La Stampa, 28 agosto 2022
Così Mosca ha creato il mito di Dugina
Prima di essere la traduttrice in russo di Umberto Eco, l’agente letteraria di Ludmila Ulitskaya e Ruben Gallego, l’autrice di «Nella mente di Vladimir Putin», uscito quest’anno per La Nave di Teseo, Elena Kostioukovich – nata a Kiev, vissuta a Mosca, da anni trasferita a Milano – è stata una ragazza che ha conosciuto da vicino l’intellighenzia sovietica.
Nipote dell’artista e scrittore Leonid Volinsky, moglie giovanissima di Sergej Kozlov (a sua volta figlio del più celebre germanista sovietico, Ilya Fradkin), ricorda di case frequentate da Garcia Marquez e Heinrich Boell, da dissidenti e delatori, «sempre in bilico tra due sedie». E prima di parlare di Dugin, della nuova propaganda e della follia che si è impadronita della Russia vuole raccontare del passato, per capire.
Elena Kostioukovich, come è cambiata la figura dell’intellettuale russo dall’epoca sovietica a oggi?
«Vivevo in un ambiente in cui gli intellettuali erano allo stesso tempo molto contrari al regime e molto cauti per evitare di essere cacciati dai loro incarichi. Si badava molto all’opinione del gruppo, tutti avevano paura di essere scambiati per delatori, e i delatori erano poi scansati da tutti. Ricordo persone di cui si cominciava a dire che erano spie e anche se invece erano "puliti" poi nessuno voleva più frequentarli».
L’intellettuale era dunque critico e accondiscendente al tempo stesso?
«In un Paese come la Russia l’intellettuale era tale in base alla sua posizione politica, dai tempi di Puskin, che per primo sperimentò l’esclusione per essere stato troppo contiguo al potere. In epoca sovietica era necessario essere critici, netti, era una sorta di malattia, ma la vita era più facile: se si entrava in casa di un amico, in genere si conosceva tutto della sua famiglia, della sua storia intellettuale, e anche davanti a sconosciuti non si aveva paura di dire cosa avevamo letto o pensato, perché ci sentivamo al sicuro. Poi naturalmente sbagliavamo, c’erano talpe dappertutto».
Con la perestrojka e Eltsin è cambiato qualcosa?
«Sì, sono arrivati i soldi. Per anni non riuscivo a capire come mai i miei amici – io a quel punto ero già in Italia – non avessero timore di adulare il nuovo potere di Eltsin senza più fare caso al giudizio del gruppo di opposizione a cui teoricamente sarebbero dovuti restare fedeli. In particolare era il cinema, che aveva bisogno di soldi. Io dall’Italia la facevo facile: "Ma come frequentate Konstantin Ernst? E volete portarlo in Italia?", "Eh ma sai, è lui che distribuisce i film e dà i soldi per fare le serie...". Era un modo infantile di corteggiare il business: "Noi siamo intellettuali, ma loro hanno i soldi e pagano, noi però restiamo intellettuali". E invece non è vero. Marat Guelman, ad esempio, che è stato portavoce dell’odioso Sergej Kirienko (responsabile presso il Cremlino della guerra in Donbass) organizza un grande festival culturale in Montenegro, tra i finanziatori ci sono oligarchi oggi pluri-sanzionati come Pumpyansky, ma vi partecipano anche tutti gli intellettuali immigrati. A me non convince, mi sembra un tradimento dei nostri principi: perché dobbiamo perdonare a questa gente di essere il portafoglio di Putin? Oggi non c’è intellettuale di cui non si possa tirare fuori una fotografia che lo ritragga con bicchieri di champagne e cucchiai colmi di caviale Beluga (che è illegale). Come in "Mephisto", passo dopo passo, non si è più in grado di criticare, per via di quel caviale... Ognuno di loro non è cattivo, sono deboli, se questa catastrofe iniziata vent’anni fa non fosse caduta sulle loro teste, sarebbero stati intellettuali raffinati, perché hanno conoscenze, letture, lingue».
Non c’è intellighenzia senza dissidenza?
«Prendiamo Majakovskij, poeta altissimo che voleva stare "con" il potere, anche a causa della rivoluzione, degli ideali in cui credeva. Alla fine si spara (o lo uccidono) perché capisce che il suo essere "con" la Ceka e "con" quelli che cominciavano a organizzare i gulag, non funzionava più. Lui ha provato a essere "con". Nell’epoca di Breznev nessuno era "con", da Pasternak a Brodsky, tutti scacciati e costretti all’esilio».
