ItaliaOggi, 27 agosto 2022
Orsi & tori
Draghi, nani, ballerine ed hedge funds.
L’Italia di queste settimane è questa. Fra il testamento alto, schietto ma anche un po’ ruffiano del presidente del consiglio Mario Draghi al convegno di Rimini di Comunione e liberazione; i modesti badilanti della politica che non riescono a guardare sopra al loro naso; le ballerine, donne o uomini che siano, che mostrano le tette e i sederi rotondi per cercare di carpire un consenso in più, promettendo uno spettacolo di varietà da compagnia di giro; e infine ci sono gli hedge funds, manovrati da gente che non scherza e che, nel loro poco nobile mestiere, assolve però il compito fondamentale di ricordare che su tutto il paese (e non solo l’Italia) domina un mostro dal nome debito pubblico.
A Rimini il presidente Draghi (verrebbe voglia di chiamarlo Drake, il soprannome conquistato da Enzo Ferrari per le sue imprese, nel ricordo del corsaro Francis Drake),
alla 28esima riga del suo discorso ha citato, fra virgolette, il «debito buono» e il «debito cattivo», «ovvero tra la spesa che permette a un’economia di rafforzarsi e quella per interventi che non fanno crescere né la produzione né l’equità sociale». Splendido. Non ha ricordato, come fa sempre, che ciò che conta per il debito è il denominatore nel rapporto debito pil, ma quasi a 2/3 del suo discorso, come al solito lucido, ha ricordato che «il prodotto interno lordo è aumentato del 6,6% lo scorso anno e la crescita acquisita per quest’anno è già del 3,4%». E ha proseguito, facendo ricorso inevitabilmente alla sua legittima teoria del denominatore: «Il debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo (pil) è sceso del 4,5 punti percentuali nel 2021 e il governo prevede continui a calare anche quest’anno di altri 3,8 punti percentuali».
Vero, ma in assoluto il debito pubblico italiano è salito ulteriormente, per la indispensabile emissione di titoli di stato, nel ’21 del 4,1% e nei primi sei mesi del 2022 del 3,3%.
Draghi riafferma la teoria della sostenibilità del debito italiano e come potrebbe fare altrimenti, ma poi accade il risveglio di quei cattivoni degli hedge funds, cioè dei fondi che speculano sul debito dei paesi più deboli e c’è voluto l’allarme lanciato giovedì 25 dal Financial Times, cioè il media più vicino ai mercati finanziari d’Europa, posseduto ora dal gruppo Nikkei, leader dell’informazione finanziaria in Giappone, cioè il solo Paese che supera per indebitamento l’Italia, che si piazza appunto al secondo posto.
Si potrebbe dire, ignorando però le regole della corretta informazione che FT rispetta come pochi, che il quotidiano di carta e digitale fa serpeggiare il panico in Italia e in Europa per tenere al coperto il Giappone. Niente di più sbagliato. Nikkei-FT non lancia allarmi sul Giappone semplicemente per un motivo, perché la quasi totalità del dell’enorme debito giapponese è posseduto da cittadini e entità finanziarie giapponesi. Cioè è un problema tutto interno al Giappone, mentre il debito italiano è posseduto in larga parte da entità estere, a cominciare dalla Bce. E l’Italia, proprio per questo, oltre ad avere il primato del maggior debito in Europa, ha dall’altro lato il principale mercato di negoziazione dei titoli di stato, il Mot, cioè letteralmente il Mercato telematico delle obbligazioni e dei titoli di stato. Un mercato redditizio proprio per l’entità dei valori transati e che è stato uno degli elementi che hanno spinto Euronext, la borsa nata in Francia, ad acquisire Borsa italiana che aveva in pancia proprio il Mot.
Si, dirà: finalmente almeno un primato l’Italia ce l’ha nel campo dei mercati finanziari. È vero, il Mot è un mercato straordinariamente efficiente e redditizio ma proprio perché c’è quell’enorme debito pubblico italiano che viene negoziato ogni giorno. Quindi, più di un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto.
