Robinson, 27 agosto 2022
Settant’anni fa uscì “La valle dell’Eden”
A settant’anni dalla sua pubblicazione una delle cose migliori che si possano fare per celebrare la fine di questa estate è ( ri) leggere La valle dell’Eden di John Steinbeck. Riaprire quella scatola che aveva dentro « dolore ed eccitazione, pensieri buoni o cattivi, il piacere di disegnare, un po’ di disperazione e l’indescrivibile gioia della creazione » , eppure non era ancora piena. Continuare a rovistare allora, per cercare un altro significato, con una diversa angolazione dello sguardo, osservando le cose di allora attraverso le lenti di ora, come si può fare quando il testo è universale.
John Steinbeck ne era convinto: « Abbiamo un’unica storia. Tutti i romanzi, tutta la poesia, sono costruiti sulla base della lotta eterna del bene e del male dentro di noi». È il motore dell’universo, non c’è altro racconto così necessario. La risposta al dilemma morale è lo scatto che fa avanzare o arretrare l’umanità. Le scoperte scientifiche sono strumenti, l’etica è il manico che le impugna. Diventiamo attraverso la scelta, perché ci è data: possiamo compierla. Questo il cuore del romanzo.
Attraverso quali vasi scorre il sangue che pompa? Poiché il conflitto tra il bene e il male dura in noi dall’alba della creazione ed è destinato a proseguire fino alla scomparsa della nostra specie, la sua incarnazione è generazionale. Nulla di più efficace che padri e figli per rappresentarlo. Il teatro è familiare, la posta in palio la sopravvivenza, le armi del duello: i sentimenti, la fede, gli ideali. Dall’Adamo biblico all’Adam del romanzo fino al nostro presente è una guerra che non ha concesso tregue. Adam Trask combatte con il padre prima e con i figli poi, cerca l’equilibrio impossibile al di fuori della linea dell’amore e trova soltanto in punto di morte la pacificazione. Ci insegna così che la vita è sangue, anche e soprattutto lungo la linea del sangue.
Potete prendere qualsiasi divisione generazionale e riportarla dove ogni serpe è fuggita: nella valle dell’Eden. Da un lato chi crede nel futuro, nello sfruttamento delle risorse, nell’allargamento della proprietà; dall’altro chi vorrebbe rallentare, cercare un senso prima di intervenire, pensare al bene collettivo. Eppure è esistito, o vogliamo crederlo, un tempo mitico in cui genitori e i figli abitavano lo stesso paradiso di convinzioni e il domani era la placida replica dello ieri. Che cosa ha rotto questo incanto? La risposta di Steinbeck non è: il peccato; ma: la conoscenza. « Quando un bambino scopre per la prima volta gli altarini ai grandi — quando per la prima volta entra nella sua testolina seria che gli adulti non hanno un’intelligenza divina e i loro giudizi non sono sempre saggi, i loro pensieri giusti e giuste le loro sentenze — allora il suo mondo crolla in una desolazione paurosa. Gli dei sono crollati e non c’è più alcuna sicurezza».
È quella la cacciata dall’Eden ed è autoinflitta, assecondando l’esigenza della crescita. Crescere significa scoprire, per i più evoluti capire, decodificare le ragioni e rendersi conto che tutta l’impalcatura, le leggi, le dottrine, perfino gli affetti, non sono in natura, ma sono adottati. Sono, ancora la parola chiave, scelte. Ogni generazione fa le proprie. Costruisce così un edificio la cui solidità è temporanea, ma lo perpetua nella memoria ( « ai nostri tempi… » ), cerca di renderlo eterno mitizzandolo e credendolo (perfino sinceramente) migliore dei successivi. Ma già la generazione seguente ne scuote le fondamenta, oltrepassa la soglia, calpesta i tappeti sotto cui è nascosta la polvere e stacca dalla parete i ritratti di avi in cui non si riconosce: «Adam seppe che, almeno per quel che lo riguardava, i metodi di suo padre non si riferivano a nient’altro nel mondo se non a suo padre… avevano il solo scopo di fare di lui un grand’uomo… ma era solo un piccolo uomo molto cocciuto, con un gran berretto di pelo».
In queste poche righe vengono distrutti una persona e il suo universo. Tutti i suoi valori relativizzati, il suo presunto eroismo ridotto a egoismo. Il berretto di pelo è il tocco ridicolo e finale, la pennellata a sbaffo che ne consegna il ritratto sfregiato alla storia. Questa è la missione di ogni generazione: smascherare la precedente. Steinbeck scrive che dobbiamo « cercare di vivere in modo che il mondo non debba rallegrarsi della nostra morte». Niente di più. Invece si pretende che il mondo si rallegri della nostra vita, che essa lasci un segno. Ogni generazione si assegna la propria medaglia, quella successiva gliela strappa. «Abbiamo rimesso in piedi il Paese». «Noi lo preferiamo a testa in giù». Quel che non ci si aspetta mentre si traffica con il destino è che la stessa sorte toccherà a chiunque rispetto ai suoi posteri.
Steinbeck è nato nel 1902. I nati tra il 1901 e il 1927 vanno sotto la definizione, coniata dal giornalista Tom Brokaw, digreatest generation, i migliori di sempre. Cresciuti nella Grande depressione, andarono a combattere la Seconda guerra mondiale, liberarono l’Europa e fecero del loro Paese la principale potenza del dopoguerra, periodo in cui, nel 1952, fu scritta Lavalle dell’Eden. Steinbeck accompagnò le truppe americane in Inghilterra, Nordafrica e Italia. I suoi resoconti compongono la raccolta C’era una volta una guerra. Nell’introduzione annota: « Il mio amico Jack Wagner ha fatto la Prima guerra mondiale. Suo fratello Max ha fatto la Seconda. Discutono su quale sia stata la più importante. Naturalmente la grande guerra è sempre la propria».
Nessuna generazione avrà per alleata la precedente o la successiva. E allora, come si chiude questo inevitabile scontro? Bisogna chiederlo al personaggio centrale, che non è Caleb, come nel film dove la storia è tagliata a metà e il suo ruolo ingigantito per compiacere James Dean. È Adam, il padre (sebbene biologicamente incerto) di Caleb, che fu figlio di Cyrus, dunque cerniera fra le generazioni. Viene deluso da entrambe. E come reagisce?
Nel primo caso ha la prova che il genitore non è mai stato nelle battaglie che ha raccontato, che si è fatto corrompere per accumulare ricchezze. La scoperta scandalizza suo fratello, ma non lui. Lui “ crede” al padre, malgrado non gli voglia bene. E lo spiega così: « Le prove che Dio non esiste sono molto forti, ma per un sacco di gente non sono così forti come il sentimento che Dio esiste » . Al fratello che gli obietta come possa aver fede in chi non ama replica: « Forse proprio per questo » .
Nel secondo caso deve fronteggiare un figlio che ha provocato la morte del fratello, che non amava perché gli ricordava la moglie infedele, che forse non era neppure suo, privo com’è della gentilezza e della coscienza che sono il suo patrimonio genetico. È il servitore orientale a chiedergli di perdonarlo e lo fa con le sole parole che possano chiudere il cerchio: « Non so quanto vivrete ancora, ma vostro figlio vivrà. Si sposerà e i suoi figli saranno tutto ciò che rimane di voi. Aiutatelo. Dategli una possibilità. Fate che sia libero. Beneditelo! » .
E dunque, sintetizzando, non resta che aver fede nelle generazioni future, anche se non le condividiamo e perfino se non le amiamo e benedirle perché ci sopravviveranno e sarà loro la Terra: o una valle di lacrime o la valle dell’Eden.