la Repubblica, 28 agosto 2022
Cronache della marcia su Roma
Come nell’ultimo sussulto di un organismo malato, tutto si congiunge mentre tutto si disfa. Lo sciopero generale risveglia il fantasma della spallata bolscevica, la paura della borghesia che era ancora in agguato nonostante la promessa rivoluzionaria fosse palesemente scaduta, dopo l’occupazione delle fabbriche. Ma l’agitazione è il primo tentativo di rispondere in piazza alla violenza di strada delle camicie nere, proletariato contro squadrismo. La protesta non è decisa dalla classe operaia per sé, ma per la libertà di tutti. Ma i fascisti ribaltano lo sciopero, lo denunciano come un attentato alla libertà di movimento dei cittadini, garantiscono con i loro uomini i servizi essenziali. Già il primo giorno le squadre occupano alle quattro del mattino i depositi dei tram a Milano, riportandoli in strada, con le camicie nere trasformate in autisti e controllori, al seguito di Aldo Finzi che guida personalmente il 948, con un manganello appeso al vetro. Il partito dell’eversione si presenta così ai cittadini come il partito dell’ordine. Il segretario del Pnf, Michele Bianchi, lancia un ultimatum: «Diamo 48 ore di tempo al governo perché dia prova della sua autorità. Trascorso questo termine, il fascismo si sostituirà allo Stato impotente».
Cinquantadue ferrovieri sono licenziati per aver aderito all’agitazione, 50 mila vengono puniti. Tre giorni più tardi l’Alleanza per il lavoro ordina la fine dello sciopero, con un manifesto che vanta «il raggiungimento degli obiettivi prefissati ». Lo sciopero in realtà è fallito. O meglio, i lavoratori hanno capito e hanno risposto, fermandosi: ma il fascismo si è interposto tra il sindacato e la pubblica opinione, distorcendo il messaggio fino a rovesciarlo. Per Mussolini è l’epilogo di «una pagliacciata delle carogne e dei parassiti antinazionali»: L’ Ordine Nuovo si rivolge ai lavoratori: «Per la vostra salvezza, cacciate tutti quei Capi che hanno sabotato l’organizzazione armata del proletariato. La violenza proletaria – scrive il giornale di Gramsci – si rivela l’unica forma efficace di lotta contro la violenza fascista». Turati è sconsolato: «Con lo sciopero il proletariato ha mandato un monito alleclassi indifferenti perché si ritorni alla legge. Ha anche voluto dire al governo che è pronto ad aiutarlo, ma il governo si compiace di stare dall’altra parte, e il proletariato non ha armi».
Tutti i conti sospesi chiedono di essere saldati, prima dello scontro finale. Così nel vortice d’inizio agosto finisce il vero totem dello squadrismo, il municipio di Milano. Le camicie nere non possono tollerare che la città-culla del fascismo sia guidata da un socialista come Angelo Filippetti, antifascista, antimonarchico, medico popolare tra i proletari. Comincia l’offensiva: prima il prefetto Lusignoli coglie l’occasione dello sciopero e nomina commissario prefettizio per i servizi pubblici il conte Fernando Lalli, che va subito a sedersi sulla poltrona di sindaco, approfittando del viaggio con moglie e figli a Vienna di Filippetti, vilipeso dai fascisti che fanno il conto di quanto spende al giorno all’Hotel Herzog Karl, lo seguono nei ristoranti e nei caffè, lo accusano di passare vacanze “da dandy”. Poi l’assalto.
Dalla Galleria gli squadristi dilagano in piazza della Scala, le guardie a cavallo li disperdono entrando nelle file, ma subito il fronte si riforma e preme sul portone chiuso di palazzo Marino. I due blocchi si fronteggiano. Poi l’equilibrio si spezza quando un fascista di 49 anni, Natale Quaragna, riesce ad arrampicarsi su una colonna del municipio aggrappandosi agli spigoli, issandosi sul balcone, per mostrare alla folla un gagliardetto del Fascio. Rompe un vetro, apre la finestra tra urla e applausi, mentre un camion sfonda il cancello d’ingresso. Un attimo, e le camicie nere sono dovunque. Il Comune “rosso” è espugnato, con Milano arriva a compimento la conquista delle città socialiste. Basta sporgersi da quel balcone sulla piazza nello stesso caldo d’agosto, cent’anni dopo, e guardare giù per immaginare la scalata solitaria del primo fascista al palazzo di città: e recuperare attraverso il secolo la vertigine facinorosa della democrazia violentata dal gesto che soppianta la politica.
