Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  agosto 28 Domenica calendario

Inchiesta su Giorgia Meloni (3 puntate)

Il suo nome è M. È donna. È madre, ma soprattutto è madrina della vecchia destra, truccata di nuovo. È veterocattolica, più che cristiana. Se vincerà lei, se Giorgia Meloni sarà davvero la prima donna a varcare la soglia di Palazzo Chigi, forse non avremo i fascisti al governo. Forse. Ma qualcosa che somiglierà molto alla Le Pen all’Eliseo, una voce che accenderà ancor più le piazze di Vox, un’ideologia che darà del tu al dispotismo antidemocratico di Viktor Orbán.

Patriota anziché camerata. Il suo pensiero forte contro il pensiero aperto. La difesa dei confini prima della difesa dei diritti civili, della tutela degli ultimi, dei migranti, delle minoranze, degli omosessuali. Vivremmo il paradosso della svolta più innovativa - una donna premier, appunto - combinata con la più precipitosa retromarcia del Paese al cospetto della modernità.

All’anagrafe Giorgia Meloni non ha nulla a che fare col fascismo del Ventennio. Ma il dato anagrafico non risolve il problema politico. Nata oltre trent’anni dopo. Non è nemmeno neofascista, nel senso storico del termine. Ma il suo partito, i suoi uomini al comando, la sua cerchia più stretta sono intrisi di quell’ideologia. La fiamma non arde solo sul simbolo, irreversibilmente a quanto pare, ma anche nelle storie personali di ciascuno di loro. La ragazzina tosta della Garbatella è diventata espressione di un’estrema destra occidentale. Il comizio di Marbella dal palco di Vox è stato il manifesto politico di quell’accrocchio di valori dal sapore secolare che infiamma le piazze e spaventa le cancellerie di mezza Europa. Con buona pace della presidenza del partito dei Conservatori europei.

Ha abiurato il fascismo, l’altro giorno ha attinto a Gianfranco Fini senza mai citarlo. Lo ha fatto perché non poteva non farlo, raccontano in queste ore i suoi uomini. E lo ha fatto nell’ultimo momento utile disponibile. Ma nelle stesse ore di quel 10 agosto in cui pronunciava parole di condanna in spagnolo, francese e inglese (ma non italiano), bocciava la candidatura alla Regione Sicilia di Stefania Prestigiacomo, Forza Italia, "rea" di essere salita sulla Sea Watch che aveva salvato centinaia di migranti dalle acque del Mediterraneo e tenute al largo dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. Perché salvare vite umane sì, ma se di colore forse valgono meno.

Del resto, se la destra di Giorgia Meloni scalerà i gradini più alti del governo del Paese, a farle da ombrello sarà un simbolo che porta ancora impressa la fiamma. La stessa che arde sulla tomba di Benito Mussolini. Perché come certi valori, Dio, patria, famiglia, anche la fiamma delle origini resta inestinguibile per quel mondo.

"Inchiesta su M." È un viaggio in tre puntate che il nostro quotidiano inizia oggi. Frutto di un lavoro d’inchiesta senza precedenti sulla fondatrice di Fratelli d’Italia. Abbiamo scandagliato le sue origini, la sua costellazione, le sue amicizie, le sue frequentazioni, la sua classe dirigente, i suoi contatti internazionali, i suoi progetti, le sue strategie. Vi hanno lavorato per giorni dieci tra le più qualificate firme di "Repubblica". Perché a pochi giorni dal voto i nostri lettori e gli italiani abbiano tutti gli strumenti utili per conoscere, capire e ponderare una scelta - quella del 25 settembre - che segnerà uno spartiacque per il futuro di questo Paese.

Così ha inizio la storia
Quando Giorgia Meloni aveva due anni suo padre, Franco, salpò per le Canarie a bordo di una barca battezzata Cavallo pazzo e non tornò più. All’epoca vivevano alla Camilluccia. È una zona residenziale a nord di Roma: villette inaccessibili, residence nascosti dietro le siepi, giardini lussureggianti. Ci vivono nascosti attori, politici, imprenditori. Franco Meloni mollò la professione di commercialista e si lasciò alle spalle anche la famiglia. Giorgia, sua sorella Arianna, e la madre, Anna, si ritrovarono in un mondo diventato improvvisamente ostile. La mamma si vide costretta a fare molti lavori per sbarcare il lunario. L’anno dopo, un giorno del 1981, l’abitazione nella quale vivevano andò a fuoco per una candela che Giorgia e Arianna avevano lasciata accesa nella loro stanzetta. Senza casa e senza padre, la tempesta perfetta. La madre acquistò un piccolo appartamento alla Garbatella, dove vivevano i nonni materni e provò a ripartire daccapo. Giorgia Meloni si ritrovò così dall’altra parte della città, a Roma Sud, in un rione popolare, molto diverso dalla Camilluccia. La Garbatella, insieme a Testaccio, è uno dei grandi cuori della romanità, case rosse e gialle appena fuori le mure aureliane, vi hanno girato I Cesaroni e Nanni Moretti vi scorrazzava in Vespa durante Caro diario. È questo un inizio alla Dickens che la leader di Fratelli d’Italia ha raccontato molte volte. Insieme al fatto che da piccola fosse obesa, pesava 65 chili a nove anni, e perciò bullizzata. "A cicciona! Te nun poi giocà!" le dicevano. Figlia di gente separata, un padre lontano, la famiglia in rovina, figlia di un Dio minore che trova nella politica il riscatto e la terra promessa. Giorgia Meloni probabilmente scelse la destra per spirito di rivalsa, per voglia di contraddizione: il padre era comunista, la madre guardava a destra, Giorgia scelse la madre. Dopo le stragi di Capaci e di via Amelio bussò alle porte blindate del Fronte della Gioventù, l’associazione giovanile del Movimento sociale italiano. Era il 1992. Meloni aveva 15 anni e frequentava il linguistico Amerigo Vespucci.

"Molti di quelli - ha raccontato in Io sono Giorgia (Rizzoli) - che abbracciavano la militanza politica arrivavano da situazioni familiari particolari: tanti avevano genitori separati o magari vivevano in contesti con qualche problema. I ragazzi che più si dedicavano all’impegno politico cercavano dei riferimenti, una loro dimensione, volevano appartenere a qualcosa".

Giorgia Meloni adesso ha 45 anni. È entrata in Parlamento a 29 anni, subito designata vicepresidente della Camera dal suo mentore Gianfranco Fini, poi ripudiato. La più giovane a ricoprire quel ruolo. Due anni dopo era già ministra, ai giovani. Ebbe perciò un’enorme attenzione mediatica. E molta stima, anche a sinistra. Sembrava l’alfiera di un nuovo corso a destra, finalmente privato di ogni venatura fascista. Un moderno partito conservatore. Anni dopo, fondando Fratelli d’Italia, ha gettato a mare quella prospettiva, tornado al Movimento sociale. Il 25 settembre 2022 rischia concretamente di vincere le elezioni politiche e di accreditarsi perciò come la prima donna premier d’Italia. Ma da dove viene esattamente?

Quando nasce, il 15 gennaio 1977, Roma è percorsa dalla violenza politica. È un anno terribile che farà esplodere di lì a poco il terrorismo in tutta la sua forza distruttiva. Scontri di piazza, università occupate, Luciano Lama contestato alla Sapienza. Il 12 marzo, al termine di una gigantesca manifestazione, gli autonomi assaltano le armerie e Il Popolo, il giornale della Dc. Due mesi dopo muore, uccisa da mano ignota, una studentessa, Giorgiana Masi: quel giorno il ministro dell’Interno Francesco Cossiga aveva sguinzagliato molti agenti armati travestiti da manifestanti. A settembre, alla Balduina, i fascisti ammazzano un militante di Lotta Continua Walter Rossi, vent’anni.

La mamma di Giorgia, Anna, ha ventitré anni e una figlia, Arianna, quando rimane incinta di Giorgia. La relazione con Franco è già in crisi. Vengono da ambiti diversi, borghese quello di Franco, classe impiegatizia per Anna, che ha avuto un’educazione rigida; quell’uomo le era parso una via di fuga. E’ incerta se tenere la figlia. Decide di abortire, si sottopone a tutti gli esami, ma all’ultimo momento ci ripensa, la terrà. Nasce Giorgia. Il padre non le andrà a prendere all’ospedale.

La madre fa molti lavori, anche scrivere romanzi rosa: ne ha scritti centocinquanta. Giorgia trascorre molto tempo coi nonni, Gianni, siciliano di Messina, e Maria, romana della Garbatella. Vivono in un bilocale di 45 metri quadri in un palazzo a ridosso alla Regione Lazio. E’ un appartamento spartano, privo di un divano. E con un unico tavolo, dove far i compiti, mangiare, appoggiare i gomiti per guardare la tv. Giorgia ed Arianna spesso si fermano a dormire, quando la madre esce la sera con le amiche. Giorgia e Arianna dormono su un mobile-letto, "una da capo e una da piedi", situato nel corridoio.

Anche questo episodio l’ha raccontato spesso, nella rivendicazione di essere una figlia del popolo.

L’altra narrazione è quella di essere stata una bambina introversa, dal carattere difficile. "Sono sempre stata sulla difensiva", dirà.

La famiglia naturale fondata sul matrimonio è uno dei cavalli di battaglia di Giorgia Meloni, cresciuta in una di separati. Ripete che la sua è stata un’infanzia felice, che l’amore non le è mancato. "Sono testimone di come, anche in una famiglia nella quale una delle due figure genitoriali viene meno, si possa crescere perfettamente felici, grazie al sacrificio di chi si sobbarca questa responsabilità. In famiglia avevo quello che mi serviva. Era al di fuori della cerchia familiare che non trovavo la stessa comprensione".

A 11 anni Giorgia Meloni decide di non voler vedere più suo padre, che nel frattempo ha girato il mondo in barca a vela, per poi aprire un ristorante a San Sebastian, la più piccola delle isole della Canarie. L’ultima volta che lei andò in vacanza da lui non si fece trovare; le sorelle Meloni trascorsero le ferie con la compagna del padre. "Il bisogno costante di essere all’altezza, di essere accettata soprattutto in un ambiente maschile, oltre al terrore di deludere chi crede in me, vengono probabilmente dalla mancanza di amore che ci ha riservato nostro padre", scrive nella sua biografia.

