Specchio, 28 agosto 2022
Intervista a Raphael Gualazzi
«Sono un po’ un orso». Raphael Gualazzi è un gigante timido, un quarantenne con lo sguardo limpido di un bambino, riluttante a mettersi in mostra e a parlare di se stesso. Di fronte a un pianoforte, però, si trasforma, diventa un uragano di energia e leggerezza, un fuoco d’artificio scintillante che vola sui tasti e regala emozioni intense, sempre senza smettere di sorridere. Pare nato per stare sul palco, suonare e cantare, «è la cosa che mi rende più felice» dice. D’altronde l’amore per la musica ce l’ha nel Dna, grazie al padre batterista Velio Gualazzi, fondatore negli Anni Sessanta degli Anonima Sound con il compagno di studi Ivan Graziani. Quando Raphael è nato, nel 1981, la band era già sciolta da una decina di anni, ma il rapporto tra Ivan e Velio è sempre rimasto stretto. « Sono cresciuto con il suo secondo figlio Filippo nei backstage dei concerti - dice Raphael - lui ha un enorme talento artistico, un virtuosismo che non ha nulla da invidiare a suo padre, non a caso adesso l’ho voluto a suonare con me per Pigro» .
Come sta andando questa strana estate, Gualazzi?
«Benissimo. Sono felice di essere tornato a suonare dal vivo, ogni sera è diversa, si crea una magica atmosfera nell’incontro con il pubblico e mi concedo sempre la libertà di improvvisare, di rileggere i temi, le armonie e le strutture dei brani in maniera sempre diversa. E sono felice di suonare in Italia, spesso in mezzo alla natura, al paesaggio e all’architettura: dopo tanta musica internazionale questi due anni sono stati per me un ritorno alle origini, alle radici importante».
Lei ci aveva abituati al jazz internazionale, invece questo ultimo album e tour è tutto dedicato ai cantautori italiani. Cosa le è successo?
«Fin da bambino ascoltavo i cantautori italiani sui vinili di mio padre, improvvisavo sulle loro canzoni, le conosco quasi tutte a memoria. Sono impresse in modo indelebile nel mio dna, anche se musicalmente ho fatto un percorso diverso, a partire dagli studi in Conservatorio. Tornare a suonare e cantare quei brani tanto amati in un disco significa riprendere contatto con quel periodo della mia vita».
È vero che anche il titolo, Bar del Sole, è autobiografico?
«Sì è un omaggio al "Caffè del Sole" di Urbino, un posto meraviglioso della mia giovinezza, purtroppo adesso chiuso: sulle pareti c’erano immagini del sole da tutto il mondo, portate dai clienti. Un modo per simboleggiare la capacità della musica di unire le diversità. Il Bar del Sole è un luogo dell’anima ancor prima di essere un luogo reale, è il bar del cuore di chiunque nasce in un paese e ascolta buona musica e si sente fratello di chiunque ami la musica in giro per il mondo».
Un desiderio di comunità spirituale come reazione a questi tempi difficili?
«Sì, sentiva l’esigenza di creare un progetto che descrivesse un pochino una via di uscita da questo periodo di Covid, dall’emergenza sanitaria e dalle emergenze politiche e ambientali. La guerra mi addolora molto - e la guerra ahimè non è solo in Ucraina - come mi addolora questo momento difficile dell’Italia e reagisco a modo mio a questo momento di grande confusione e caos. La musica accompagna, come avrebbe detto Freud, "una sublimazione degli stati emotivi sociali"; quindi ho cercato proprio la sublimazione ».
Ha patito tanto il lockdown?
«Non posso dire che sia stata una passeggiata, sono stato sempre da solo, sia durante il primo che durante il secondo lockdown, ma è stato un modo per guardare dentro me stesso, conoscermi meglio e capire quanto sono privilegiato»
Perche privilegiato?
«Perche ho la musica: ho imparato un altro strumento, ho composto, ho suonato tanto. La musica è la mia vera compagna di vita. Credo che sia l’unico linguaggio davvero universale - d’altra parte anche Nietsche e Kierkegaard la ritenevano la forma d’’arte piu elevata - capace di portare messagg di pace contro il razzismo, l’omofobia, la guerra, ma senza strumentalizzazioni».
Che musica ascolta oggi?
«Di tutto, dal jazz al rap fino al rock. Cambio direzione ogni giorno, l’offerta è così ampi che bisogna spaziare. Il bello, lo ripeto, è la diversità»
Come nasce questo amore per il jazz?
«Al Conservatorio a Pesaro da ragazzo ho seguito un po’ di lezioni di standard jazz. Poi ho iniziato a esibirmi nei primi locali e all’Urbino festival jazz nel ‘96 ho incontrato musicisti che mi hanno detto di studiare e conoscere le forme più arcaiche, partendo dal blues e suonando con qualche band. Grazie a questo stimolo ho fatto ricerca, ho studiato le biografie musicali e ho cominciato a scrivere brani miei».
Cosa le piace tanto del jazz?
«Il jazz insegna il rispetto. Come i musicisti che fanno jazz si valorizzano ascoltandosi reciprocamente, così nella società è importantissimo ascoltare l’altro. Invece di parlare con arroganza, è meglio ascoltare. Solo in un gesto di ascolto e di collaborazione si può affermare la propria unicità nel mondo. Nella vita dovremmo essere tutti un po’ più jazz».
