Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  agosto 28 Domenica calendario

Vinicio Capossela si racconta

Arriva sempre il tempo di fare i conti con l’irrequietezza.
Con le cose che non si riescono a trattenere. Èavvenuto anche a Vinicio Capossela quando, all’età di ventinove anni, si è trovato di fronte a una crepa nella corazza che fino a allora lo aveva protetto.
Fu però proprio quella incrinatura a innescare gli eventi che gli permisero di registrare, nel giugno del 1996, il suo disco di maturazione e successo. Quel Il ballo di San Vito che dell’irrequietezza divenne simbolo.
Capossela, come ricorda quell’estate?
«Come un periodo di grandi energie e di grandi insicurezze».
Tutto cominciò con la primavera del 1995. Cosa le capitò?
«Andai a un concerto di Jeff Buckley a Londra. Rilessi On the roaddi Kerouac e iniziai, insieme ad altre anime irrequiete, a fare molti chilometri da un concerto all’altro».
Aveva già inciso tre dischi, era sposato con Jill Halley e aveva una casa a Milano. Non bastò.
«La gioventù divenne più cruenta quando passò la mano alla stagione successiva. A gennaio del 1996 mi separai. Fui traumatizzato e non trovai la forza per andare in un’altra casa. Cominciai a scrivere i nuovi brani senza fissa dimora».
Quei testi nacquero dalperegrinare in una geografia periferica e particolare. La Contrada Chiavicone in Emilia, il Cinastic a San Giuliano Milanese, il tanco dei Murazzi a Torino.
Cosa portava con sé?
«Avevo solo una valigetta Samsonite con gli effetti personali. Comprai una sveglia Kienzle in acciaio. Era la cosa più solida.
Almeno sapevo che ora era».
Venne giugno e il tempo di incidere a Bologna. Dove dormì?
«Renzo Fantini, il mio produttore, mi assicurava una stanza d’albergo all’Hotel Roma, ma venni ospitato da un’amica che mi procurò una casa con un pianoforte verticale in via Centotrecento. Poi scoprii che, anni prima, lì era stato ospite Keith Haring. Sono molto affezionato a quella casa, e a quei tempi».
Le incisioni durarono solo due settimane. Dove registraste?
«Nello studio bis della Fonoprint in via de’ Coltelli. Piccolo e molto
roots .Il disco fu inciso su nastro.
L’analogico riduceva di molto le possibilità e obbligava tutti a concentrarsi. Ho nostalgia di quel modo di lavorare e cerco ancora di applicarlo».
Come fu quell’estate a Bologna?
«Caldissima. E dentro gli studi eravamo senza aria condizionata».
A organizzare quelle incisioni c’era Renzo Fantini, produttore di Conte e Guccini. Aveva prodotto anche i suoi primi tre dischi. Come lo ricorda?
«I miei album precedenti erano stati magistralmente prodotti.
Fantini era una persona straordinaria. Era però venuto il momento in cui il figlio uccide il padre e si impadronisce dellagioielleria di casa. Devo dire che fu un’altra occasione in cui dimostrò concretamente la sua straordinaria capacità di mettere l’artista in primo piano».
Quei giorni furono segnati dalle persone con cui li condivise. Con lei c’era Evan Lurie, Carlo Rossi, Enrico Lazzarini. Davide Graziano. Jacopo Leone. Dum Dum Rastafari. E tanti altri.
Aspettava anche il grande chitarrista Marc Ribot. Che però sembrò non riuscire a arrivare intempo.
«Aveva dimenticato un passaporto in albergo e aveva perso il volo dall’Austria. Ma a Graz noleggiò un auto, guidò da solo e arrivò di corsa a Bologna. Una volta in studio,spalancò il trolley da cui uscì ogni sorta di cosa. Con un sorriso da delinquente di Brooklyn, attaccò il jack della chitarra che sembrava tenuta insieme con il nastro adesivo».
Cosa suonòuna volta arrivato?
«La prima registrazione fu l’interminabile assolo che c’è nelTanco del murazzo. Poi rimase con noi tre giorni».
Quelle registrazioni furono particolari. C’era un suono post-punk ma anche qualcosa di arcaico. Chi fece la ritmica de “Il ballo di San Vito”?
«Una figura straordinaria della musica italiana. Alfio Antico si presentò con le sue enormi tammorre, i tamburi della tradizione pastorale. Stava nel gabbiotto, a torso nudo, senza aria condizionata, con quel caldo. A un certo punto, per intonare la tammorra, accese un becco di Bunsen, un bruciatore a gas. Una volta intonata, gridò “Accumincio, accumincio,” e Bamm! Bamm!
Accuminciò».
Dove era nata l’idea del ballo di San Vito?
«Alla marina di Patù, a San Gregorio, in un Salento particolare. L’ultimo lembo d’Italia. In una birreria sulla strada chiamata fatalmente On the road . I ragazzi della birreria mi portarono alle tre di notte a un ritrovo con anziani e giovani che si accanivano sui tamburelli».
Cosa la colpì?
«Era un rito estremamente dionisiaco. Una specie di trance collettiva. C’era qualcosa di mistico. Così pensai al ballo di San Vito. C’è qualcosa in questo termine, un’inquietudine. Mi sembrò un buon titolo per ciò che vidi e per definire quella stagione di grande irrequietezza».
Il pubblico e la critica accolsero molto bene quell’album.
«Rinunciai alla corazza e mi misi a disposizione degli eventi. È stato il disco in cui ho rischiato di più. In senso esistenziale».
Dal vivo poi nel concerto con la Ko?ani Orkestar lei interpretò una versione molto toccante di “Estate” di Bruno Martino dove non pronunciava quasi mai la fatale frase “Odio l’estate”.
«È un brano a cui sono molto legato per motivi personalissimi.
Dopo quella mia versione, ci fu una telefonata con Bruno Martino. Una telefonata molto divertente in cui mi diceva che il pezzo era molto bello ma il testo non lo aveva mai convinto del tutto».
Ma anche lei odia l’estate?
«Certo che la odio. Sono nato in dicembre e sono molto più affezionato all’inverno».