Quando divenne ministro, nel 2008, la prima telefonata fu per la mamma. Molti le chiesero se era diventata di destra per reazione al padre. Giorgia Meloni negò

Il Fronte della Gioventù, racconta, era "un mondo minoritario, costretto a difendersi". È un partito maschilista, di rigida gerarchia, pieno di reduci della Rsi, la Repubblica di Salò. In quel momento il segretario è un deputato bolognese, Gianfranco Fini, divenuto missino dopo che alcuni manifestanti di sinistra volevano impedirgli la visione di "Berretti verdi" al cinema. "Sarà la mia seconda famiglia", dirà Giorgia Meloni.

Meloni ascolta Guccini, corre in sala a vedere Braveheart, fa la babysitter a casa della compagna di Fiorello, la guardarobiera, l’ambulante a Porta Portese, la barman al Piper, i suoi amici il sabato passeggiano in via del Corso e lei va in sezione, alla manifestazione, "una dimensione totalizzante, perché quando hai l’ambizione di cambiare il mondo non c’è spazio per altro, quando c’è una nazione da salvare, lasciarti andare ai tuoi personali desideri diventa una capriccio imperdonabile".

Suo padre è morto qualche anno fa. "La cosa mi ha lasciato indifferente. Ho capito allora quanto fosse profondo il buco nero in cui avevo sepolto il dolore di non essere stata amata abbastanza".


Il branco e i suoi nomignoli
Il concetto di famiglia, pure segnato da un’infanzia senza padre, torna però prepotentemente nella formazione politica di Giorgia Meloni. La cui traiettoria ha un aspetto facilmente riconoscibile: oggi come ai tempi dell’inizio della sua militanza nella Destra romana, la leader ha al fianco lo stesso gruppo di uomini e donne. Troppo semplice derubricare il tutto alla voce "cerchio magico". E’ una galleria di personaggi uniti dalla fede politica e da uno spirito di comunità che porta ancora oggi Meloni a chiamare ciascuno dei protagonisti con un nickname, un nomignolo. Un nome di battaglia. A partire dal "Lungo", al secolo Marco Marsilio, il primo oratore in cui si imbatte quando arriva alla sezione della Garbatella, ad appena 15 anni, per iscriversi al Fronte della Gioventù. Oggi Marsilio è il governatore dell’Abruzzo ed è uno dei tanti dirigenti di Fdi che vengono da quella storia di militanza. A curare i dettagli burocratici dell’iscrizione, quel giorno, è Andrea De Priamo, detto "Peo", poi diventato consigliere comunale e capogruppo di Fratelli d’Italia in Campidoglio. Da quell’incontro, di cui De Priamo racconterà il dettaglio di una giovanissima avventrice in tuta rosa (ma il particolare è sempre stato smentito dall’interessata), inizia un cammino politico che Meloni racconta con i toni della missione, lunghi dibattiti e volantinaggio, fino all’approdo alla sezione di Colle Oppio e l’impatto con il responsabile di quella storica enclave della Destra romana, ovvero Fabio Rampelli, il vero primo mentore dell’attuale candidata alla presidenza del Consiglio. È Rampelli, carismatico capo dei "gabbiani", a sostenere l’ascesa di Giorgia Meloni, prima candidandola a soli 21 anni al consiglio provinciale, e poi appoggiandola nelle successive fulminee tappe della scalata. La più importante, certamente, la nomination al congresso di Azione Giovani, a Viterbo nel 2004.

È lo scalino che porterà la pasionaria della Garbatella su una ribalta nazionale: Meloni sconfigge Carlo Fidanza e diventa responsabile del movimento giovanile, ma soprattutto amplia e consolida una squadra che comprenderà amici e nemici di quell’avventura. Fidanza, per esempio, oggi è un eurodeputato di Fdi, immortalato l’anno scorso mentre faceva il saluto romano e inneggiava a Hitler durante un appuntamento elettorale e finito nell’inchiesta sulla lobby nera che lo vede indagato con altri per finanziamento illecito al partito e riciclaggio. "Carlo? Uno dei pochi capaci di studiare quanto me", disse Meloni di Fidanza prima dell’inchiesta che si abbatté su Fdi alla vigilia delle Comunali del 2021. Legami politici e affettivi si consolidano in quel periodo: Francesco Lollobrigida, detto "Lollo", oggi capogruppo alla Camera di Fdi, si sposerà con Arianna Meloni, la sorella di Giorgia che fra i suoi diversi incarichi ne avrà anche uno nella segreteria di Rampelli. Mentre la leader, in quel periodo, avrà già fatto conoscenza con Marco Scurria, detto "il noto", uno dei capi del movimento Fare fronte, cognato dello stesso Rampelli e futuro eurodeputato cui il partito affiderà la guida della Foundation pour l’Europe des Nations, uno dei ponti europei di Fdi, costruito (anche) con lo scopo di accedere ai finanziamenti di Bruxelles.

La banda Meloni attraversa il mare dei fortunati anni ’90. Sempre con lo stesso spirito, che è poi quello di Atreju, presenze a largo raggio, goliardate che mettono in imbarazzo i big (a D’Alema fu fatta firmare una petizione per intitolare un parco all’unica, inesistente, vittima del Muro di Berlino) ma anche inviti, diciamo così, più impegnativi: da Steve Bannon, l’ideologo trumpiano ospitato nel 2018 e poi arrestato per frode e per reticenze nei confronti dell’assalto a Capitol Hill, a Viktor Orban, uno dei riferimenti della Destra sovranista che nel 2019 fu osannato dalla platea che gli dedicò le strofe di "Avanti ragazzi di Buda".

È in quel clima che Giorgia e i suoi accoliti si fanno avanti. All’ombra della crescita di An e delle lotte di potere che già infuriavano attorno a Gianfranco Fini. Emblematica la conversazione in un bar di Roma, datata 15 luglio 2005, in cui tre colonnelli finiani, Ignazio La Russa, Maurizio Gasparri e Altero Matteoli, si lasciano andare in giudizi poco lusinghieri nei confronti dell’allora presidente del partito: "È malato, non vedete come è dimagrito, gli tremano le mani, non possiamo fargli fare la trattativa sul partito unico". Fini minaccerà provvedimenti durissimi, i tre dirigenti scriveranno una lettera di scuse. In quella Alleanza Nazionale c’è una triade di parlamentari che fa il bello e il cattivo tempo a Roma: Gianni Alemanno, Fabio Rampelli, Andrea Augello. Fra pressioni e veti incrociati, Fini nel 2006 decide di premiare Meloni, proprio per spegnere la contesa dei maggiorenti del partito. Le propone la vicepresidenza della Camera. E due anni dopo, quando il centrodestra tornerà al governo con Berlusconi, ecco la nuova chiamata del leader e il primo incarico ministeriale. Delega alle politiche giovanili, denominazione cambiata in "Gioventù", che a detta di alcuni osservatori maliziosi, rimandava direttamente al linguaggio del Ventennio.

Da Calimera a ministra
Negli anni del ministero, in realtà, Giorgia Meloni si distingue per vivacità e capacità di spendere fondi pubblici, e da "Calimera" (eccolo, il suo nickname), si trasforma in donna delle istituzioni molto determinata. Fin troppo. Con Fini, ad esempio, l’idillio finisce presto. Il tempo che il presidente di An decida prima di appoggiare la nascita del Pdl. "Non esiste alcuna possibilità che An si sciolga e confluisca nel partito di Berlusconi", aveva detto Fini nel racconto che fa Meloni nel suo libro. "Due mesi dopo eravamo nel Pdl", annota l’attuale capa della Destra. Che poi romperà del tutto dopo la scelta di Fini di salutare Berlusconi e fondare Futuro e libertà: "Ancora oggi non so spiegarmi le scelte di Gianfranco Fini. Non mi capacito di come l’uomo che aveva dedicato una vita a far crescere la destra in Italia, che l’aveva tirata fuori dai margini dell’arco costituzionale per farne una forza di governo, abbia fatto tutto ciò che poteva per distruggere quel patrimonio". Chi ha vissuto l’esperienza di Futuro e libertà, in realtà, ne dà oggi una lettura diversa: "È facile adesso prendersela sempre con Fini - dice l’ex parlamentare Fabio Granata - additarlo in ogni occasione come traditore. Io ricordo quando andammo nel Pdl e vi assicuro che la stragrande maggioranza dei dirigenti di An era favorevole, con l’eccezione di Roberto Menia e Mirko Tremaglia. Detto ciò, io credo che oggi Meloni abbia l’occasione di fermare la diaspora dei finiani e di altri pezzi della tradizione di Destra, di riprendere il dialogo anche con l’ex presidente della Camera che si tiene fuori da tutto, con molto rispetto, finché non si definirà la sua vicenda giudiziaria".

Nasce "Fratelli" di Giorgia
L’ultimo governo Berlusconi è anche quello del terremoto a destra, degli ex An rimasti senza casa, del tentativo di ripartire da zero. Meloni è l’unica, per energia e capacità di costruire consenso (e di mettere la faccia anche sopra le contraddizioni del passato), a poterlo guidare, con al fianco due parlamentari più esperti, seppur di estrazione diversa, come Ignazio La Russa e Guido Crosetto. Le foto della presentazione di Fratelli d’Italia alla Galleria Sordi - con Meloni nelle braccia del gigante Crosetto - sembrano incorniciare solo l’ennesima frammentazione di una Destra inquieta. Il resto, invece, è la storia di una scalata lenta ma costante: dall’1,96 per cento al debutto nelle Politiche 2013 al 4,35 di cinque anni dopo, con la brusca accelerazione recente figlia dell’opposizione solitaria al governo Draghi. Oggi Fdi, secondo i sondaggi, viaggia attorno al 24 per cento. Gli anni del consolidamento elettorale in nome di alcune keyword care alla Destra riassunte in uno slogan diventato jingle - "sono una donna, sono una madre, sono cristiana" - e di una struttura decisionale imperniata sempre più sull’asse fra Meloni e Lollobrigida, a scapito anche del vecchio maestro Rampelli, cui l’anno scorso è stata negata la candidatura a sindaco di Roma.

I malumori, in un partito con una forte disciplina interna (e con la prospettiva di arrivare presto al potere), sono rimasti sopiti.

