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 2022  agosto 27 Sabato calendario

Biografia di Luigi Zoja raccontata da lui stesso

Nella numerosa schiera degli psicoanalisti Luigi Zoja è uno dei pochi che esercita la professione andando oltre l’aspetto tecnico. Non c’è per lui analisi senza dialogo e non c’è dialogo senza un possibile risvolto etico. Uno psicoanalista non può insomma ignorare che esistono nel mondo il bene e il male. Qualunque cosa vogliamo attribuire a queste due categorie, esse ci sovrastano e ci condizionano. Il male e il bene non si aggiungono al nostro comportamento.
Sono il nostro modo di comportarci. Ho letto qualche tempo faDialoghi sul male, tre lunghi racconti dove Zoja ambienta modi diversi del manifestarsi del male: una storia tragica al tempo della rivoluzione culturale cinese, la vicenda di una ragazza che a un analista confessa di essere una terrorista, infine la storia di un’adozione ambientata durante la dittatura argentina. Colpisce la distanza geografica delle vicende narrate e il fatto che tutti e tre i racconti hanno a che vedere con l’estrema degenerazione della politica. Possibile che il male si annidi proprio dove più forte, almeno in apparenza, è l’aspirazione al bene? Non sentivo Luigi Zoja da qualche anno. È un uomo mentalmente generoso, le competenze junghiane hanno reso molto duttile il suo modo di percepire il mondo.
Cina, Argentina, Europa. Cosa lega questi mondi che tu racconti?
«Il fatto di esserci stato e di avervi sia pure fugacemente vissuto. Dopo il Duemila ho insegnato spesso Jung in Cina. Ho scambiato idee con i colleghi cinesi, ma anche con storici locali specializzati nella Rivoluzione Culturale. In quel periodo lavoravo al libro Paranoia. La follia che fa la storia.Dove sostengo la tesi, già presentein Jonathan Glover, che il più potente moltiplicatore del crimine è l’ideologia. E non c’è aspetto della vita quotidiana cinese che non cada sotto questo potente vettore. In seguito ho insegnato in Argentina e in Cile, paesi che hanno dato vita a due forme criminali di dittatura. Avevo materiale sufficiente per svilupparne le storie».
Il terzo racconto coinvolge la vicenda di una ragazza di Zurigo che simpatizza col terrorismo.
«Diciamo che mi sono posto il problema di come può reagire un analista a cui un paziente racconta le sue simpatie per la “lotta armata”. A Milano mi è accaduto di vivere sedute di questo tipo».
Ti sei trovato nel dilemma del confessore.
«Beh, mi si è posto un problema di segreto professionale. È chiaro che non è facile rompere un patto di riservatezza. Ma questo prevede dei limiti o delle eccezioni quando l’interesse collettivo a romperlo sia superiore a quello privato di proteggerlo».
Che ruolo gioca la lealtà nel rapporto tra analista e paziente?
«Fondamentale. L’analista non dispone di speciali strumenti, a differenza del chirurgo che ti salva con un trapianto. Terapeuta e paziente sono esseri umani normali. Da questo punto di vista, l’analisi è un costante sforzo morale che si può tradurre in un compito di sincerità».
Si può intendere l’analisi come mezzo di guarigione?
«Non in un senso standardizzato. L’analisi non adotta il modello medico ma, appunto, quello della sincerità per scoprire cosa ognuno è veramente. Risolvere positivamente certe situazioni non significa guarire.
L’imperativo “guarisci!” va sostituito col “diventa te stesso”. In Jung questo passaggio è particolarmenteevidente. Lui lo chiama “processo di individuazione”».
La tua impostazione analitica punta a una sorta di vita più autentica. Che è un po’ quello che si prefiggevano i filosofi antichi con la loro morale. Ma davvero la psicoanalisi deve interessarsi di etica?
«Ritengo che l’analisi si occupi sempre di morale. In
Etica e morale sostengo che è un’applicazione dell’ottavo comandamento: “Non mentire”. È chiaro che se ci si sforza di non mentire agli altri, si deve prima imparare a non raccontare bugie a se stessi».