Bisogna seguire passo dopo passo la cronaca quotidiana che il governo fa della sua impotenza, nei telegrammi cifrati del prefetto Alfredo Lusignoli, inoltrati ad ogni ora al ministro dell’Interno Taddei e al presidente del Consiglio Facta. Il 2 agosto alle 16,25 parte da Milano per il Viminale la notizia di due arresti, un comunista armato di pugnale, e un senza-partito attrezzato con petardi. A mezzanotte gli arresti, in seguito a incidenti, sono diventati duecento. E nel dispaccio segreto 6723 il prefetto aggiunge una sua considerazione: «Certo è che gran parte della popolazione, stanca dello sciopero, dimostra chiaramente di parteggiare per i fascisti».
Insiste ancora alle 4,40 del 3 agosto: «Non nascondo che cittadinanza mal tollererebbe azione a fondo contro fascisti. Stato d’animo cittadinanza est completamente favorevole ai fascisti, mentre da parte dei socialisti si nota una forte depressione degli spiriti». Alle 2,45 un dispaccio spiega che la folla applaude quando il camion demolisce il cancello, il telegramma 6734 notifica al governo che «dimostranti più svelti scalano il municipio issando il tricolore». Poi il 4 agosto alle 19,45 arrivano i messaggi indirizzati a Sua Eccellenza Facta, «con priorità assoluta»: il prefetto ha avuto colloqui «veramente impressionanti» con uomini del direttorio fascista: «Si intende occupare tutti i Comuni socialisti, sono già pronte liste di proscrizione di persone che dovranno essere uccise, con 64 nomi». Ancora un dispaccio cifrato per Facta, il numero 19723 delle 15 del 5 agosto, per informarlo che i fascisti «intendono espellere da Milano i capi delle organizzazioni socialiste, deportandoli probabilmente in Sardegna».
Coperto dalla fragile cifra del segreto di polizia, corre sui fili del telegrafo il profilo di un colpo di Stato che per tutto il ‘22 annette giorno dopo giorno al fascismo pezzi di sovranità locale espropriata, poteri civici destituiti con la forza, palazzi sacri della storia italiana. È un’abdicazione generale. La Federazione Industriale Lombarda scrive al ministro degli Interni Taddei per invocare il restauro «del sentimento rigido del dovere e della disciplina » e per chiedere «adeguate sanzioni» contro chi ha scioperato. Il generale Giovanni Cattaneo, comandante del Corpo d’Armata territoriale di Milano, ammonisce il governo: «Rimettere in sede l’amministrazione socialista del Comune di Milano potrebbe stimolare una reazione fascista con l’aiuto di gran parte della cittadinanza. E un’azione a fondo contro i fascisti rischierebbe di provocare un riaffermarsi del partito comunista, oggi muto. In tal caso l’autorità militare si potrebbe trovare nella mostruosa condizione di cooperare con tale partito contro i fascisti ». I dispacci del questore di Milano, Giovanni Gasti, sembrano la recensione di uno spettacolo: «La mobilitazione fascista ha tutti i caratteri dell’apparato militare, i suoi comandi, le sue sentinelle, i segnali di tromba, e ogni sera in piazza del Duomo vengono dati gli squilli della ritirata. Lo spirito di cui sono animati i fascisti è vibrante di fede nel loro ideale, pieno di sicurezza nella propria forza, ardente di odio contro i sovversivi, determinato alle più rischiose imprese, con sprezzo della vita». La conclusione è disarmata: «La loro baldanza è nutrita dal convincimento che le truppe statali per simpatia non condurranno mai contro i fascisti un’azione risolutiva per mezzo delle armi».