Sarà il fatto che il Financial Times ha suonato l’allarme, saranno le evoluzioni drammatiche della crisi, sia come sia, gli hedge fund, che hanno come missione legittima la speculazione (nella logica dei mercati che consentono di vendere anche allo scoperto), hanno fatto toccare il record dal 2008 alla richiesta di prestito titoli dello stato italiano. La richiesta di titoli in prestito è a un tempo l’indice e la premessa che speculazione al ribasso è in atto. Si è arrivati a quota 39 miliardi di euro per titoli italiani, appunto superiore al record del 2008. Si potrebbe dire che è poca cosa rispetto all’enormità del debito pubblico italiano (2.766 miliardi) ma è il segnale inequivocabile che è partita la speculazione su Bot e Btp.
C’è chi aggiunge, come ha fatto Francesco Ninfole su MF di ieri avendo interrogato S&P Market intelligence, la fonte autorevole su questo mercato, che in realtà il fenomeno dei prestiti titoli è in rialzo in tutta Europa e anche per tutti i titoli europei richiesti in prestito (382 miliardi) cioè sopra ai massimi dal 2008.
Magra consolazione, per il semplice fatto che nessuno stato europeo è indebitato quanto l’Italia. Non è casuale che il bravissimo rappresentante italiano nella Bce, l’ex-direttore generale di Bankitalia, Fabio Panetta, abbia recentissimamente suggerito che la Bce sia prudente, super prudente nella politica di innalzamento dei tassi per combattere l’inflazione.
Il suggerimento di Panetta è più che pertinente, perché se è vero che fino a qualche mese fa il nemico era l’inflazione e quindi Bce si era accodata alla Federal Reserve con il programma di innalzare i tassi, oggi appare evidente che l’inflazione da costi mostruosi soprattutto del gas (ma non solo) è assai più grave perché ad essa si somma l’azione degli hedge funds sui titoli di stato. Aumentare ulteriormente i tassi non fa che favorire la creazione di spazio per la speculazione sui titoli di stato già sul mercato, rendendo sempre più conveniente la vendita allo scoperto degli stessi, di cui il prestito titoli crescente è la conferma dell’azione in atto.
Non vi è dubbio che la situazione si stata complicando sempre di più e quando la crisi imperversa i primi a pagarne le conseguenze, in un modo o nell’altro, sono i super indebitati, cioè chi ha sul mercato come l’Italia uno stock di titoli da record. E dovrebbe servire di ammonimento non solo alla Bce quel riferimento al superamento del record delle vendite allo scoperto del 2008. Quell’anno esplose la crisi più grave del nuovo secolo e per superarla occorse arrivare al 2012 quando, il 27 luglio, l’allora presidente della Bce Draghi, dopo la storica frase, «tutto quello che serve», fece approvare la nuova linea alla banca centrale europea di comprare tutti i titoli, anche non statali, che serviva per uscire dalla crisi. E marciò senza indugi nonostante il voto contrario, l’unico, del presidente della Bundesbank dell’epoca, Jens Weidmann. C’era una grave recessione e la scelta di Draghi e dopo la conferenza stampa in cui l’attuale presidente del consiglio informò che Weidmann aveva votato contro, i mercati europei caddero convinti che con l’opposizione della Germania la scelta di Draghi sarebbe fallita. Ma fu proprio Draghi a chiamarmi per invitarmi ad aspettare a dare un giudizio. «Aspetti che aprano i mercati americani e vedrà che la situazione si ribalterà», mi disse. E in effetti così avvenne perché la sua scelta era stata fatta in sintonia con le autorità americane. Oggi quella sintonia c’è? Se non ci fosse, è fondamentale che sia trovata.
L’attuale presidente della Bce, Christine Lagarde, è stata presidente del Fondo monetario internazionale, quindi conosce tutti i meccanismi dei mercati finanziari e il ruolo delle varie organizzazione, ma non appare avere la determinazione di Draghi, anche se il rappresentante della Bundesbank non è più Weidmann, che era stato il braccio destro nel partito di Angela Merkel. Ora la rappresentante è Isabel Schnabel, che non ha il potere di Weidmann indotto dalla relazione diretta con la Merkel, e quindi la tradizionale politica restrittiva della Germania dovrebbe pesare meno.
