il Giornale, 28 agosto 2022
Un saggio sui Los Angeles Lakers
U n grande show dentro e fuori dal campo di gioco: lo «showtime», il momento dello spettacolo, è stato un cambiamento radicale non solo del basket americano professionistico dell’Nba ma di tutta la moderna società dei consumi e della comunicazione. In un momento storico particolare, la fine degli anni Settanta, tra illusioni decadute, la squadra di Los Angeles, i Los Angeles Lakers, riuscì a far tornare lo sport non solo cestistico al centro della ribalta americana.
Dai primi anni ’80, con i Lakers, tutto è diventato «Showtime» uno spettacolo perenne che ha cambiato il nostro modo di vedere lo sport, ascoltare i concerti, vedere i film. Tutto è diventato velocità, fraseggi, poesia dell’elettricità, futuro, «show biz» quello che oggi critichiamo ma che agli esordi è stata pura genialità. A raccontarcelo è il giornalista americano Jeff Pearlman in Showtime. La dinastia dei Los Angeles Lakers edito in Italia dalla casa editrice 66thand2nd (traduzione di Lorenzo Vetta, pagg. 288, euro 23): basato su più di trecento interviste è un libro che sorprende anche chi non si occupa di sport (come chi scrive) appunto perché l’autore attraverso questa «dinastia» racconta un’altra saga: quella della nascita degli anni Ottanta, scintillanti e contraddittori, durante i quali tutto divenne un circo itinerante trasformato in «show business». Il vero modello di tutte le produzioni dello spettacolo in ogni campo. Pearlman, che per molti anni è stato la penna di punta di riviste molto lette non solo negli Usa su tutte Sport Illustrated con questo libro, con una scrittura romanzata ma il rigore del saggio, ci racconta come i Lakers fossero soprannominati «Showtime» per un nightclub chiamato Horn, frequentato dal nuovo proprietario della squadra. Nel locale, il cantante iniziava lo spettacolo dicendo «It’s showtime», e il proprietario dei Lakers, Jerry Buss, adottò questa frase per descrivere il suo approccio ai Lakers.
Ospite frequente della «Playboy Maison», la casa teatro di discutibili feste del proprietario della rivista Hugh Hefner, Buss aveva un dottorato in chimica, pantaloni con i risvolti da discoteca e una pettinatura alla Trump. Il suo sogno era coniugare il glamour hollywoodiano con una pallacanestro di alta qualità: una rottura significativa rispetto allo standard delle squadre della Nba dell’epoca. Ma Buss voleva qualcosa di più di un’esperienza sfarzosa intorno al gioco. Voleva che il basket stesso fosse appariscente. In quegli anni a dare maggior spettacolo erano i Celtics di Boston: da una parte a Los Angeles, c’era il nuovo acquisto destinato a diventare un mito, Magic Johnson; dall’altra a Boston c’era Larry Bird. La sfida a quei tempi assunse anche connotati razziali, con il bianchissimo Larry Bird che attirava le simpatie e la tifoseria più tradizionalista, quella che vedeva nei giocatori di colore, maggiori di numero e superiori per classe, il rischio di una deriva dei «valori» americani. Pregiudizi che i Lakers contribuirono a cancellare.
Con l’evolversi della rivalità tra Lakers e Celtics, l’interesse per il campionato crebbe e sempre un maggior numero di partite fu trasmesso in diretta Tv (in tutti gli Usa). Insieme a Bird, Johnson diventò una star diversa da qualsiasi altro giocatore di basket: se Bird rappresentava il rigore e la geometria, Magic Johnson incarnava la sregolatezza (dell’uomo) e la fantasia (del giocatore). Lui e Bird apparvero insieme in spot televisivi e ottennero sontuosi contratti di sponsorizzazione.
In quello strano mondo – che trasformava i giocatori in modelli di vita e di business – c’erano molti altri protagonisti che, raccontati oggi, sembrano usciti da una serie televisiva. Infatti Hbo ha trasformato il libro in una miniserie di otto puntate – in onda su Sky – titolata Winning time («tempo di vincere»): un’operazione riuscitissima grazie appunto alla fedeltà al libro, soprattutto ai suoi aspetti più spettacolari. Oltre al gioco dei Lakers, ci sono le bizzarrie del proprietario e l’eleganza dell’allenatore Pat Riley, capelli perfettamente impomatati e primo coach ad indossare in campo completi di Armani mentre gli altri allenatori si presentavano in tuta sul campo da gioco. E poi oltre ad una colonna sonora che da sola vale l’ascolto – ci sono le invenzioni di Buss e dei suoi collaboratori: aver trasformato in una vera e propria «Arena» la casa dei Lakers dove c’era di tutto: una discoteca aperta tutte le sere e frequentata da giocatori e da star di Hollywood; aver trasformato le «cheerleaders» in ballerine sensuali e sinuose; gli spettacoli durante l’intervallo; le coreografie da stadio con tutti gli spettatori che indossavano la maglia ufficiale della squadra. Show che contribuirono a elettrizzare tutta Los Angeles e anche la California. A parte i risultati sportivi tra il 1980 e il 1991 i Lakers giocarono nove finali Nba, tra cui quattro consecutive, vincendo cinque titoli – leggere queste pagine è come leggere un libro alla James Ellroy ma dedicato allo sport. A Jeff Pearlman non interessano le statistiche ma, appunto, quella «dinastia» seguita nel libro sino al suo inevitabile epilogo. Certo, racconta come lo «Showtime» in origine sia il gioco basato sul movimento e su una miriade di passaggi rapidissimi, ma la centralità del libro è in quella Los Angeles da fuochi da artificio che per un decennio oscurò i suoi «luoghi oscuri». E ai nati negli anni ’70 in Italia non può non venire alla mente l’intuizione di Canale 5 che negli anni ’80 mandava in onda le partite (in differita di una settimana) con le telecronache fantasmagoriche di Dan Peterson che contribuirono a far conoscere Magic Johnson o il famoso «gancio cielo» di Karim Abdul Jabbar. Showtime è una corsa nel buio di un’America che, dopo gli anni ’70 e le ceneri ancora ardenti delle proprie utopie, sembrava ancora più «battuta e beata», un’America che si imponeva come modello sociale, economico e culturale in tutto il mondo.