Oggi un intellettuale russo come si oppone al potere?
«Mettendo a confronto i fatti, là dove il potere non fa che ripetere: "Non osservate né ragionate sui fatti". Un intellettuale oggi, di fronte a questa guerra, in cui Putin sostiene che gli ucraini sono i nostri fratelli e che noi per salvarli (dal nazismo, dai nazisti, da loro stessi) li dobbiamo uccidere, è colui che semplicemente chiede: "Ma se sono nostri fratelli, perché li dobbiamo uccidere?". E basta questo per finire in carcere: un deputato del parlamento di Mosca, Konstantinas Yankauskas è finito in carcere con l’accusa di diffamazione per aver postato una preghiera del Papa (il processo è iniziato il 26 agosto). L’intellettuale in Russia è colui che oggi, davanti al funerale di Darya Dugina, dove il deputato Slutsky ha parlato di "un popolo, un regno, una guida", dice "attenzione, questa è la stessa frase di Hitler: "Ein Volk, ein Reich, ein Führer"…».
Ecco, cosa ha pensato davanti al funerale di Darya Dugina?
«Nella bara c’era una donna bellissima, che ricorda in modo impressionante l’ultimo fotogramma di "Ivan il Terribile" di Eisenstein. Mi fa pensare alla volontà di costruire un mito intorno a questa ragazza, di cui teoricamente, se è vero che la sua auto è saltata in aria, non dovrebbe essere rimasto neanche un frammento. Non sono neanche sicura che Darya Dugina sia stata uccisa. Un analista attento come Mark Feygin ipotizza che ci sia dietro una storia di soldi, sottratti per finanziare gruppuscoli di estrema destra. Darya doveva sparire per evitare ritorsioni…».
Pensi a una messinscena?
«Dalla dinamica dell’attentato alla fantomatica donna ucraina che va in Estonia in Mini, tutto appare molto improbabile. Forse l’operazione è quella di costruire una nuova Zoya Kosmodemjanskaya, l’eroina della seconda guerra mondiale uccisa dai tedeschi e diventata in tutta la Russia una sorta di martire, oggetto di culto e protagonista di infinite rappresentazioni, una povera ragazza che è venerata in tutto il Paese. Darya, che è una fascista di pessimo conio, che ha negato Bucha ed è andata a Mariupol a negare le evidenze, ha tutte le caratteristiche per essere una nuova martire. Nel 2011 Dugin organizzò un obbrobrioso "battesimo del fuoco" metaforico della Russia, con Darya che ardeva per finta su una pira, dicendo che il fuoco è purificatore e robe così. A rivedere oggi quelle immagini ci si fanno molte domande. Non si sa ancora se ci sia stato un delitto, ma si sa come sarà utilizzato. Vedremo Darya sulle magliette, sulle spillette, sulle tazze del té».
Veniamo al caso Dugin: quanto è vicino a Putin e quanto è popolare tra i russi?
«Poco, non lo conosce quasi nessuno. Tra coloro che lo hanno studiato meglio c’è Michel Eltchaninoff (che sarà insieme a Kostioukovich al Festival della Letteratura di Mantova il prossimo 11 settembre, ndr). Dugin appare negli anni Novanta, come sostenitore di Aleister Crowley e organizzatore di conferenze sul nazi-satanismo, sottocultura marginale, con connessione a gruppi di estrema destra della Gran Bretagna, soprattutto giovani. Poi con Putin e la rinascita della chiesa ortodossa, Dugin si scopre un "vecchio credente" (movimento scismatico russo che nel 600 si oppose alla Chiesa ortodossa, ndr). Nel 2014 passa dal girare in tuniche tradizionali, invocare Satana e blaterare di colloqui con Lucifero alla pubblicazione dell’ "Ideologia della Nuova Russia"».
Lui e Putin si conoscono?
«Non credo che abbia mai incontrato Putin, anche perché Putin incontra al massimo sei persone, ma c’è chi gli riferisce, e sicuramente gli hanno parlato di lui. Da ideologo del "Russky Mir", Dugin scriveva che "il mondo senza la Russia non ha senso", la stessa cosa che più o meno disse Putin in un’intervista a Soloviev: "un mondo senza Russia che mondo sarebbe?"».