Mi fai pensare a quelle forme di protestantesimo che si svilupparono in Svizzera, paese dove a lungo hai soggiornato.
«Le riforme religiose lì furono una cosa seria. Calvino a Ginevra e Zwingli a Zurigo, la città dove mi trasferii per studiare».
La tua formazione non è lineare. Nasci sociologo.
Come sei approdato allo junghismo?
«Dietro alle mie scelte iniziali c’era un’azienda di famiglia, fu quasi un obbligo studiare economia all’Università Bocconi. A un certo punto mi resi conto che non volevo fare l’imprenditore. Mi laureai in sociologia. Vedevo i miei colleghi e amici attratti da un certo estremismo ideologico e oscuramente ne avvertii il potenziale di violenza. Capii che non era quello che cercavo. Poi, in quel periodo, mi capitò tra le mani un opuscolo dello Jung Institut. Decisi che valeva la pena approfondirne il contenuto e mi traferii a Zurigo».
Negli anni di cui parli la psicoanalisi si era fatta carico dei bisogni politici. Penso a Basaglia, a Laing e Cooper.
Perché allora Jung?
«Jung è stato un precursore assoluto del rispetto per i bisogni psichici individuali, ha tolto lo stigma della patologia a psichiatria e psicoanalisi, anticipando Basaglia già negli anni Venti del ‘900. In Italia negli anni Sessanta non era conosciuto, poi nel decennio successivo invece ci fu un improvviso boom. Molti tra progressisti e intellettuali italiani chiedevano esplicitamente un’analisi junghiana».
Tu eri già terapeuta?
«Sì, ricordo che facevo un paio di giorni alla settimana a Milano con pazienti privati e il resto della settimana in clinica a Zurigo. Mi accorsi presto che la Svizzera è pragmaticamente “junghiana”, cioè rispettosa dell’individuo. Se parli col direttore di una clinica e ritiene che tu abbia serie competenze, ti prende a lavorare senza problemi. In Italia, campione del mondo della burocrazia, non essendo medico non ho mai potuto esercitare in clinica».
Hai scelto Jung e non Freud perché?
«Quell’opuscolo dello Jung Institut ha avuto, come ti dicevo, un certo peso. Ma sarei insincero se dicessi che già allora capivo le differenze tra i due. La verità è che nel 1968 volevo andarmene da Milano, dall’ambiente familiare borghese, ma anche da quel gruppo di “compagni” sovraeccitati dalla politica».
Vieni da una famiglia di imprenditori. Sarebbe stato più facile seguirne le orme.
«Non c’è dubbio, ma avevo voglia di fare altro. Mio nonno aveva una farmacia nel centro di Venezia, si spostò a Milano per trasformarla in produzione farmaceutica. Sono nato a Varese solo perché nell’agosto del 1943 i bombardamenti distrussero quasi un terzo di Milano».
Come è stata la tua infanzia e adolescenza?
«Protettiva. Oggi come analista non potrei non coglierne i limiti».
È un limite che coinvolge tuo padre?
«Lui in particolare, sì. Papà era quello dolce e materno, non la mamma. Ma lo era fino all’insicurezza. Presto ho cercato io di proteggere lui».
Hai scritto un libro sulla figura paterna.
«In realtà avevo in mente il nonno paterno. Lo ricordo come un combattente, amante della lettura e con spiccate capacità affettive».
Tra le figure esterne alla famiglia chi ha avuto un ruolo formativo?
«I miei diversi analisti e supervisori personali. Su tutti annovero Hillman, era direttore degli studi quando ero a Zurigo. Successivamente gli divenni amico e lo invitai spesso in Italia negli anni Novanta».
Hillman riscoprì il valore e il senso della parola “anima”.
«Fuori da un possibile equivoco religioso, “anima” è il corrispondente latino del greco “psiche”. La terapia dell’anima implica un dialogo serio. Distante dalla maggior parte dei discorsi che si fanno intorno all’anima e che risultano molto convenzionali. Prima di andare a Zurigo ero, credo, depresso senza rendermene conto. La “terapia dell’anima” fu importante per darmi la consapevolezza di ciò che mi era accaduto. Oggi continuo a credere nella “terapia dell’anima” ma impiego con parsimonia la parola. Hillman poteva permetterselo, anche se gli suggerii di moderarne l’uso.