Sicuramente occorrono a livello di Bce scelte coraggiose e di straordinaria e sicura efficacia, perché in più rispetto al 2012 c’è la crisi energetica e la guerra in atto.
Tutto ciò suggerisce che i vari paesi, e in primo luogo l’Italia, avendo il debito più grande e pericoloso, non debbano aspettare che il salvataggio avvenga da Francoforte. Ed è necessario che soprattutto l’Italia si mostri al mondo la sostenibilità del suo debito pubblico, subito, in modo da tagliare le unghie agli hedge funds. E la strada i lettori di questo giornale la conoscono: Tagliadebito e Valorizzazione dell’enorme risparmio italiano.
Come succede alle aziende sul mercato del credito, se le banche non percepiscono che i manager stanno attuando una politica efficace sul debito, il costo dello stesso va alle stelle e poi diventa comunque sempre più difficile ottenerlo.
L’Italia non può attendere che a mettere il paese al sicuro dal default sia solo la Bce e non solo perché a Francoforte non c’è più Draghi, ma perché è il contesto generale assai più grave.
Chiunque governerà (ma forse un segnale Draghi potrebbe darlo da subito a chiunque governerà) non potrà dimenticarsi della Grecia. L’Italia non è a quel punto. A Bruxelles e Francoforte non domina più una politica come quando le banche tedesche favorirono il default. La Merkel si rese conto dell’enorme errore che era stato commesso e quindi i parametri sono mutati. Ma non è né serio né prudente per chi salirà a Palazzo Chigi, sperare semplicemente nell’aiuto delle istituzioni europee. Non per essere blasfemo, ma c’è un proverbio che esprime una saggezza secolare: «Aiutati che Dio ti aiuta». L’Italia deve aiutarsi da sola e mostrare che il debito può essere tagliato con operazioni speciali come quelle suggerite da questo giornale e soprattutto dal ceo della prima banca del paese, Carlo Messina; ma oltre a tagliare il debito, come sta emergendo conferma dall’ampio dibattito in corso su MF-Milano Finanza, occorre mettere a frutto l’enorme risparmio italiano, che di per sé è una garanzia per il debito; va fatto investire questo risparmio in Italia, mentre ora per il 75% viene investito all’estero. Perché ciò avvenga occorre creare un vero mercato italiano dei capitali. E le indicazioni arrivate finora dai numerosi interventi pubblicati sono pressoché univoche. Gli strumenti da usare sono due: la profonda semplificazione per la quotazione delle società e gli incentivi fiscali agli imprenditori per quotarsi e ai sottoscrittori per l’investimento.
L’Italia ha carburante sufficiente per superare anche la attuale crisi in cui è coinvolto tutto il mondo occidentale, ma non può prevalere l’immobilismo. Per questo, mentre prosegue il dibattito e l’analisi sulla valorizzazione del risparmio italiano e sulla indispensabile creazione di un vero mercato borsistico, MF-Milano Finanza lancerà nei prossimi giorni un set di domande specifiche rivolte a tutti i partiti che si presentano agli elettori, perché rispondano in maniera diretta, e con impegno formale, su cosa intendono fare, e in che tempi intendono fare la riforma a favore della valorizzazione del risparmi, per tenere questo tesoro in patria per finanziare l’economia italiana; e inevitabilmente, e contemporaneamente, cosa intendono appunto perché anche in Italia ci sia una vera Borsa, che lo strumento principe per l’indirizzo del risparmio verso gli investimenti in Italia. Saranno domande secche alle quali non sarà possibile rispondere mantenendo equivocità sia sul come che sui tempi. La crisi globale per un paese come l’Italia con tante risorse, ma anche con una debolezza fondamentale nel risparmio e nel mercato dei capitali, va affrontata di petto e subito.