Quindi una ricollocazione internazionale in nome di un atlantismo che nel vocabolario meloniano ha preso sempre più il posto dell’idea di un’Europa dei popoli. E una tenace lotta contro le accuse di nostalgie neofasciste, figlie anche di contestate alleanze continentali come quella con i neofranchisti di Vox. Fino all’ultima svolta, l’abiura di una tradizione opaca affidata a un video per la stampa estera: "La destra italiana ha consegnato il fascismo alla storia da decenni, ormai, condannando senza ambiguità l’aggressione alla democrazia e le infami leggi contro gli ebrei". Ora l’ultima scommessa è sulla qualità di questa classe dirigente immutata che proviene direttamente dalla vita di sezione: "Da un lato - spiega Umberto Croppi, ex assessore alla Cultura della giunta Alemanno ed esponente storico della Destra capitolina - Meloni ha costruito una squadra compatta che ha rappresentato un valore aggiunto per il suo partito. Fdi è l’unico partito che, invece di dimezzare i suoi parlamentari, li triplicherà nella prossima legislatura. Se riuscirà ad aprire le liste all’esterno, anche ad energie nuove, non potrà che ricavarne beneficio".


La Draghetta e la tartaruga
Nella sua graduale operazione di restyling e maquillage Giorgia Meloni ha dunque recentemente segnalato che "la destra ha consegnato il fascismo alla storia". Se ne prende atto. Dopodiché la storia, la sua, e, soprattutto, la formazione politica della leader di FdI, raccontano un percorso dove la militanza ha seguito anche strade contigue a quelle dell’ultradestra e ai mondi del neofascismo. Soprattutto romano. Sono dei binari paralleli la cui distanza si è accorciata e si è allungata a seconda delle stagioni, dei temi, delle battaglie. Del ruolo e degli incarichi assunti da Meloni, ovviamente. E anche dei rapporti personali coi i camerati. Alcuni dei quali, risalenti agli anni della gioventù, sono stati poi congelati o addirittura dissimulati da "lady Giorgia". Per motivi di opportunità. Ma di quei rapporti restano tracce, dichiarazioni, video, fotografie.

Una vicenda, nel filo di questo racconto sugli "esordi", è interessante. Se è noto che agli albori di Internet la candidata del centrodestra a palazzo Chigi era attivissima, oltre che nelle piazze con Azione giovani, anche in rete dove, con il nickname "Khy-ri" - la "dragetta di Undernet Italia" - passava ore a chattare anche di notte, parlando di draghi, letteratura fantasy e musica irlandese, meno conosciuta è stata la collaborazione - da lei mai raccontata, anzi - con un politico diventato leader di un movimento (prima era un partito) neofascista: CasaPound. Lui è Simone Di Stefano, che dei "fascisti del terzo millennio" è stato guida fino a febbraio 2022. La "militanza insieme" Meloni-Di Stefano a un certo punto si interrompe. Nel 2003 Di Stefano fonda CasaPound con Gianlcuca Jannone e ne diventerà presto il front-man. La "dimenticanza" sul fascista Di Stefano non è stata né la prima né l’ultima volta che Meloni ha provato a sorvolare o addirittura a prendere le distanze da personaggi del neofascismo italiano. Che ha conosciuto e politicamente frequentato. Dal ras pluripregiudicato di Forza Nuova Giuliano Castellino all’impresentabile "barone nero" dell’estrema destra milanese ("Fare Fronte") Roberto Jonghi Lavarini.

Fantasmi e cartoline di un passato che fatica a passare. "Ho un rapporto sereno con il fascismo. È un passaggio della nostra storia nazionale", disse Meloni nel 2006, sua prima intervista da vicepresidente della Camera, aggiungendo: "Mussolini è un personaggio che va contestualizzato". La "serenità" di Meloni rispetto al fascismo è da anni oggetto di dibattito. Sono invece agli atti - perché documentati (Repubblica ne ha dato conto recentemente, ndr) - i profili, le storie, i percorsi politici di alcuni volti del gruppo dirigente di FdI. Percorsi tinti di nero. Tra i sedicenti "patrioti" spiccano figure - alcune vicinissime alla leader Meloni - i cui curricula parlano.


Dai "Gabbiani" agli ospiti di CasaPound
"Beautiful", "Lollo", "il Capo", "Delma", "Checco", "Au". Sono i soprannomi - ancora in vita o dismessi - di alcuni dei dirigenti di FdI più vicini a Giorgia Meloni. Politici che hanno condiviso pezzi di strada del "nostro pezzo di storia" - per dirla con Giorgia Meloni nella sua uscita in difesa del simbolo della fiamma nel logo del partito. Politici i cui nomi sono stati accostati - con nomi, luoghi, date, circostanze precise - a fatti e eventi dove sullo sfondo c’è il richiamo al fascismo o l’adesione a forme e modalità neofasciste. "Lollo" (da giovane "Beautiful"), Francesco Lollobrigida, capogruppo alla Camera di FdI e cognato di Giorgia Meloni. La prossimità con la capa del partito non è solo parentale. Lollobrigida l’11 agosto 2012 - da assessore alla Mobilità della Regione Lazio - inaugura ad Affile, nella valle dell’Aniene, un mausoleo dedicato al gerarca fascista Rodolfo Graziani, detto "il macellaio di Etiopia", collaborazionista dei nazisti (condannato a 19 anni di carcere) e inserito dall’Onu nella lista dei criminali di guerra. Lo ha voluto "Lollo" quel monumento: lui ha ottenuto dalla Regione i 127mila euro necessari per costruirlo (quando nel 2009 era consigliere regionale). Un altro "patriota" che ha mire alte è Fabio Rampelli, padrino politico di Meloni. L’uomo che ha schiuso le porte della politica istituzionale a quella "ragazzetta tanto decisa e determinata quanto dolce nei modi di fare". Per il "Capo", in caso di vittoria del centrodestra a guida FdI, potrebbe uscire dalla roulette un incarico da ministro.

Altro big in ascesa è Francesco "Checco" Acquaroli, governatore delle Marche, anche lui vicino a "Giorgia". Nel 2019 partecipa a Acquasanta Terme (Ascoli) a una cena commemorativa della marcia su Roma, ovvero l’inizio del fascismo. La serata è organizzata dai vertici locali di FdI. Imbarazzo? Dura poco: viene eletto ed è presidente di Regione. Del mazzo dei fedelissimi fanno parte altri nomi, noti e meno noti. Carlo Fidanza, l’eurodeputato (indagato in due procedimenti) del saluto fascista e dell’"Heil Hitler" nell’inchiesta sulla "lobby nera", vicino ad ambienti di estrema destra. Il responsabile Giustizia del partito, Andrea Delmastro, biellese. Il 7 settembre 2019 è sul palco della festa di CasaPound a Verona. Nel ’92, da militante del Fdg, invita a Biella lo storico negazionista David Irving, che difende Hitler e sostiene che i campi di sterminio sono un’invenzione. Sono i ragazzi della "generazione M": stessa età, stessa formazione di Meloni.

Gli impresentabili
"Se vi trovano con le mani nella marmellata, ve le taglio!". Un fedele collaboratore di Giorgia Meloni racconta che c’è un fantasma che agita più degli altri le giornate della leader di Fratelli d’Italia in questa campagna elettorale: la possibilità che qualcuno dei suo inner circle inciampi in infortuni giudiziari tali da compromettere il partito re dei sondaggi. I precedenti "di area", per così dire, non sono di conforto. Salito al Campidoglio, Gianni Alemanno si è fatto travolgere da quel sistema della "terra di mezzo" che, se mafia non era, certo era un sistema criminale corruttivo. L’allora sindaco di Roma è stato poi condannato a un anno e dieci mesi per traffico di influenze illecite e finanziamento illecito. Ci sono soprattutto i segnali che arrivano dal territorio, a impensierire la leader. Dirigenti di Fdi sono coinvolti in inchieste, alcune assai delicate, che ipotizzano reati dal riciclaggio al finanziamento illecito fino alla bancarotta e alla corruzione. A Milano l’indagine del pm Paolo Storari sulla Fiera sta creando non pochi imbarazzi all’ala milanese di Fdi. Il centro dell’inchiesta è un vecchio uomo di destra, Massimo Hallecker. Fino al 2021 era stato responsabile degli appalti per Fiera Milano. L’indagine nasce proprio da una denuncia nei confronti di Hallecker da parte dei suoi datori di lavoro, che lo hanno licenziato perché sospettavano che incassasse tangenti sugli appalti che bandiva. L’allarme aveva una certa consistenza: secondo la procura di Milano, infatti, Hallecker ha preso soldi per almeno due appalti. Affidati, seppur non direttamente, a due amici, Franco Riceputi e Mimmo Seidita. Chi sono? Il primo è un dirigente di Fratelli d’Italia, il secondo è un importante sostenitore del partito. Hallecker, Seidita e Riceputi non sono tre amici al bar. Sono imprenditori molto introdotti. Seidita, si diceva, è stato capogruppo di Fratelli d’Italia a Cologno Monzese, nelle cui liste era stato candidato anche Hallecker senza fortuna. Socio in affari di Seidita e Riceputi è l’onorevole Marco Osnato, deputato meloniano che ha sposato la figlia del fratello di Ignazio Larussa. Osnato condivide con i due imprenditori delle quote in quattro società, dal profilo più disparato: dall’amministrazione di condominio alle mense, passando per le consulenze informatiche. A stare alle indagini della Guardia di Finanza, come socio occulto figura anche Hallecker. Due di quelle ditte vengono chiuse di corsa qualche giorno prima delle perquisizioni disposte dalla procura. Osnato giura di non conoscere Hallecker. La sua ricandidatura alla Camera è data per certa.

Terracina, "il modello" di governo
Se Milano, però, è lontana dall’universo di Giorgia Meloni, vicinissima è Terracina, provincia di Latina, sul tratto di costa storicamente amministrato dalla destra che la leader aveva improvvidamente eletto a "modello di buon governo". E invece, no, l’esempio non potrà essere utilizzato in questa campagna elettorale. La sindaca di Terracina Roberta Tintari è stata arrestata a fine luglio (dopo le dimissioni dall’ufficio, è stata scarcerata dal Tribunale del Riesame) perché ritenuta il terminale di un "sistema" che nel corso degli anni ha elargito in via illecita concessioni demaniali e appalti pubblici in cambio di sostegno elettorale, per l’amministrazione e per il loro partito portante. La procura parla di "sistema" perché ritiene Tintari parte di un gruppo di cui faceva parte il vicensindaco Pierpaolo Marcuzzi (per il quale la procura si prepara a chiedere il giudizio per falso, tentata truffa, turbativa d’asta), l’ex presidente del consiglio comunale Gianni Percoco e, soprattutto, l’europarlamentare Nicola Procaccini, uomo di strettissima fiducia di Meloni e ora sotto inchiesta per turbativa d’asta e induzione indebita a dare e promettere utilità. A inguaiare Procaccini è un’intercettazione ambientale del 25 ottobre del 2019 nella quale un uomo e la sindaca Tintari parlano di un camping che sta particolarmente a cuore a Procaccini, preoccupato che una cooperativa di bagnini possa perdere il lavoro, dopo l’arrivo nel capitale del camping di imprenditori romani. Si racconta di un pranzo in cui tutto si sarebbe sistemato. Perché Procaccini si interessi tanto al camping non è ancora chiaro. L’europarlamentare respinge le contestazioni. Compresa quella che mette a verbale Gianfranco Sciscione, ex presidente del consiglio comunale e poi candidato alle ultime elezioni contro FdI. "C’erano due bustarelle: una contenente 50mila euro era per il signor Marcuzzi e un’altra con 40mila euro che invece aveva consegnato ad una persona ben vestita che avrebbe dovuto farla recapitare al signor Nicola Procaccini". Un giro di presunte mazzette che Sciscione non è stato in grado di circostanziare meglio, e che, al momento, non è stato riscontrato dagli investigatori.

