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 2022  agosto 28 Domenica calendario

Intervista a Greg (Claudio Gregori)

Capelli pettinati con la riga, basette, occhiali fuori tempo, All Star ai piedi, camicia a scacchi e catenella appesa ai pantaloni: Greg sembra catapultato in Italia da un film statunitense anni Cinquanta, potrebbe tranquillamente passare come il fratello mancato del Ricky Cunningham di Happy Days. Quindi un “po’ nerd”, parole sue, un po’ esiliato da piccolo, sempre parole sue; un po’ controcorrente non per vezzo ma per rispetto di se stesso. E come il celebre Ricky anche lui è un leader sottotraccia, uno che non grida, sussurra, preferisce farsi ascoltare da chi è realmente interessato; non le spara alte, quel ruolo lo ha lasciato al suo cinquanta per cento, Lillo (“Ogni tanto crea storie, o le esagera, e io resto zitto. Lo lascio fare”) ed è talmente centrato da non lasciare spazio a invidie o gelosie per il successo dell’amico (“Lillo ha una fisicità che è già comica”). Eppure è Greg l’autore della maggior parte dei successi del duo, è lui il compositore e paroliere delle commedie teatrali e dei brani di Latte & i Suoi Derivati.
Sono trent’anni dall’esordio della band…
(Stupito) È vero.
Siete adulti…
E io con l’età sono diventato pure puntuale, Lillo no, persiste nei ritardi; (sorride) in realtà io ero il sòla (tradotto: colui che dà fregature).
Oltre a questo?
Oggi soppeso maggiormente le parole e gli atteggiamenti; un tempo andavo molto dritto.
Causato guai?
Qualcuno sì; (cambia tono) non avevo piena consapevolezza della responsabilità di un ruolo, diciamo, pubblico: parlavo come se stessi tra amici e davo guazza al mio istinto polemico.
È spiccato?
Ne avevo in grande quantità, mi divertivo a sostenere tesi anche non vere pur di attivare un diverbio con qualcuno.
Voleva vedere le strano effetto che fa…
Sì, e con un dispendio inutile di energie.
Qualcuno si è offeso?
Forse; il problema è che poi, e da sempre, tentano di incasellarmi in qualche macro-gruppo: ai tempi della scuola c’è chi mi inquadrava come di destra e chi come di sinistra.
Mentre…
Da sempre anarchico.
Occupava scuola?
No, pensavo ai fatti miei.
Mai.
E poi ogni giorno, e dico ogni giorno, sono arrivato in ritardo, circa dieci minuti dopo la campanella, e allora passavo il resto del tempo insieme al preside.
Oramai amici.
Abbiamo scritto insieme un nuovo ordine di studi, il preside, d’accordo con me, l’ha presentato al ministero.
E…
Nessuna risposta.
Il suo primo germe artistico…
Mio padre era un buon pittore, con mostre organizzate in via Margutta (celeberrima via romana dedicata agli artisti); in qualche modo ho da sempre vissuto il piacere del disegno, tanto da iscrivermi all’Artistico.
Sì, ma il primo guizzo.
Alle elementari ero un soggetto strano con occhiali e apparecchio per i denti. Uno veramente brutto…
Vessato?
Certo! Oggi si parla di bullismo, allora no; (sorride) per i maschi è fondamentale giocare a pallone e fare a botte: a me non sono mai interessati né l’uno né l’altro, mentre le ragazze preferivano “campana” o ad altre attività a me più affini.
Considerato gay.
Per forza, era inevitabile…
Il “però”.
In questa situazione ho iniziato a sparare battute, un po’ come sfogo, un po’ come istinto primordiale, e gli altri ridevano: questa “conseguenza” mi ha generato una sensazione di superpotere in grado di schermarmi dalla narrazione minuta.
Andava bene a scuola?
Sì.
Con quanto si è diplomato?
38.
Mica tanto bene.
Perché rompevo le palle, contestavo le lezioni dei professori.
Lei e Lillo non siete esplosi subito.
E meno male: la gavetta è oro, è fondamentale; (pausa) con Latte & i Suoi Derivati abbiamo iniziato nel 1992 ma il mio primo concerto è del 1978 e dal 1978 al 1992 avevo macinato migliaia di concerti.
Migliaia?
Avevo varie band, anche adesso, all’attivo, ne ho 12.
12?
Con una band sola uno suona ogni tanto, con 12 riesco a salire sul palco almeno una volta a settimana.
Quindi durante il Covid era in astinenza…
(Sospira) Eh, sì.
Cantava da solo in casa.
Vagavo per le stanze, scrivevo brani, commedie, libri. Anzi, dal punto di vista creativo è stato un buon periodo.
La vera svolta professionale.
Definirla svolta è troppo onirico, comunque è nel 1986 quando ho iniziato a lavorare in una casa editrice di fumetti e lì mi sono occupato di tutto.
Ha conosciuto Lillo.
Era un collaboratore esterno, ma l’editore ci affidò la realizzazione di una riviste demenziale: due anni di lavoro, peccato che la casa editrice finì in bancarotta.
In quegli anni come si manteneva?
Vendevo i giornali ai semafori, cameriere in un pub, poi giravo per i palazzi, bussavo ai vari appartamenti e chiedevo la carta stagnola e i vecchi quotidiani.
Carta stagnola?
Allora si piazzava al chilo e ci scappava qualche lira; (pausa) ai semafori vendevo Paese Sera.
Con i soldi?
Prendevo il treno e andavo a Gallarate per acquistare dischi.
Fino a Gallarate?
A Roma c’era poco; partivo con un gruppo di amici, cinque o sei ore di viaggio e al ritorno restavamo in silenzio a godere della sola vista dei dischi acquistati.