Come spieghi la fascinazione degli italiani per Dugin? Solo da noi o anche in altri Paesi?
«No, solo gli italiani. In Francia ha avuto un momento di notorietà ma poi Jean Marie Le Pen lo mandò a quel paese. In Italia si tende a misconoscere il tratto europeo della cultura russa, e ad esaltare quello eccentrico, mistico, sgangherato. Anche Umberto Eco, di cui ero una giovane amica, si appassionava delle storie più fosche, più mistiche, preferiva Azef e Blavatsky a "Guerra e Pace" di Tolstoy, che reputava "troppo lungo e complesso" e che mi confessò di non aver mai letto».
Di chi è la responsabilità della lacunosa trasmissione di informazioni tra Russia e Italia?
«Dell’editoria e dei giornali, quindi anche mia e sua. Quando facevo l’agente letterario e portavo autori come Ulitskaya e Ruben Gallego, mi venivano a chiedere: "non hai Prilepin? Limonov? Dubovickij, Lilin?"».
Tutti casi letterari, no?
«Allora, quando una casa editrice sofisticata come Voland mi chiese un parere su Prilepin, io fui molto chiara: "è un fascista". Non so come spiegare, ma così come gli italiani si conoscono tra loro, e sanno chi fa cosa, la stessa cosa avviene tra russi, io tra l’altro conosco tutti di persona. Prilepin è uno che scrive di "un’etnia non ariana che deve leccare i piedi ai russi per averli risparmiati", cioè, un antisemita fatto e finito, e però mi è capitato di sentire persone colte, e anche amiche, che non avevano neanche capito il riferimento. Perché? Forse perché è elegante, è esotico, è uno che prima di parlare si succhia una croce che tiene al collo».
Anche Lilin, lo scrittore di "Educazione siberiana"?
«Ricordo un festival a Bellinzona con i miei autori, la Ulitskaya, Ruben Gallego, Mikhail Shishkin, Mikhail Aizenberg, e a un tratto mi dicono: "c’è anche Lilin". Come Lilin? Arriva, si siede, e comincia a raccontare la sua storia, la sua infanzia infelice in Siberia e l’esilio in Moldavia. Ora, chiunque conosca la Russia chiede: ma quale esilio in Moldavia? È come se uno dalle miniere del Sulcis durante il fascismo fosse stato esiliato in un appartamento del centro di Roma, ma di che stiamo parlando? E però il pubblico voleva lui, che è stato inventato da Einaudi dal nulla. Io con i miei autori eravamo seguiti da una ventina di persone, ma per Lilin c’erano settanta persone. Alla fine ho detto, andate al diavolo, e mi sono arresa. Un altro è Limonov, è stato un errore esaltarlo in quel modo, anche se Carrère è un grande scrittore».
Che opinione si è fatta dei talk show italiani durante la guerra?
«Anche lì: mi hanno invitato in televisione con dei personaggi incredibili filo-Putin, che dicevano cose assurde, e con cui era impossibile intrattenere un contraddittorio. Un regalo alla propaganda del Cremlino che neanche Putin stesso poteva sperare. Una volta mi hanno chiesto se era vero che Putin beveva il sangue dei daini. Ma che è?».
Crede alle interferenze russe sul voto italiano?
«Penso che i russi ci provino, non so se ci riescano, ma si intesteranno qualsiasi risultato».
Cosa non capiamo della Russia?
«Le stesse cose che non capiamo dell’Occidente. Penso ai miei vicini di casa a Milano, che mi guardano con compassione, che sentono che dovrebbero parlare con me, che dovrebbero interessarsi. Ogni tanto qualcuno mi dice "un giorno andiamo a prendere un caffè così mi spiega bene cosa sta succedendo", ma adesso c’è la jeep da lavare e i bambini da portare a scuola. Ciascuno dice: poi ci penserò. E i russi fanno lo stesso. Mentre stanno lì nelle loro case a chiedersi come mai la cugina di Donetsk non chiama più e loro anche non la chiamano perché hanno paura di affrontare la conversazione, non si rendono conto che la guerra è già nelle loro case. Anche loro dicono: ci penserò, ci penseremo domani, magari le cose si sistemano da sole. E invece nessuna di queste due cose succederà».