Poiché tutto si stava compiendo, mancava solo il Verbo, per dare il nome alle cose. Gabriele D’Annunzio arriva in automobile alle 10 e mezza di sera tra la folla che lo invoca, prelevato all’Hotel Cavour dopo una resistenza di un’ora, chiuso in camera «a interrogare i demoni», probabilmente in realtà a scrivere il discorso. Eccolo che compare al balcone tra le luci accese a ogni finestra del palazzo, si affaccia «alla ringhiera posta nel cuore della città, dove io stasera – annuncia – vorrei stendere la bandiera che portai a Fiume, nella notte di stelle, in libertà e in battaglia, e che sogno nella mia ebbra fantasia notturna. Me la ribattezzate voi?». «Sì», ruggisce la piazza. Il Vate guarda la folla. «Qui dov’è rimbalzato il genio della stirpe io porto stasera una grande parola di bontà. C’è nella nostra vita un dogma: tutto per la Nazione, e nulla contro la Nazione. Cittadini di Milano, credete voi in questo dogma?». L’onda fascista si muove con un urlo: «Sì». «Stasera noi – conclude il Comandante – nelle nostre fragili vite, nelle nostre disperate volontà e nelle nostre stanchezze portiamo il soffio invincibile e divino della razza purissima e dell’Italia eterna. E per questa Italia, eja, eja, eja». «Alalà» è la risposta, mentre il poeta-soldato risale in auto e se ne va. Lo insegue un telegramma del segretario fascista, Michele Bianchi, che è un tentativo di annessione totale: «Il Partito Nazionale Fascista raccoglie il Vostro altissimo monito e ricambia il grido di Viva il Fascismo! ». La risposta arriva con un altro telegramma, da Gardone: «Vi è un solo grido da scambiare oggi fra italiani: Viva l’Italia! È il mio. Credo che debba essere anche il vostro».
Cosa resta di questa fiammata fascista nel cuore di Milano? Uno spostamento di equilibri, la confisca del potere politico reale. E la traduzione immediata delle vicende in termini di lotta di classe, come per ogni cosa in questo 1922. «Palazzo Marino è nostro», gridano i socialisti, «occupato dalla violenza è ancora del proletariato milanese, dei poveri, dei miseri che lo riconquisteranno riconsacrandolo». Il
avverte che la libertà sta finendo: «Se lo Stato si mostra vile, la dittatura si renderà necessaria, e i caporioni rossi non troveranno scampo». Alla fine, ammette il giornale di Turati,
«lo sciopero generale è stato la nostra Caporetto. Bisogna avere il coraggio di riconoscerlo: oggi i fascisti sono i padroni del campo e se volessero potrebbero menar colpi formidabili».
Vogliono. E lo fanno, puntando il mirino ancora una volta sull’ Avanti! . Nel pomeriggio un camion fascista al capolinea del tram numero 11 viene assalito da colpi di moschetto e di pistola, mentre dalle finestre mani di donne si sporgono lanciando pietre, mattoni e tegole. Le camicie nere rispondono al fuoco, poi ripiegano lasciando sulla strada rantolante Edoardo Crespi, mutilato di guerra di 25 anni, colpito alla testa e massacrato a pugnalate dai “sovversivi”, che gli strappano anche le medaglie dal petto. Scatta subito la rappresaglia. Colonne di camion e automobili trasportano le camicie nere alla nuova sede dell’ Avanti! rinata in via Settala dopo le tre distruzioni precedenti. Pietro Nenni da tre giorni non lascia la redazione, anche stanotte ha dormito in ufficio con 15 compagni, giornalisti, impiegati, operai. Hanno scavato una trincea nel cortile con una barriera di filo spinato. Ma appena arriva la colonna squadrista il capitano che comanda la pattuglia della guardia regia dice che non può difendere il giornale perché ha l’ordine di non sparare. Ci sono tre morti tra i fascisti, l’operaio Frandini viene ucciso in tipografia. I socialisti lanciano sassi, sparano, immettono la corrente elettrica nel filo spinato, poi le camicie nere gettano tavole di legno sul filo elettrificato e riescono a passare. Ora possono distruggere tutto, macchinari, magazzini, archivio. Bruciano le bobine di carta, le scrivanie, le linotype, la nuova rotativa tedesca Vomag di 480 quintali. Quando Nenni si toglie il cappello, vedrà che è attraversato da un colpo di moschetto.