Per lei feste, discoteche…
Ma che scherza? Ero troppo scarso.
È ancora scarso?
(Sorride un po’ sornione) Sono migliorato.
Il palco ha aiutato…
Sono arrivato a sei concerti la settimana.
Lillo racconta che avete affrontato pure il pubblico delle pizzerie.
Ho suonato dovunque; (ci pensa) i brani di Latte & i Suoi Derivati, benché li scriva io, non mi piacciono musicalmente, si rifanno a stilemi che non mi appartengono.
Però il pubblico apprezza.
Ora con Lillo organizziamo un paio di concerti l’anno, e va bene, ma prima, quando erano di più, per me era un problema.
Traduciamo.
All’interno del concerto non posso inserire nessuna variazione musicale, il pubblico non gradisce, vogliono solo certezze. E per me è come raccontare sempre la stessa barzelletta.
Sulla pizzeria, Lillo aggiunge: “Certe sere non venivamo capiti e ci chiedevano di andare via”.
(Sospira) A volte Lillo romanza; (pausa) scommetto che ha dichiarato della fila intorno al palazzo per un nostro concerto.
Proprio a noi del Fatto e lei era presente.
Allora ho taciuto, perché quando parla Lillo non intervengo. Però non è andata così.
Mettiamo in riga la storia.
Avevamo una serata a Roma; arriviamo e troviamo un po’ di fila, ma non la folla che racconta Lillo; (pausa) nel 1993 prendevamo 75 mila lire a testa, 25 mila in meno degli altri.
Come mai?
Secondo i proprietari del locale arrivavano troppe persone e i camerieri faticavano a servire le consumazioni. Quindi guadagnavano di meno.
È lei l’autore di quasi tutte le canzoni e i testi teatrali.
Quasi. Poi anche Lillo ha creato dei pezzi; (cambia tono) Lillo è una maschera straordinaria: quando sale sul palco il pubblico è già predisposto alla risata.
È mai stato geloso?
(Stupito) Io? Non è da me; (pausa) lui già fisicamente suscita empatia, è quasi disneyano, fa tenerezza e non crea antipatia nei maschi, anzi tutti lo vorrebbero come amico.
E nelle donne?
Questo effetto di tenerezza gli è servito per rimorchiare, effetto amplificato dalla zeppola.
Alla John Beluschi.
O alla Jack Black.
Insieme siete un po’ come i Blues Brothers.
Musicalmente no, per me sono un po’ troppo moderni.
(Passa una signora: “Ma che è Greg?”. Sì. “Bravo, ‘te seguo sempre”)
L’hanno mai confusa per qualcun altro?
Molti anni fa ero più pienotto: vado in vacanza a Ischia e lì inizio a rendermi conto di reazioni strane, cordiali, troppo cordiali. Poi un giorno ho capito: mi prendevano per Patrizio Roversi.
Altri benefici della fama?
Non lo so; (sorride) sono 44 anni che sto su un palco, eppure ancora oggi, alla fine di un concerto, arriva sempre qualcuno, vestito di espressione stupita, che mi dice: “Sei bravo a suonare, non me lo aspettavo”.
E lei?
Penso: “Con che cazzo di spirito sei partito da casa?”.
Ai tempi de Le Iene il vostro scherzo a Giulio Andreotti ha fatto storia.
(In un servizio i due si avvicinano al “Divo” e dopo una finta domanda, Greg si butta a terra, quasi rantolando. Successivamente, in sottofondo, hanno aggiunto il suono di una raffica di mitra per fingere una morte drammatica, da regolamento di conti) Più che altro non sapevo come uscirne fuori: lì per lì tutti hanno pensato che avessi un attacco epilettico tanto da chiamare l’ambulanza. Io sempre a terra e pieno di interrogativi.
Come mai avete mollato Le Iene?
Non siamo mai stati inseriti nei titoli di coda e poi venivamo troppo etichettati: fuori da Roma i teatri non ci volevano, temevano che scendessimo in platea per rompere le scatole al pubblico; (pausa) c’era qualche problema con il capo degli autori della trasmissione.
Che problema?
Ogni tanto non mandava in onda in nostri lavori, non era convinto della qualità; (pausa) per contratto dovevano pagarci lo stesso, così alla fine il servizio passava e sistematicamente segnava il picco degli ascolti. E lui si incazzava.
Siete stati i primi a lavorare con Virginia Raffaele.
Una sera vado con Max Paiella a vedere una kermesse di comici e lì assisto alla performance di una fuoriclasse: era lei.
Bella donna, poi.
No, di più: è affascinante; (pausa) quando aveva 16 anni ho scoperto pure le potenzialità di Valerio Lundini.
Si sente romano?
Tanto; (cambia tono) quando posso giro da solo per la città o ascolto canzoni romanesche. Poi amo Gigi Magni, le poesie del Belli, adoro le tradizioni popolari come la passatella.
E Gigi Proietti?
Rientra in questo pantheon. Conosceva tutti gli stilemi dell’attore.
Vi ha dato consigli?
Indirettamente: negli anni Novanta, dopo uno spettacolo, lo troviamo nei nostri camerini e dopo una serie di complimenti ci invita a passare da lui al teatro Brancaccio; (abbassa la voce) lì abbiamo visto come lavorava, abbiamo imparato una serie di termini per noi, allora, sconosciuti; una bella lezione di vita e di professionalità.
Ha mai avuto la sindrome dell’impostore?
(Stupito chiede consiglio a una sua amica) Oddio, ma cos’è? Non lo so, ho sempre studiato, ho da sempre cercato di ricostruire da dove nasce l’umorismo (e inizia a citare Plauto, Aristofane e Orazio).