Il repertorio dei cantautori italiani è sterminato, come ha scelto, insieme a Vittorio Cosma, le canzoni dell’album e del tour?
«Soprattutto in base ai testi, d’altronde le canzoni dei cantautori italiani sono prima testo che musica. Poi sicuramente ci sono anche degli aspetti emotivi, personali, legati alla mia infanzia, come appunto Pigro diIvan Graziani che è sempre stata la mia favorita, oltre che la grande stima verso alcuni artisti».
Facciamo un po’ di Amarcord sui cantautori: Franco Battiato?
«Un maestro assoluto. Centro di gravità permanente è un brano di un’attualità sconcertante in questo momento di crisi politica, militare, economica: è un vero e proprio inno dei nostri giorni».
La coppia Lucio Dalla e Francesco De Gregori?
«Adoro quel titolo, Cosa sarà è un’espressione che ti proietta verso il futuro, così misterioso, così ricco di ambiguità e possibilità diverse. Un esempio straordinario di introspezione».
Ornella Vanoni è l’unica donna presente...
«Ma che donna! Una maestria inarrivabile, lei e Mina hanno fatto la storia dellamusica italiana. Senza Paura gliel’hanno scritto Vinicius De Moraes e Toqui?o e descrive la paura di intraprendere la propria strada, di seguire un amore ma anche la paura del buio e alla fine della morte. Il succo è che devi abbracciare la tua esistenza e andare avanti senza paura, un grande insegnamento».
Lucio Battisti?
«Inimitabile la capacità sua e di Mogol di immergerci emotivamente nelle storie degli altri. Un po’ lo stesso effetto che mi accade con Il mondo di Jimmy Fontana, quando l’ascoltavo, immaginavo di viaggiare su un treno e osservare le città, le cae, le finestre accese chiedendomi: chissà chi vive là dentro? Magari una famiglia felice o un uomo innamorato o una mamma che cucina la cena per i figli... Tutta questa umanità che scorre via, come la mia immaginazione».
Gianni Morandi?
«Se perdo anche te è il mio brano preferito, si ispira a Solitary Man e io quando lo canto penso alla versione di Johnny Cash. Volevamo descrivere l’intensità nella sofferenza nel perdere qualcosa di sé in qualcun altro: solo quando lo perdiamo comprendiamo che è un pezzo di noi col quale non abbiamo parlato mai abbastanza e non avremo una seconda opportunità. Morandi unisce musica accattivante e profonda sinceritò, Il suo talento è il frutto anche di tanta preparazione e di una professionalità che lo ha reso un modello anche per i giovani, come si è visto dal successo e dal calore che ha suscitato anche nei ragazzi in gara all’ultimo Sanremo».
A proposito di Sanremo, lei c’è stato spesso, nel 2011 Follia d’amore ha vinto Sanremo Giovani e le ha regalato vasta notorietà. Non è un po’ troppo pop per lei?
«Assolutamente no, è stata un’esperienza bellissima. L’importante è avere ben chiaro cosa si vuole fare e cosa trasmettere, non importa su quale palcoscenico. Sono contro ogni snobismo, la musica è condivisione, scambio di culture, la creatività si nutre dell’incontro con tante persone diverse. Interagire, collaborare è la chiave di tutto».
Nasce così la sua esperienza come Maestro Concertatore della Notte della Taranta nel 2017?
«Sì, è stata un’esperienza meravigliosa, incredibile dal punto di vista antropologico e spirituale. Io ho una mia teoria secondo cui alcune musiche del SudItalia e in particolare la pizzica sono una sorta di blues italiano. Una musica popolare che rappresenta la sofferenza profonda di un popolo, non la schiavitu degli africani, certo, ma comunque anche i contadini nei latifondi vivevano come schiavi e quelle melodie struggenti, quell’intervallo di quarta, ne sono la testimonianza» .
Meglio incidere un disco o suonare dal vivo?
«Meglio tutti e due: pubblicherei un disco al mese, è il mio ossigeno. Quando registri in studio e ti interfacci con un produttore, un fonico, un altro musicista vai a scavare nella tua intimità musicale che forse nemmeno tu conoscevi, vedi parti di te che non ti saresti immaginato. Fermi un momento musicale ed è come fare un dipinto. Ma la musica da vivo ha dalla sua l’imprevedibilita , ogni sera è diversa».
Anche le sue giornate sono tutte diverse o ha una giornata tipo?
«Non ho una giornata tipo, la mia vita è tutta un’improvvisazione proprio come la musica. Non dormo mai, mi sveglio presto la mattina e la sera vado a dormire tardi anche perché sono carico di adrenalina. Il sistema dei concerti, che un tempo era perfettamente oliato, ora dopo due anni di Covid è un po arrugginito quindi ci vuole molto spirito di adattamento. Siamo immersi in una giungla musicale».
Che ne pensa dei social?
«Non sono un nativo digitale ma li uso, come tutti. Mi diverto a cercare di trasmettere la mia ricerca, le mie ispirazioni, i miei valori. Ci sono anche lati positivi dei social, non si può parlarne male a prescindere».
Cosa sarà del futuro, Gualazzi?
«Non lo so, so che continuerò a fare la musica che mi piace, a sperimentare, a imparare cose nuove. Rimanere sempre nella "comfort zone" non ti fa tirare fuori l’essenza di ciò che sei. Puoi fare mille cose diverse, l’importante è rimanere te stesso ».