Manca il Duce, impegnato a Roma nella discussione sulla nascita del governo Facta 2. Vigila che non ci siano sorprese, controlla che la crisi scivoli verso un governo d’irrilevanza, nell’eutanasia inconsapevole del regime liberale. Facta prende i voti, 247 contro 121, ma è una fiducia numerica, di necessità, non politica. «Non c’è stata la soluzione che la logica imponeva – denuncia il socialista Treves – I partiti che si erano trovati concordi nella demolizione, non si sono ritrovati solidali nella ricostruzione. Ora un altro Stato si crea nello Stato, con un esercito privato. Il fascismo vuole tutto il potere. Onorevole Facta, siete voi disposto a mordere? ». Risponde indirettamente Mussolini: «Il Presidente del Consiglio non vuole e non può partire in guerra contro il fascismo, che non è insurrezionale per definizione, ma può diventarlo per necessità». In concreto, l’unica decisione del nuovo governo è di affidare la difesa dell’ordine pubblico in cinque province all’autorità militare, nominando cinque generali al posto dei prefetti destituiti.
A che gioco sta giocando l’Esercito? Si tratta di 270 mila uomini, più altri 20 mila a disposizione del ministero degli Esteri e di quello delle Colonie: con una storia strettamente legata alla Corona. Da due anni, nei reparti cresce però un’altra fedeltà, alla predicazione fascista come promessa di restaurazione della forza della nazione, con la tentazione di favorire le azioni squadristiche, comunque di non contrastarle, certamente di non reprimerle. Addirittura, un gruppo di ufficiali decorati spedisce una lettera al
ponendo un dubbio: «Noi, è inutile negarlo, siamo simpatizzanti per i fascisti che combattevano i bolscevichi. Bisogna che Mussolini parli chiaro. Il nostro giuramento di fedeltà non può essere intaccato. Se i fascisti si mettessero contro la Corona, il nostro comando sarebbe “fuoco fermo”. Gli ufficiali dell’esercito italiano prima di tradire si uccidono». Mussolini risponde, attento a muoversi con circospezione tra il Re e i comandi militari, come farà sempre in questi due mesi che precedono la Marcia: «Nessuno oggi trascina nelle polemiche la Corona, per quanto non mancherebbero discreti motivi per farlo. Dopo di che il fascismo pratica la legge del
La Corona non è in gioco, purché la Corona non voglia, essa, mettersi nel gioco. È chiaro? La minaccia del “fuoco fermo” ci lascia indifferenti».
Milano, la capitale delle due anime politiche si scopre teatro principale dello scontro. Il fascismo che è venuto alla luce qui, vuole conquistarla. Il socialismo che aveva custodito proprio qui il suo primo seme col Partito Operaio Italiano, nato in tuta nel 1882, vuole continuare a vivere nelle Case del popolo, nelle biblioteche circolanti, nelle Società di Mutuo Soccorso. È una città in forte trasformazione, con la popolazione che in vent’anni è passata da 491 mila abitanti a 721 mila, registra 5946 esercizi pubblici, celebra otto matrimoni ogni mille residenti, distribuiti tra i 369 preti cittadini: ma con elementi, colori, suoni e odori di una tradizione popolare tenace, come il profumo del fieno che arriva al tramonto dalle stalle di città, il grido a mezzogiorno dei venditori ambulanti di polenta che s’infila nei cortili d’ardesia e sale fino ai “copp”, il richiamo della trippa cotta nelle cucine interrate, il luccichio umido dei pesci sotto la tenda in via Santo Stefano, il passaggio puntale dell’ostricaro accompagnato il venerdì dal mercante di gamberi, preceduto dallo straccivendolo. La tubercolosi è ancora causa di morte tredici volte su cento, seguita dalla polmonite (12) e dalle malattiedi cuore (8), i disoccupati ad agosto sono 78 mila nell’edilizia, 22 mila nelle manifatture, 55 mila nella metallurgia, 58 mila nell’agricoltura, le strade sono sempre pavimentate a ghiaia e pietrisco, dieci volte più dell’asfalto. Ma intanto le biblioteche del popolo distribuiscono 343.477 libri nell’anno terribile 1922, di cui 318.150 a domicilio, con gli studenti al primo posto tra i lettori, seguiti dagli impiegati e dalle casalinghe. Le domande di beneficenza sono 2570 all’anno, quelle per i buoni alimentari 533, i litri di latte distribuiti ai poveri 8308, le uova 14806, e nell’intero 1922 ci sono stati 293.213 nuovi pegni al Monte di Pietà, 291.739 sono stati estinti, 22025 sono stati venduti all’asta.
