biblioteca Laurenziana di Firenze), che raccoglie quasi cinquecento testi poetici, più un’ampia sezione di lettere in prosa. La sua particolarità sta nell’uso della Z e della S. uno dei più antichi possessori del codice, Francesco Redi commenta: «Tutto questo libro è scritto da un pisano. E vi si osserva che sempre invece della z mette la s e talvolta invece della s mette la z». 
Con la nascita della stampa cambia la percezione della lingua: l’edizione delle poesie di Francesco Petrarca, pubblicata nel 1501 a Venezia da Aldo Manuzio contiene una lettera di sei pagine che difende l’autore dall’accusa di aver stampato un libro pieno di errori. A scrivere il testo, tra l’altro, fu un giovane veneziano destinato a diventare il più importante grammatico del Rinascimento: Pietro Bembo, che di fatto curò l’edizione. 
Un segno forse ancora più evidente del cambiamento portato dalla stampa, spiega Motolese, sono gli errata corrige, errori scoperti in tipografia quando il testo era stato stampato e che si indicavano al lettore perché lui stesso provvedesse a correggerli. L’idea moderna di correttezza ortografica deriva da qui e la stessa parola ortografia comincia a essere usata proprio in questo periodo. L’edizione di Manuzio di Petrarca, spiega Motolese, è importante anche perché mostra un cambiamento radicale nell’atteggiamento verso il volgare: pur lavorando sul manoscritto originale, Bembo non accoglie tutto quello che trova, ma «sceglie, di volta in volta, all’interno della lingua petrarchesca, ciò che per la sua sensibilità è più in sintonia con l’idea di lingua che sta prendendo forma nella sua mente: una lingua che sia al tempo stesso moderna e antica, più omogenea di quella che trovava nei manoscritti». 
Le storie linguistiche di Motolese passano attraverso il Vocabolario della Crusca, il primo della lingua italiana, pubblicato nel 1603. In un quaderno preparatorio conservato nell’archivio dell’Accademia si evince che quello che per noi oggi è forse l’errore di ortografia più grave, quore con la Q, al tempo non era percepito così e la grafia con la Q circolava nel Trecento a fianco a quella con la C (l’uso è esemplificato da una citazione di Boccaccio). Sarà proprio il Vocabolario a determinare questo cambiamento: nella stampa finale la citazione di Boccaccio verrà stampato con la forma cuore e la grafia quore verrà inserita sotto la lettera Q con un rimando a cuore, al pari di altre forme simili (quocere, quoco, quoio). 
Non possono mancare I promessi sposi, con tutti i dubbi di Alessandro Manzoni sull’uso del fiorentino, espressi nelle lettere a Emilia Luti, un’istitutrice toscana che aveva soggiornato per qualche tempo nella sua villa di Brusuglio, vicino a Milano; sull’uso dei pronomi lui, lei e lorousati come soggetto o su quello che gli specialisti oggi chiamano ridondanza pronominale, il famigerato a me mi. «Se oggi noi ragioniamo sulla grammatica in un modo più flessibile, meno rigido, più attento alla realtà delle diverse situazioni comunicative – scrive Motolese – lo dobbiamo anche alle scelte compiute da Manzoni quasi due secoli fa».  
L’autarchia linguistica voluta dal fascismo è l’esempio più evidente dell’uso politico della lingua che Motolese analizza attraverso le veline di Stato e i quaderni di bambini delle elementari della fine degli anni Trenta. L’evoluzione degli algoritmi ha permesso di passare in pochi anni dal T9 installato sui primi telefoni cellulari alla scrittura intelligente, ossia a suggerimenti basati su un algoritmo che tiene conto delle abitudini personali, mentre avanza quello che Giuseppe Antonelli ha chiamato e-taliano, una lingua scritta informale in cui la grammatica tradizionale è sempre più sostituita dalla grammatica del parlato.