Le altre pecore nere
Procaccini non è l’unico parlamentare indagato di Fratelli d’Italia. Tommaso Foti, onorevole di Piacenza, è sotto indagine per corruzione e traffico di influenze illecite. Indagato per autoriciclaggio è anche il deputato lucano Salvatore Caiata, vulcanico imprenditore eletto con i grillini e poi passato a Fdi, di cui ha ricoperto l’incarico di segretario regionale (si è dimesso dopo aver ricevuto l’avviso di garanzia). È stato cacciato immediatamente dal partito, appena si è avuta notizia del suo arresto, il geometra Francesco Lombardo, candidato al consiglio comunale di Palermo. L’ultimo dei politici a scendere a patto con i padrini. A incastrarlo, un’intercettazione che non lascia spazio a dubbi, registrata dalla squadra mobile il 28 maggio scorso quando Lombardo si presenta davanti al chiosco di frutta e verdura di Vincenzo Vella, mafioso condannato tre volte e libero soltanto grazie a un cavillo.

Il consigliere regionale di Fdi Domenico Creazzo non ha fatto in tempo a partecipare al primo Consiglio della legislatura calabrese dopo le elezioni del gennaio 2020 che l’hanno arrestato. La Dda di Reggio Calabria lo accusa di voto di scambio. Non è una prima volta, per il partito di Meloni. Sei mesi prima era finito agli arresti anche Alessandro Nicolò, già berlusconiano, diventato l’uomo forte di Fdi a Reggio tanto da essere indicato come capogruppo alla Regione. Le accuse che lo hanno travolto vanno dall’associazione mafiosa alla tentata corruzione. Una situazione imbarazzante che aveva costretto Meloni a inviare in Calabria, inutilmente, il "commissario Fdi" Edmondo Cirielli. Nicolò lo hanno scarcerato nel dicembre 2021, dopo 28 mesi di detenzione. In Piemonte a finire condannato è stato l’ex assessore Fdi (ed ex sottosegretario) Roberto Rosso, anch’egli come Nicolò con un passato in Forza Italia: 5 anni per voto di scambio politico-mafioso. I giudici hanno stabilito che durante la campagna elettorale per le Regionali 2019 Rosso ha dato soldi a due ndranghetisti nell’area di Carmagnola, tra Torino, Asti e Cuneo, per avere sostegno elettorale. Come nulla fosse, Giorgia è andata avanti. Il progetto non contempla fallimenti.

(1 - CONTINUA )

***

Una grande M. si aggira per l’Europa. Fiammeggia da Roma. Spaventa le cancellerie. Inquieta Bruxelles. Disorienta i mercati. Entusiasma le anime destre dell’intero continente. Il comizio di Marbella che ha infiammato la folla di Vox è stata la miccia, ha scolpito le parole d’ordine del manifesto politico che surriscalda già la pancia di un elettorato stanco dei "Draghi salvifici". C’è voglia di abbattere i palazzi e con le macerie costruire muri, erigere barricate, posizionare steccati, mettere in discussion diritti, se sarà necessario. C’è il triangolo Dio, patria, famiglia da ripristinare.

Roma, Madrid, Varsavia, Budapest. Ma anche Parigi, rive droite. E, con qualche affanno in più, Washington. La rete internazionale di Giorgia Meloni si snoda - con altre ramificazioni - all’interno di questa cornice. Le sponde ungheresi di Fidesz dell’amico Orbàn, quelle polacche di PiS del sodale Morawiecki, l’ala più radicale dei repubblicani Usa, il fronte dell’estrema destra spagnola di Vox con la quale è ormai amore conclamato, le "affinità elettive" col Rassemblement National di Marine Le Pen. È la mappa di un’Europa nuova, finora sconosciuta, un’"Europa dei popoli" e non più delle "cancellerie", quella che sogna la leader di Fratelli d’Italia. Proverà a costruirla se diventerà la prima presidente del Consiglio donna, all’indomani del 25 settembre. Un pantheon inedito, valori arcaici la ispirerebbero.

La seconda puntata dell’inchiesta su M. è un viaggio nel mondo che attende col fiato sospeso quel day after italiano. E forse non solo italiano.

La pasionaria nera che incontra Vox
La sede nazionale di Vox, al numero 33 di Calle Padre Damián, a Madrid, lungo i confini di Hispanoamérica e Castillejos, è annerita dalle bruciature che sembrano provocate da un attentato. Le striature nere resistono allo strato di vernice fresca bianca passato sulla serranda chiusa. Una battaglia che si consuma colpo su colpo. Qualcuno l’ha di nuovo marchiata con una scritta che suona come un monito: "Il fascismo è condannato a morte". Sotto, una svastica coperta da una x. Più che il cuore dello Stato maggiore della destra estrema spagnola sembra la filiale di un’agenzia immobiliare. Si affaccia su una strada borghese di un quartiere borghese, ornata di grandi alberi e punteggiata da bar e ristoranti. L’ingresso è anonimo. Vetri e cemento, l’insegna verde del partito che spicca in alto. Quasi una sigla pubblicitaria.

Siamo arrivati qui per capire cosa sia oggi l’estrema destra spagnola, cosa abbia provocato un successo che nessuno si aspettava, che ora desta interesse e un certo allarme. Cosa lega Vox a Fratelli d’Italia. Quali parole, ideologie, valori, progetti e proposte. Per scoprire che esiste un nuovo asse nero in Europa. Quello sancito da Giorgia Meloni nel suo intervento appassionato, focoso di Marbella, il 16 giugno scorso, al termine della campagna per le elezioni in Andalusia. Una vera sorpresa. Il popolo di Vox ha sentito pronunciare le parole che voleva sentire. Per la prima volta. Parole chiare, dirette. Patria, bandiera, nazione, lotta all’aborto, alle identità di genere, agli immigrati, all’islam. Stesso linguaggio, stessi obiettivi.

"No alla lobby Lgbt, sì alla famiglia tradizionale": così Giorgia Meloni, in Spagna, incita i militanti di Vox



Suoniamo alla porta sul retro. Non risponde nessuno. Gli uffici, si legge in un piccolo cartello, restano chiusi per tutto agosto. Inutile insistere per telefono. Tutto rinviato a settembre. Anche Vox, come gran parte di Madrid, ha preso il largo. Troppo caldo, la colonnina di mercurio supera i 41 gradi. La capitale è avvolta da una cappa di caldo opprimente. Scattiamo qualche foto. Si avvicina un signore, sulla quarantina. Ci chiede cosa cerchiamo, chi siamo, cosa vogliamo. Non è un militante, dice di essere un simpatizzante che vigila, come tanti altri del quartiere, sulla sicurezza del suo partito. Non è aggressivo. È, piuttosto, incuriosito. Con modi gentili ma fermi ci invita ad allontanarci. "Qui non c’è nessuno. Se volete sapere di Vox chiedete in giro", suggerisce. "Troverete le risposte che cercate".
Così sarà, in effetti. Vox è una forza nata da una costola delusa del Partido Popular, che in dieci anni è riuscita a superare il 15 per cento dei voti, far eleggere 52 deputati al Parlamento valenciano, conquistare la presidenza di quello di Castilla y Leon, la regione di Madrid, far eleggere una vicepresidente, e i ministri della Cultura dell’Agricoltura, dell’Industria e Lavoro. Ormai fa parte a pieno titolo del Gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei, presieduto da Giorgia Meloni. Si sa, almeno ufficialmente, che il bilancio 2019 di Vox ha fatto registrare il suo miglior risultato: ha moltiplicato per sette le sue entrate, accumulando un patrimonio netto di 5,9 milioni di euro; appena un anno prima erano 1,1. Nel 2020 il salto a 15 milioni di euro. Da dove arrivano tanti soldi? Dai privati, soprattutto. Donazioni che restano anonime o sfruttano l’esenzione fiscale perché finiscono nella "Fundación".

Oltre i Pirenei come a casa
Il prossimo appuntamento è già fissato. 10 e 11 ottobre, Madrid. Giorgia Meloni sarà la "guest star" della Segunda Cumbre Iberoamericana organizzata da Vox e da ECR, il Gruppo dei Conservatori e riformisti europei di cui la leader di FdI è presidente. Gli amici spagnoli sono già in fremente attesa, sicuri che Meloni si presenterà da primo ministro e da capo del governo italiano - facendo un po’ di fuoripista rispetto al possibile profilo istituzionale - snocciolerà i suoi sonori "olè", e "via la Spagna", "viva l’Italia": le parole d’ordine che infiammarono la platea di Vox a giugno, nel famoso discorso muscolare di Marbella, e l’autunno scorso - era il 10 ottobre - sempre a Madrid, al Viva 21, il meeting con cui il partito di estrema destra spagnolo presentò la sua agenda politica. FdI e Vox. Italia e Spagna. Se fosse un film si intitolerebbe "Casa Iberica". Perché "donna Giorgia" , oltre i Pirenei, si sente davvero a casa. Una-due volte al mese Meloni vola a Madrid. Chi la conosce sa che ama la Spagna e la lingua spagnola, e ha amicizie di lunga data sia nella capitale sia a Barcellona. Alcune risalgono agli anni della militanza nelle organizzazioni giovanili del Msi, altre sono più recenti. A ogni modo: dal 2017-2018 i viaggi della leader FdI nel Paese della penisola iberica si sono intensificati. Trasferte politiche, per lo più. Perché FdI e Vox - per dirla con alcuni osservatori spagnoli - sono "una faccia, una razza" (espressione usata dai soldati italiani in Grecia nell’ottobre 1940). Due partiti omologhi. Che si definiscono moderni e conservatori ma che, nemmeno troppo velatamente, ammiccano a quel mondo neofascista da cui provengono alcuni loro esponenti. Un mondo di cui scongelano discorsi e proposte politiche e con il quale - anche nell’uso dei simboli -, intrattengono relazioni. Due partiti osmotici. Con due differenze. La prima: che in Italia FdI è dato dai sondaggi primo partito, mentre Vox - alle ultime elezioni generali spagnole (2019, 15,09%) - è diventato terza forza del Paese. Seconda differenza: Vox ha alcuni deputati che provengono dall’Esercito.