Dopo aver aspettato il passaggio delle mannequin che escono alle sei dai laboratori di confezioni Ventura, e il ritorno a casa delle sartine che cuciono da Zuckermann, la sera si può passare per un “Punt e Mes” alla Patriottica, aspettare gli amici leggendo il giornale al “Giardino”, guardare dalle finestre de “L’Unione” l’elettricità pubblica che supera per la prima volta quest’anno la spesa per l’illuminazione a gas, e caccia tutte le ombre. Oppure varcare il cinodromo di via Bersaglio per la coppa- challenge dei cani lupo, o scoprire il “cinema parlante” inventato in corso Vittorio Emanuele dall’ingegner Paglieri, o ancora aspettare l’operetta al Pathé Salon, per poi entrare a mezzanotte nella sala da ballo della “Grande Italia”, perché stasera torna la bellissima Argentinita. I cavalli di lusso sono ancora 467, si sentono gli zoccoli sui ciottoli, ma adesso devono portare un campanello appeso al collo che tintinna all’angolo tra via Senato e corso Venezia quando scaricano a casa Marinetti dopo le sue serate futuriste al Dal Verme, o quando si fermano davanti all’ “Olimpo” attendendo D’Annunzio che sta leggendo la
di fronte alla pista sopraelevata per le gare di bicicletta attorno alla platea, al posto della galleria. L’ultimo tram a cavalli per andarsene aveva aspettato di infilarsi nella nebbia serale del 5 dicembre 1901: adesso scompare dopo cinquant’anni il giallo delle vetture, e arriva il “verde vagone”, con l’abbonamento mensile a 40 lire, il trimestrale a 100.
Mussolini lancia una sottoscrizione per la nuova sede milanese del Fascio, due piani in via San Marco: «Occorrono 100 mila lire. Su, animo, fascisti di Milano: tutti avete l’obbligo di contribuire». In silenzio e all’insaputa di tutti, il Duce aveva organizzato un incontro segreto con D’Annunzio e Nitti in una villa toscana a Ferragosto, per esplorare l’ipotesi di un accordo largo di governo. Tutto salta due giorni prima, il 13, quando arriva a sorpresa la notizia che il Vate è caduto dalla finestra nella Sala della Musica al Vittoriale, alle 11 di sera, mentre seduto sullo stipite in pigiama e pantofole ascoltava la pianista Luisa Baccara – dice la versione ufficiale – conversando con la sorella Jolanda. Cos’è successo? Gelosia, impudenza, acrobazie amatorie, spinte, perdita d’equilibrio, casualità? Il comandante precipita nel mistero e nei pettegolezzi da sette metri, cadendo nel giardino davanti a una gabbia con due gufi, e perde conoscenza per una frattura alla base della fossa cranica anteriore destra, corrispondente all’occhio già offeso. Commozione cerebrale, stato sub cosciente. Arrivano i telegrammi del Presidente del Consiglio Facta, della direzione del partito fascista, dei legionari che vegliano, da Parigi chiama al telefono Maria Hardouin dei duchi di Gallese, la moglie del Comandante. Il vertice politico segreto svanisce, anche se il Vate si risveglia: polso 55, respiro 18, temperatura 36,8. Qualcuno approfitta per giocare i numeri del Vittoriale al lotto, che in quel fatale 1922 registra nel Regno riscossioni per 373.179.700 lire, con vincite per 147 milioni e 226 milioni di profitti per lo Stato, grazie a una spesa per abitante che arriva a 63,46 lire a Napoli, e tocca il minimo a Sondrio, 0,67. È la scommessa sull’irrazionale di un’Italia che vive il futuro come un’incognita nell’occulto, cercando segni: e trascina anche chi dovrebbe darne al Paese. A sorpresa, infatti, durante il processo all’ex segretario del conte di Saluzzo, che per difendersi dall’accusa di estorsione ha invocato gli spiriti nell’aula del tribunale penale di Torino, la chiromante veggente e sonnambula Nina Azeglio viola davanti alla Corte un segreto di Stato, rivelando di aver assistito ripetutamente con le sue arti arcane Giovanni Giolitti, scrutando le effemeridi per lo statista e per l’Italia, e garantisce a tutto il Paese: «L’onorevole dice il giusto, vede chiaro, e i suoi sogni non l’ingannano mai».