Un po’ sorpreso mi chiese perché. Risposi parlando dell’uso a sproposito che veniva fatto della parola“anima”, spesso fuori contesto, come fosse un termine astratto».
Fonte di ispirazione dei tuoi lavori è stato anche il mondo antico.
«Viene dalla parte dei miei studi e anche dal mio amico Umberto Galimberti che conosco e frequento da cinquant’anni. I tragici greci e i poemi omerici sono una parte ricorrente delle nostre discussioni. La tragedia degli antichi greci è un buon modello per comprendere le scelte spesso drammatiche che ci troviamo a vivere».
Proprio nel tuo libro sulla figura del padre ti richiami a Ettore che definisci il padre giusto. Che cosa insegna il suo comportamento?
«Ci trasmette un valore che si stenta a riconoscere oggi.
Ettore ci dice che è importante lottare non per essere i migliori ma per essere i più completi. Da un lato è un eroe sul campo di battaglia, anche se non è forte quanto Achille, dall’altro un padre affettivo e protettivo: l’unico fra i numerosi guerrieri dell’Iliade».
Ha senso proiettarne la figura sull’oggi?
«Credo di sì, alla luce del fatto che nelle recenti generazioni la convivenza padre figlio si è molto indebolita. Eppure, se mi capita di parlare del padre e cito Ettore, mi accorgo di un interesse che si risvegliaanche in coloro che non conoscono il poema omerico. Il mito del padre sopravvive nonostante tutto».
Come definiresti oggi il mito?
«Essendo una forma particolare della cultura tende – in epoche e luoghi diversi – a produrre narrazioni eroiche o a celebrare certi personaggi come eroi. Figure con le quali identificarsi. La qualcosa può risultare pericolosissima. Durante la Grande Guerra, nell’inconscio collettivo si sono formate le premesse perché una serie di dittatori – Mussolini, Hitler, Stalin – ricevessero consenso di massa».
Dittatura rinvia al concetto di oppressione e di violenza arbitraria. Per spiegarla hai usato un’altra figura mitologica: il centauro. Chi è esattamente?
«Consideriamolo un archetipo della violenza maschile.
La cultura patriarcale non essendo del tutto tramontata continua a manifestarsi oggi nella violenza maschile contro le donne».
Questo uso della violenza fisica come distruzione dell’altro si alimenta anche della paranoia. Cioè di una forma di follia estrema, spesso impercettibile, che può perfino cambiare l’assetto storico di una società.
«I totalitarismi del ventesimo secolo sono il parto di leader profondamente paranoici, come sappiamo dai comportamenti di Hitler e Stalin. Il paranoide attribuisce tutta la sua distruttività all’avversario. Ed è il motivo per cui può fare molta presa sulle masse. Del resto, le tante teorie del complotto che circolano nascono da dinamiche paranoiche. In politica, laparanoia tende a prendere il posto dell’ideologia. Noto da tempo che gli odierni mezzi di comunicazione – penso a Internet e alla rete – promuovono un’accelerazione di chiacchiere e di odio. Invece di ricercare spiegazioni si cerca un capro espiatorio».
Ti sei mai sentito una specie di animale da sacrificare?
«No, avverto solo l’amarezza per aver vissuto nella nebbia fino a 25 anni».
Lo dici quasi come fosse un senso di colpa. Il che è strano per un analista.
«Essere in colpa e “sentirsi” in colpa sono due cose diverse. Gran parte dei sensi di colpa derivano da educazioni distorte. Ma ti confesso che non mi manca quello che ero prima, ora che sto per compiere ottant’anni sono più in pace con me stesso e con gli altri. Da bambino la mia più grande paura era la noia. Per i prossimi anni vorrei continuare a scrivere. Mi dà una gioia profonda e vorrei dedicarmi a un libro sulla vecchiaia. Vecchiaia e morte fanno paura. Stimolano sia la saggezza sia la negazione. Spero che scrivere mi aiuti a cercare un equilibrio tra i due».