Lui si chiama Jorge Buxadé, due anni in più di Giorgia Meloni. E’ europarlamentare di Vox. "Buxa" - come lo chiamano i membro della delegazione dei "patrioti" di stanza tra Bruxelles e Strasburgo - è il filo da tirare per capire l’intensità dei rapporti di "Giorgia" con la Spagna. Insieme all’ex giornalista Hermann Tertsch - anche lui eurodeputato (Vox ne ha piazzati tre nel 2019, poi ne ha guadagnato un quarto con l’uscita del Regno Unito) - è l’uomo che ha costruito l’intelaiatura tra Vox e FdI proprio attraverso l’Europarlamento. Siamo a giugno 2019. Dettaglio interessante. Vox è introdotto nel Parlamento Europeo da un eurodeputato del PiS polacco che nella primavera del 2019 organizzò una conferenza di Ortega Smith (altro uomo chiave: tenete a mente il suo nome) a Bruxelles. Da qui le ottime relazioni con i polacchi e l’ingresso dopo il voto di giugno nell’ECR dove gli spagnoli si sono trovati con Meloni.

Ma restiamo a Buxadé. Il suo passato "parla". Negli anni ’90 si candidò per due volte con la Falange Spagnola, la formazione neofascista che ancora mantiene il nome dell’unico partito esistente durante la dittatura di Francisco Franco. La Falange non solo rivendica il passato dittatoriale, ma difende e auspica l’instaurazione di un regime autoritario. "Buxa" non è l’unico esponente di Vox proveniente dal noto movimento di estremissima destra. C’è, tra i big, Javier Ortega Smith. Eccolo. Segretario generale del partito, deputato nelle Cortes di Madrid. Scriveva su un giornale falangista esaltando José Antonio Primo de Rivera, fondatore della Falange negli anni ’30. Nel 2018 - quando Vox fa il botto alle urne - Ortega partecipa a una cena della Fondazione Francisco Franco e dice: "Josè Antonio Primo de Rivera per me è uno dei più grandi uomini della storia, un magnifico patriota, un grande ideologo che lottò contro i nemici della patria, come facciamo noi ora". Viene in mente la Meloni sedicenne che nel 1996 elogia Mussolini ("Il miglior politico degli ultimi 50 anni"), e quella, versione decisamente più matura, che celebra come "grande patriota" Giorgio Almirante teorizzatore del "razzismo del sangue" contro "meticci" ed "ebrei". Fantasmi che riemergono. O che non se ne sono mai davvero andati. In Italia come in Spagna. Jorge Buxadé è il voxiano più vicino a Meloni. Era con lei (e il portoghese André Ventura di Chega) a ottobre alla convention Viva 21 organizzata da Vox a Madrid. A dicembre 2021 è ospite di FdI ad Atreju. "Chiediamo un’alleanza mediterranea che si opponga a questa Europa federale di burocrati che credono che la politica sia un foglio Excel", chiosò davanti ai "patrioti" tricolori.

Ad applaudirlo c’era il giovane intellettuale vicino a Meloni, quel Francesco Giubilei, presidente della Fondazione Tatarella e di Nazione Futura, autore della biografia politica "Giorgia Meloni - la rivoluzione dei conservatori". L’edizione spagnola del libro si apre con la prefazione firmata da Buxadé. A pubblicarla è Homo Legens, casa editrice legata a Vox, nota per avere dato alle stampe testi commemorativi di Franco. Sempre Buxadé, l’amico spagnolo di "Giorgia", vola con Macarena Olona (di cui diremo tra poco) nella sede di Rassemblement National di Marine Le Pen, a Parigi, il 24 aprile scorso. Foto opportunity inondano i social: servono per lanciare Olona in vista delle elezioni andaluse. Esattamente quello che farà anche Meloni il 13 giugno scorso a Marbella. "Viva Macarena Olona!", "Viva la Spagna!", dirà dopo avere attaccato immigrati e "lobby Lgbtq".

La presidente di Fratelli d’Italia non deluse. Al contrario, lasciò tutti di stucco con il suo perfetto spagnolo e quelle parole che incendiarono gli animi. Benzina sul fuoco che la stessa leader cercò di spegnere il giorno dopo davanti alle reazioni allarmate dentro e fuori la Spagna. "Yo soy Giorgia, soy una madre, soy una mujer, soy una cristiana. No me lo pueden quitar", urlò davanti alla folla. Un tripudio. Il sugello di un rapporto constante, cresciuto negli anni. L’asse della nuova estrema destra europea e forse mondiale.

Macarena Olona. Deputata di Vox nel parlamento spagnolo e candidata alla presidenza delle regionali in Andalusia lo scorso 19 giugno. Il suo più stretto collaboratore, Javier Cortés, deputato regionale per Vox in Andalusia, è conosciuto per aver pubblicato dichiarazioni pro-Franco sui social. C’era anche lui ad accogliere la capa di FdI, il 10 ottobre 2021, a Viva 21. Lì Vox presentava l’agenda politica "Agenda Espana". La data dell’evento forse non è casuale. Due giorni dopo, il 12 ottobre, in Spagna è la Fiesta della Hispanidad. Durante il franchismo si chiamava "Dìa de la Raza", "Il giorno della razza".

Meloni, Abascal, Buxadé, Marion Maréchal, Orbàn. Tutti nomi che "si tengono". Tutti politici passati alla CPAC, la conferenza dei conservatori provenienti da tutti gli Stati Uniti e dal mondo (la prima edizione europea è stata organizzata a Budapest da Orban lo scorso maggio). Nomi che ritornano e che si ritrovano. Pure in Italia. Questi stessi politici sono stati invitati alla conferenza intitolata "God, Honor, Country: President Ronald Reagan, Pope John Paul II, and the Freedom of Nations - A National Conservatism Conference", organizzata a Roma nel febbraio del 2020 dalla Fondazione Edmund Burke. La figura cardine della fondazione è il filosofo israeliano Yarom Hazony, presidente a sua volta dell’Istituto Herzl. Hazony è autore del libro "Le virtù del nazionalismo", è un sionista vicino a Netanyahu. Alla conferenza romana c’erano l’immancabile Francesco Giubilei, lo storico sovranista Marco Gervasoni (indagato per vilipendio al Capo dello Stato) e il filosofo polacco Ryszard Legutko: uomo chiave del PiS a Bruxelles. Legutko è abitualmente nominato nel pantheon degli intellettuali europei da Meloni.

Forza Marine
Marine Le Pen è amica e alleata di Matteo Salvini, è vero. Ma con Giorgia Meloni non si sono mai respinte, diciamo. Non politicamente, almeno. Gennaio 2015: la leader di Rassemblement National (allora si chiamava ancora Front National) è ospite in un talk show su La7. Con lei "lady Giorgia". "Conosco Meloni, ma non ho ancora ballato con lei..", dice Le Pen (il riferimento è al famoso ballo in discoteca con Salvini). Poi, riferito a Meloni, aggiunge: "Questi giovani della destra italiana? Hanno fatto cadere molti tabù, ed è sempre molto positivo, dimostrano coraggio, una buona espressione di pensiero, e si collocano in una corrente di pensiero unica, e quindi meritano attenzione e rispetto". Meloni gongola. E da allora - sono passati sette anni - fa strada. I complimenti e i sostegni reciproci, tra le due, non sono mai mancati. Era il 30 settembre 2014. Elezioni francesi.


(agf)
Scrive Meloni in un post: "Grande soddisfazione per la notizia dei seggi conquistati per la prima volta dal Front National alla Camera Alta francese: la destra ha ripreso il controllo del Senato transalpino. Vogliamo rafforzare il già buon rapporto che abbiamo con Marine Le Pen per combattere insieme la grande finanza e la burocrazia, in Europa e in Italia. Siamo con quei movimenti che fondano la propria azione su un principio fondamentale: la politica la fanno i cittadini". Tre anni dopo: 23 aprile 2017. Altro giro di urne Oltralpe. Foto di Meloni con Marine sotto il simbolo di FdI e la scritta "Difendiamo l’Italia": "Forza Le Pen contro le grandi ammucchiate e l’establishment. In Francia, a due ore dalla chiusura dei seggi, è già stato annunciato l’inciucione a sostegno di Macron. Contro le grandi ammucchiate stile PPE-PSE, io sto con la Le Pen. Con il popolo, contro l’establishment. Forza Marine".

Che FdI e il vecchio Front National avessero lo stesso simbolo (la fiamma tricolore, il blu al post del verde per i francesi), la stessa ispirazione in continuità con la storia rappresentata da quella fiamma, è noto. Poi nella famiglia del patriarca Jean-Marie si è compiuta la scissione politica. Marion Maréchal oggi è la vice di Zemmour. Ed è la compagna dell’eurodeputato Vincenzo Sofo, uno degli uomini di fiducia di Giorgia Meloni in Europa. Il 25 novembre 2016 Marion è stata ospite a Firenze dell’incontro "Una Nuova Europa possibile". Evento organizzato da Azione Universitaria (l’associazione studentesca di FdI) in collaborazione con FdI e Lega. Il regista dell’evento? Vincenzo Sofo, "monsieur Le Pen". Spagna, Francia, Ungheria. Una linea all’apparenza non geometrica. Eppure tutto si tiene.


L’Italia in Visegrad
Mancano pochi giorni alle elezioni politiche del 4 marzo 2018, quelle che sanciranno la nascita del Conte I, primo governo gialloverde. La campagna è stata dura ma è praticamente conclusa, i giochi sono fatti. E tuttavia, la mattina del primo marzo le agenzie stampa battono lunghe dichiarazioni della leader di Fdi. Non sull’Italia e sull’imminente apertura delle urne, ma sull’Ungheria.

Giorgia Meloni è appena tornata a Roma dal viaggio a Budapest dove ha incontrato di persona il premier Viktor Orbán, suo alter ego politico, il modello a cui lei da un paio d’anni almeno dichiara esplicitamente di ispirarsi. C’è anche Adolfo Urso, in Ungheria. La riunione si è tenuta nella sala degli stucchi del meraviglioso Parlamento ungherese e Meloni l’ha pubblicizzata con diversi selfie. "Tra patrioti europei ci si intende subito alla grande", scrive in un post con vista su Danubio. Quella per Orbán non è semplice stima politica: è fascinazione. Tanto che a Pietro Senaldi di Libero consegna con un’intervista una sorta di manifesto programmatico in attesa di quel giorno in cui, prima o poi, siederà alla poltrona di Palazzo Chigi

"Dall’Ungheria mi piacerebbe importare la tassazione fissa al 15 per cento con esenzione totale per chi ha tre figli, gli asili nido gratis, il 5 per cento del Pil investito sulla famiglia, che è il vero nodo con cui si risolve il problema demografico, i muri all’immigrazione clandestina, la difesa dell’identità cristiana e le super tasse a banche e speculatori, con i soldi reinvestiti in welfare". E, per chiarire ancora meglio: "Abbiamo iniziato un rapporto (con Orbán e il suo partito Fidesz di cui è padre e padrone assoluto, ndr) che continuerà quando saremo anche noi al governo. Vorrei che l’Italia collaborasse coi paesi del gruppo di Visegrad - Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia - che dal 1993 si adoperano per salvaguardare gli interessi nazionali del pensiero unico e dell’omologazione che Bruxelles cerca di imporci". Alla tornata elettorale del 2018, Fdi si ferma al 4,35 per cento dei voti. Quattro anni dopo, i sondaggi dicono che Fdi ne potrà prendere sei volte di più. Rileggere l’intervista a Libero aiuta a capire dove punterà la prua il prossimo governo italiano, se - come sembra - il centrodestra vincerà.

L’Europa dei muri
Fino al 2015 Meloni non era sembrata particolarmente attratta dalla "democrazia illiberale" (il copyright è di Orbán) che Fidesz e il suo leader hanno instaurato in Ungheria. È la crisi delle migrazioni il fiammifero ad accendere la passione, e il giorno è quando il premier decide di innalzare un muro nel cuore dell’Europa per arginare la rotta balcanica: 523 chilometri di filo spinato lungo il confine con la Serbia e la Croazia. Sulla pagina Facebook di Meloni si rintraccia ancora il primo post di pura ammirazione dedicato a Orbàn. "Renzi invece di attaccarlo in modo scomposto dovrebbe imparare da lui come si difendono i confini della propria nazione. Vada in Ungheria a fare un corso di formazione e torni in Italia quando avrà imparato a fare il premier e non il tour operator di clandestini". (28 ottobre 2016)


La presidente di Fdi si produce quindi in una serie di acrobatiche difese d’ufficio della politica liberticida di Orbán, interpretandone i messaggi intrisi di xenofobia del premier ungherese (le ultime le ha pronunciate un mese fa in Romania: "Non vogliamo mescolarci con altre razze") allo scopo di edulcorarli. "Guardate che quando parla di bloccare i migranti, non intende i profughi (per definizione coloro che scappano da guerre e disastri e che hanno diritto all’asilo, ndr), intende i clandestini!", prova a sostenere il 23 giugno 2018 con un video online di due minuti. Il titolo era: "Per smontare tutta la disinformazione mediatica su Orban... mi aiutate a diffondere la verità?". Se di verità si vuol parlare, però, allora dovrebbe ammettere che in Ungheria non si fa alcun tipo di distinzione: i migranti vengono cacciati tutti, senza alcuna considerazione per i diritti.

La soppressione del diritto di asilo
Il capo di Fidesz da quasi una decina di anni calpesta diritti umani e leggi dell’Unione Europea sull’immigrazione. "Il governo non ha pietà, questo è il Paese in cui il diritto all’asilo è stato cancellato e dove si rischia un anno di carcere se distribuisci volantini con le istruzioni per fare la domanda di protezione". András Léderer è il direttore del Comitato Helsinki per la tutela dei rifugiati. La sede è al secondo piano di un palazzo che affaccia su via Dohany, centro di Budapest, non lontano dalla sinagoga. Impresa ardua ergersi a paladino umanitario quando hai un Parlamento monopolizzato da Fidesz (135 deputati su 199) che nel 2018 approva la legge "Stop Soros" che criminalizza l’assistenza, minacciando il carcere per chi aiuta i richiedenti asilo. La Corte di Giustizia dell’Ue ha stabilito che viola l’ordinamento, così come l’intensa prassi dei respingimenti.

"La polizia le chiama "scorte"", racconta il 36 enne direttore del Comitato Helsinki. "Se un agente trova sul territorio ungherese una persona priva di permesso di soggiorno, la porta al muro con la Serbia, la spinge oltre uno dei varchi e le dice: siediti sull’erba, qualcosa prima o poi succederà". Dal 2016 al 28 luglio di quest’anno, le autorità hanno collezionato 197.392 "scorte". Sono dei respingimenti perché, ragiona Léderer, i cacciati non sono "né fotografati, né identificati con le impronte digitali, né è concesso loro di fare domanda per l’asilo".

Ancora: la Corte di Giustizia ha sentenziato che tutto ciò è follia normativa, la Ue ha aperto diverse procedure di infrazione contro l’Ungheria, bloccando anche l’erogazione dei fondi del Recovery (7 miliardi). "Il partito popolare europeo vuole cacciare Orbàn per le sue posizioni di contrasto all’immigrazione illegale e per la sua battaglia contro lo speculatore Soros", arriva in sostegno Meloni, praticamente l’unica nel Parlamento italiano a votare contro le sanzioni. "Nel nostro gruppo europeo dell’Ecr, quello dei sovranisti e conservatori, queste battaglie sono delle medaglie, non delle colpe". (8 marzo 2019)

Stesse parole d’ordine: Dio, Patria, Famiglia
Fidesz, pur uscita dal Ppe, non è ancora entrata nel gruppo cui fa parte Fdi. Potrebbe essere solo questione di tempo, viste le affinità elettive su temi cardine. Il 19 e 20 maggio scorsi si è tenuta a Budapest, per la prima volta in Europa, la riunione del Cpac, Conservative Political Action Conference, la conferenza annuale a cui partecipano attivisti conservatori americani e del resto del mondo. Per l’Italia è stato invitato il milanese Vincenzo Sofo, parlamentare europeo di Fdi di cui si è già detto sopra: un tempo responsabile giovanile de La Destra-Fiamma Tricolore di Francesco Storace e fidanzato di Marion Maréchal-Le Pen, la nipote della leader di Rassemblement National. "Il nostro compito è quello di essere ricostruttori del ruolo centrale della famiglia come nucleo fondante della società", scrive su twitter, sintetizzando il suo intervento alla Conferenza. Ovviamente per lui esiste solo la famiglia tradizionale. "Essere ricostruttori del tessuto economico locale distrutto dalla concorrenza extracomunitaria, di un rapporto con la nostra storia e la nostra identità. Di un rapporto complementare con la nostra Chiesa. Di un sentimento patriottico".

Sofo, nel 2021, ha incontrato personalmente Orban e la sua ministra per la Famiglia Katalin Novak. "Capisco perché le sinistre e l’establishment Ue abbiano così voglia di sbarazzarsene", sentenzia dopo qualche ora spesa a Budapest. "Quello lgbt è solo un pretesto". Il pretesto, come lo definisce l’eurodeputato di Fratelli d’Italia, è in realtà la più profonda compressione di diritti per la comunità lgbtqi avvenuta in Europa in tempi recenti.


Nel 2019 il presidente del parlamento ungherese, Làszlò Kovér, dichiara che un omosessuale deve rendersi conto che sarà per sempre un cittadino di serie B, e aggiunge l’inaudito. "Sostiene che due persone dello stesso sesso che intendano adottare un figlio sono come pedofili", racconta Tamàs Dombos, 43 anni, ex ricercatore della Central European University (l’Ateneo progressista fondato da Soros e costretto a sloggiare a Vienna nel 2020 dopo la riforma dell’istruzione). Incontriamo Dombos nella sede della Hatter Society, la più grande organizzazione ungherese che combatte l’omofobia. È uno dei dirigenti. "Con la riforma ostituzionale del 2020 Orbán fa inserire un testo che recita: "La madre è femmina, il padre è maschio". Si stabilisce poi che i bambini hanno il diritto a crescere secondo il sesso in cui sono nati e secondo i valori cristiani. La mia opinione? A Orbán, in realtà, non gliene frega proprio niente, la sua è banalmente una strategia politica: lanciare temi divisivi sulle minoranze in modo da distrarre la gente dai veri problemi dell’Ungheria, che sono la crisi economica, il sistema sanitario al collasso e l’isolamento internazionale. Ha usato i migranti, poi i senza tetto e i rom. Ora tocca alla comunità lgbtq".

Il sodalizio di atreju
Nel 2019 Orbán diviene il primo premier straniero a partecipare ad Atreju, l’annuale festa di Fdi che si tiene vicino al Colosseo. Seduta in prima fila, Meloni si spella le mani per il suo intervento, mentre la sala canta "Avanti ragazzi di Buda" (la canzone che ricorda la rivoluzione del 1956) e si produce in diverse standing ovation. Le lodi per il suo alter ego politico e per il modo in cui gestisce il Paese raggiunge livelli altissimi ma sono anche orbe: vedono solo una faccia della medaglia economica dell’Ungheria, esaltandone i successi nella crescita del Pil che nel 2019 tocca il 5 per cento ("Un vero sovranista come Orbán ha realizzato una vera flat tax, e guardate i risultati...") ma dimenticandosi di citare anche quali conseguenze abbia portato un certo tipo di politica economica: il debito di bilancio ungherese nel 2023 sforerà il 5 per cento del pil, l’inflazione è all’8 per cento in generale e al 14 per cento per i generi alimentari.

L’ombra nera di Bannon
Un filo rosso, anzi nero, tesse la trama ideologica di cotanti destri d’Europa. Sullo sfondo si scorge la sagoma torva del pregiudicato Steve Bannon, il falco dei repubblicani trumpisti della prima ora, colpevole di oltraggio al Congresso e a suo tempo già accolto come una star dai "patrioti" ad Atreju. Anche lui al tradizionale happaning. È il 24 settembre 2018. Arringa la folla, acclamato: "Da qui può partire la rivoluzione. Ecco perché tutti i media sono qui, per vedere ogni errore che il vostro governo commette". Fa niente se all’ex stratega di Trump sfugge che FdI è all’opposizione del governo Lega-M5S. Conta che Meloni aderisce al cartello sovranista "Movement" di Bannon. FdI vine paragonata alla destra repubblicana di Donald Trump. Apoteosi. L’ideologo si eclissa man mano che cade in disgrazia. Si muove ormai sottotraccia. Non scompare del tutto. E continua a tessere la sua trama soprattutto in questa Europa attraversata da sovranismi e destrismi di ogni sorta.


L’allarme delle cancellerie
Se queste sono le premesse, se questi sono i sodalizi internazionali dell’aspirante futura premier, non si pone ma piuttosto si spalanca una domanda sul futuro del nostro Paese in Europa. Che ne sarà del suo ruolo di fondatore dell’Unione. Che posizione assumerà Roma a Bruxelles sugli snodi più delicati destinati a incidere sul destino delle generazioni che verranno. Pnrr e politiche migratorie sono i due allarmi più squillanti che stanno risuonando a Bruxelles e nelle cancellerie europee. In caso di vittoria della destra in Italia, quei due dossier si trasformerebbero velocemente in due bombe pronte ad esplodere nel nostro Paese e nell’Ue.

È l’ombra che negli uffici dell’Unione si stende in attesa di un possibile approdo a Palazzo Chigi di Fratelli d’Italia, il partito guidato da Meloni, o della Lega di Matteo Salvini. Il capo leghista è già stato testato con il governo giallo-verde e la prova venne considerata letteralmente "terribile". Basti pensare che da ministro degli interni, il leghista, ha partecipato ad un solo consiglio europeo. La leader di Fdi è invece accompagnata dalla fama della "post-fascista" che in Europa non è mai un buon viatico.

Il feeling agognato col Ppe
Per questo sulla direttrice Bruxelles-Strasburgo, Meloni sta tentando da mesi e ancora di più lo farà da settembre in poi un’operazione che in parte è già riuscita a gennaio scorso, in occasione dell’elezione della nuova presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola: diventare l’alleato fedele del Ppe. Quanto meno fare da sponda alla grande famiglia centrista. E così accreditarsi in veste di para-moderata. Lo farà infilandosi in un sentiero strettissimo, lo stesso che segue in Italia: non rinnegare il passato e individuare un presente dell’"accettabilità". In questo caso non rompere le intese con l’autocrate ungherese Orbán o con l’estremista francese Le Pen e nello stesso tempo tessere una tela di rapporti con i popolari europei. Usarli come "lasciapassare" per entrare ed essere ammessi nella stanza dei bottoni. Contando sul fatto che il partito e il gruppo guidato al tedesco Manfred Weber ha deciso di utilizzare i Conservatori (di cui fanno parte Fratelli d’Italia) come grimaldello per ricattare e stringere in un angolo i Socialisti. E per conservare la supremazia numerica in occasione delle prossime elezioni europee del 2024. Anche perché il Ppe, che ha espresso Ursula von der Layen alla presidenza, ha un problema non da poco: non guida nessuno dei grandi Paesi dell’Unione. Certo questo schema sta iniziando a creare problemi dentro gli stessi popolari. In particolare quelli del Nord Europa. Perché nell’Ue le sottigliezze ampollose della politica italiana non vengono comprese né accettate: Fdi è semplicemente un partito le cui origini sono inequivocabilmente fasciste. E poi perché ci sono i fatti. I voti espressi nel Parlamento europeo. Quelli vengono considerati la prova del loro giudizio.

L’ostracismo sul Pnrr
Nell’aula dell’Eurocamera nessuno ha dimenticato alcuni passaggi fondamentali. In particolare la circostanza che il partito di Meloni non ha mai - dicasi mai - votato a favore del Recovery Fund e del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Non lo ha fatto in Italia e nemmeno a Strasburgo. In cinque occasioni: 13 ottobre 2020, 15 dicembre 2020, 10 febbraio 2021, 24 marzo 2021 e 27 aprile 2021. Voti di astensione accompagnati da critiche asperrime nel merito del progetto, nei confronti dell’Ue e della moneta unica, l’Euro. A volte anche in compagnia della Lega. E quei voti pesano. Sono un macigno, per la Commissione e per gran parte dei leader del Consiglio europeo. Dove, alla fine, si decide spesso se e come aiutare un Paese in difficoltà. E una serie di punti interrogativi seminato da Commissione e Stati membri dell’Ue: Con queste premesse che fine farà il Pnrr? E che fine faranno gli altri circa 150 miliardi che Bruxelles dovrebbe erogare fino al 2026?

I confini e le migrazioni
Il discorso cambia di pochissimo sulla seconda emergenza europea: i migranti. Per il centrodestra è una sorta di parola magica in campagna elettorale. Blocchi navali, rimpatri, divieti. Tanti slogan. Ma, poi, dinanzi alle ricette concrete avanzate dall’Europa. Il passo indietro è stato repentino. Tanti no. Come direbbe Totò, a prescindere. Preludio, forse, di quel che accadrebbe con Meloni premier e Salvini di nuovo al Viminale.

Questo e tanto altro fa del futuro una grande incognita tutta italiana. Un’ombra che si allunga sull’intero continente, sotto quella gigante M.

(2 - CONTINUA)

***


Nell’Italia di M. il Paese diventa “Nazione”. Lo abitano non cittadini ma “patrioti”. La cultura di un popolo ora è “identità”. C’è una macchina della comunicazione che lavora al linguaggio, ancor prima che alla propaganda. E lo fa da anni. Così la campagna elettorale diventa solo l’atto conclusivo di un processo di fidelizzazione che martella sui social, che cattura like prima che consensi. La “Bestia” di Matteo Salvini è ormai in declino, seguendo forse la parabola dei guru che l’hanno creata e del leader che ne ha usufruito a lungo per vanificare poi tutto. Quella “Bestia” oggi è surclassata dal battage e dai numeri a sei zeri di Giorgia Meloni. C’è della strategia dietro, ovvio.
“Dio, patria e famiglia”. Il «più bel manifesto d’amore», dichiara la fondatrice di Fratelli d’Italia. Il social media manager si chiama Tommaso Longobardi, ignoto ai più. È lui ad aver impresso una svolta alla comunicazione della nuova destra che sogna il governo. Nell’ultimo anno è corso ai ripari, perché la “bestiolina” rischiava l’autocannibalismo. C’è lui anche dietro l’uscita azzardata - ma proprio per questo funzionale a scatenare le ire dei “seguaci antagonisti” - del post con la condivisione del video shock dello stupro di Piacenza (eliminato da Twitter). Poi ovviamente ci sono le basi, la grancassa. Soprattutto ci sono i “valori”, che la fondatrice intende presto trasformare in leggi, in riforme costituzionali. C’è una democrazia parlamentare da rifondare e da convertire in “democrazia decidente”. Ecco la missione.
La terza e ultima puntata dell’”Inchiesta su M.” è un viaggio nel mondo della comunicazione, del linguaggio, dei valori, appunto, e del consenso catalizzato dalla nuova destra, ma anche delle leggi nel cassetto, pronte per essere varate dal prossimo autunno. C’è l’attuale assetto costituzionale, figlio della Resistenza, da scardinare, per aprire l’era della donna forte al comando.
Come funziona la comunicazione che ha spinto la leader di FdI sul podio della destra? Chi è il deus ex machina che ha aggregato i 2 milioni e 300 mila follower di Facebook, il milione e duecentomila persone che la seguono su Twitter e più o meno gli stessi utenti fidelizzati su Instagram, con riscontri e “ritorni” di like e interazioni che hanno superato Salvini? Partiamo da qui. Settembre 2021. M. sorpassa il Capitano. «Il testa a testa era iniziato a marzo 2020 – spiega il digital analyst Alex Orlowski, fondatore e presidente di WateronMars, agenzia di comunicazione digitale - La Meloni parte dietro, ha meno della metà dei follower di Salvini, meno consenso, ma poi lo supera. Succede quando la “Bestia” di Salvini perde il suo creatore Luca Morisi. Che di fatto ha creato degli epigoni, e così il flusso della destra si è spostato a vantaggio di Meloni ». Inizialmente la strategia social ricalca quella salviniana. Un mix di contenuti “friendly” e “empatici” - vita privata, affetti, animali, cibi, “tradizioni” - e di slogan e spot politici coi quali la leader picchia duro sui temi forti della destra: immigrazione, gender, sicurezza, confini, “identità”, famiglia. Il sunto è il discorso muscolare di Marbella. La tecnica semplice: spremere i parametri dell’algoritmo, geolocalizzazione dei post. Spingere oltre la linea del “politically correct”.
MELONI-CHAN
In principio è una foto scattata in un corridoio d’albergo. 3 marzo 2019. Meloni è negli Usa per la convention del mondo conservatore. «Indovinello: che film è?» chiede ai suoi follower. Nell’immagine: lei e, alle spalle, la lunga scia di moquette. “Lady Giorgia”, da sempre appassionata di fantasy, qui gioca sul riferimento culturale alla famosa scena delle due gemelle di Shining , il film di Kubrick. È la “carta simpatia”: non ho niente da comunicare ma comunico. Condivido, tiro like, stimolo commenti. “Meloni-chan” è il personaggio immaginario che la leader FdI si era creata: fumetti, foto di bestie fantastiche. Poi, quando scatta il sorpasso sull’alleato-competitor Salvini, “Giorgia” esce dalla fantasy e gioca solo nella realtà. Nel ruolo più congeniale: una bomber del pubblic speacking. Si esprime con naturalezza e incisività davanti alle telecamere. Le dirette video diventano l’arma più usata dai suoi comunicatori. La parola d’ordine? “Polarizzare”. Anche e soprattutto su Telegram.
LA CARICA DI LONGOBARDI
Trent’ anni, romano, laurea in scienze e tecniche psicologiche (in un video brucia una copia della tesi di laurea), allievo di Casaleggio. Lui si definisce web influencer. In realtà – anche se resta molto dietro le quinte - è lo spin doctor di Giorgia Meloni. Dietro la vorticosa ascesa di M. c’è uno smanettone che sta a Meloni come Morisi stava a Salvini e Rocco Casalino a Giuseppe Conte. Tommaso Longobardi, “Tommy”, nell’inner circle. Noto ai più come creatore di meme sovranisti.

IL PROGETTO PRESIDENZIALE

Possibile che uno così diventi (con successo) il principale artefice della strategia social meloniana? «Ha un talento, sa giocare d’anticipo», dice un suo ex collaboratore. Esempio: nel 2018 Longobardi chiedeva di chiudere i porti e riaprire le case chiuse. Salvini lo farà a fine febbraio 2019. Dopo le scopiazzature del “modello Morisi-Salvini” – il lavoro più complicato è stato (ri)prendersi l’elettorato di destra migrato verso la Lega sovranista – la strada della comunicazione di M. va in discesa. I “patrioti”. E dunque, oplà. «“Dio, patria, famiglia” non è uno slogan ma il più bel manifesto d’amore. Un manifesto che attraversa i secoli e affonda le sue radici nel “pro Aris et Focis” di Cicerone. L’“altare e il focolare” che da sempre fondano la “civiltà occidentale”. Altro che i meme e Shining. Le uscite di “Giorgia” tengono vivo il sentimento dell’elettorato più “identitario”. Meloni sente la necessità di rispolverare – bonificandola - la vecchia triade fascista. Il motto che, dal dopoguerra, non ha mai smesso di rappresentare un richiamo irresistibile per i partiti di estrema destra. Come la fiamma, alla quale «non rinunciamo perché è la nostra storia». È una specie di ‘terza via’ : una linea ambigua. È quella del “non riconosco la matrice” e però intanto cito gli slogan della casa. È vero che di “Dio”, di “patria” e di “famiglia” scrisse Giuseppe Mazzini nei “Doveri dell’uomo” (1860). Ma a coniare lo slogan fu, nel 1931, il gerarca fascista Giovanni Giuriati (all’epoca segretario del Pnf). «La leader di FdI tenta un’operazione di bonifica di un’idea cardine dell’ideologia fascista – ragionano gli analisti dell’Osservatorio sulle nuove destre - Uno slogan riproposto come orizzonte valoriale e programmatico». Sono parole d’ordine mobilitanti. Lo è “Dio, patria e famiglia”come lo è “prima gli italiani”, o “patriota”. Meloni sa bene a chi si rivolge. Quando esalta la “comunità politica” o parla di “stirpe di sicura fede” e di “fedeltà all’idea” coltiva una precisa identità, “quella dei vinti che rinascono”. Già. Puntando a raggiungere in un sol colpo due platee : l’elettorato “identitario”, per il quale la fiamma arde ancora, e quello moderato. Che “donna Giorgia” rassicura con il balsamo del «più bel manifesto d’amore».
Dagli slogan al programma di governo e alle riforme istituzionali è un attimo, se al potere siede la donna forte. Prima, Seconda o Terza Repubblica? «Queste numerazioni mi hanno stancato», ha scritto nella sua ultima fatica letteraria. «L’unico cambiamento vero sarebbe passare dalla Repubblica del Palazzo alla Repubblica degli italiani. E questo può avvenire solo con una riforma presidenziale della Costituzione». Che Meloni vuol rivoltare come un calzino, bilanciamento dei poteri incluso. Per la Giovanna d’Arco della Garbatella, il Colle come garante degli assetti istituzionali ha fatto il suo tempo. «Giorgia, lo sai che sei nata lo stesso giorno della pulzella d’Orleans?
», le hanno ricordato un giorno due devoti militanti.
No, la presidente di Fratelli d’Italia, nata il 15 gennaio del ’77, dice di non averci mai fatto caso, ma la “scoperta” deve averla colpita al punto da calarla, senza verifiche (infatti non risulta vera la concomitanza) nella recente biografia. «Il punto è tutto qui – insiste nel libro - Un popolo libero e maturo sceglie ed elegge i propri governanti, senza lasciare al Palazzo la possibilità di distorcerne la volontà. Un popolo sotto tutela, considerato incapace di autodeterminarsi, deve invece accontentarsi di una forma mediata di democrazia: nella quale ha la possibilità di dire la sua, ci mancherebbe, ma poi sono altri a decidere chi sarà il capo del governo, e pure il Capo dello Stato». Ed è su questo che l’aspirante presidente del Consiglio intende intervenire con un colpo di spugna. Come racconta la proposta di riforma costituzionale, depositata in Parlamento. Un sistema alla francese, una forma di “semipresidenzialismo” che conserva la figura del premier e prevede un governo sottoposto alla fiducia delle Camere. La finalità? Poter contare su una “democrazia decidente”, è il messaggio di Meloni. Tutto questo, in superficie. Ciò che gli slogan non svelano è lo scambio con la Lega: presidenzialismo per autonomia differenziata. Al primo, Meloni intesta la sua sfida rivoluzionaria, all’altra punta da anni Matteo Salvini. Ma è il Mezzogiorno d’Italia che uscirebbe stritolato dal regionalismo avanzato. L’ultimo rapporto Svimez lancia messaggi allarmanti sul divario tra le due parti del Paese. Il Sud è ancora più lontanissimo dall’Europa. Dal picco dell’inflazione, 8,4 per cento (contro il 7, 8 del settentrione) alla scarsa capacità di progettazione degli enti locali, 1.450 giorni di ritardo (contro i mille del centro-nord) sul completamento delle infrastrutture sociali. «L’autonomia concessa da Meloni agli alleati sarebbe un patto scellerato per tutto il Paese – sottolinea Roberto Esposito, filosofo della politica e docente alla Normale di Pisa – Per il bene della comunità nazionale bisognerebbe fare proprio il contrario. Rafforzare cioè i poteri dello Stato centrale, ad esempio sul piano della sanità, della scuola, settori nei quali si sono creati problemi e disuguaglianze drammatiche. E rafforzare il parlamentarismo che, oramai con l’eliminazione di un terzo di deputati e senatori, avrebbe bisogno di una rigorosa ridefinizione del ruolo delle due Camere. Ma certo non con una riforma che andasse in senso presidenziale. Ha ragione Zagrebelsky quando, su “Repubblica”, ricorda che una Costituzione non si improvvisa a tavolino. Ma è il frutto di autentica, travagliata e comunque larghissima discussione tra forze e schieramenti
diversi».
FAMIGLIA NATURALE E CROCIATA ANTI-DIRITTI
«Non ci sono mediazioni possibili, o si dice sì o si dice no. Sì alla famiglia naturale, no alla lobby Lgbt, sì alla identità sessuale, no alla ideologia di genere, sì alla cultura della vita, no a quella della morte». Così Giorgia Meloni arringava i militanti di Vox, un paio di mesi fa in Andalusia, la summa dei suoi slogan. In testa quello sulla famiglia che per la leader di Fratelli d’Italia può essere formata solo da una coppia etero. Una società ordinata non può contemplarne altre, pena una deriva etica che porta alla dissoluzione. Bastava ascoltarla già nell’autunno di tre anni fa, nella romana piazza San Giovanni dove il centrodestra si ritrovò per protestare contro il Conte2: “Dio, Patria e famiglia”, esordì con il celebre motto del Ventennio, a lei sempre caro. «Vogliono farci diventare genitore 1 e genitore 2, genere Lgbt, cittadini X, dei codici, ma noi non siamo codici, siamo persone, e difenderemo la nostra identità». Assaggio e summa della dottrina meloniana: «Voglio dire - proseguì la pasionaria dell’ultradestra nazionale - che non credo in uno Stato che mette il desiderio legittimo di un omosessuale di adottare un bambino di fronte al diritto di quel bambino di avere un padre e una madre. Semplicemente perché l’omosessuale vota e il bambino no».
Parole dure. Tradotte in Parlamento nel tentativo di modificare le norme sulle adozioni, di cui possono avvalersi soltanto «persone di sesso diverso unite in matrimonio da almeno tre anni», recita il ddl n.307 depositato nel marzo 2018. È Meloni medesima a spiegarne la ratio: «Tra il desiderio di una coppia omosessuale di vivere la genitorialità e il diritto di un figlio ad avere un padre e una madre, uno Stato giusto tutela il secondo, cioè il diritto del più debole, di chi non può difendersi da solo. Perciò lavoriamo anche per introdurre questo principio in Costituzione». È avvertita anche la magistratura che, aprendo per la giudiziaria alle adozioni gay, «prova ad affermare il principio opposto, sfruttando di fatto un vulnus legislativo, e accontentando così quella che si sta affermando come una delle più potenti lobby italiane e internazionali». Ecco perché, per Meloni, il ddl Zan contro i crimini d’odio «è una legge liberticida che punta solo ad introdurre un nuovo reato di opinione e a silenziare chi non si piega al pensiero unico». Per lei «non si può dire che oggi gli omosessuali siano discriminati ». Tutt’altro. Sono diventati così potenti che occorre fermarne l’avanzata. Com’è accaduto in Ungheria. Un modello che potrebbe essere presto esportato in Italia.
Quando la Corte suprema degli Stati Uniti ha abolito il diritto all’aborto, Giorgia Meloni ha messo le mani avanti, rifiutando ogni parallelo con l’Italia. «Noi continueremo a operare affinché venga applicata la prima parte della 194 relativa alla prevenzione – ha provato a rassicurare - e per dare alle donne una possibilità di scelta diversa da quella, troppo spesso obbligata, dell’aborto». Nelle Regioni in cui governano, l’hanno già fatto: Marche, Abruzzo, Umbria e da ultimo il Piemonte hanno vara to incentivi economici per quelle che rifiutano l’interruzione volontaria di gravidanza. D’altra parte le “Disposizioni per la promozione della natalità” presentate tre anni fa da Meloni e & Co. a Montecitorio introducono all’art.1 “il reddito per l’infanzia”, con un obiettivo preciso: «Scoraggiare il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza».
MURI A MARE E LA FAKE DEL “BLOCCO”
Per mesi, è stata la bandiera meloniana alla voce “Immigrazione”. Due parole ad alto impatto social: “Blocco navale”. A luglio entrano ufficialmente nella campagna elettorale di Fratelli d’Italia. Poi, pian piano, si inabissano. E l’11 agosto spariscono dal programma ufficiale del centrodestra. Naufragate senza che la presidente di Fdi abbia ammesso di aver sbagliato. Una promessa caduta prima di fronte ai mugugni di Salvini (che non accetta invasioni di campo e sogna di tornare al Viminale), poi sotto il peso di contraddizioni e fake. Sintetizzabili così: il blocco navale implica un respingimento dei migranti vietato dall’articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (visto che sui barconi provenienti dalla Libia potrebbero esserci, e spesso ci sono, potenziali richiedenti asilo). Senza contare che la stessa ipotesi viola tutte le leggi del mare e richiederebbe uno spiegamento di mezzi e di uomini molto superiori a quelli di cui dispone la Marina italiana. Fin qui, le contraddizioni. Poi c’è un fake: l’Europa non ha mai proposto né trattato la proposta di un “Blocco navale”. Eppure. E’ da più di un anno che la presidente di Fdi insiste. Prima a marzo e poi a maggio del 2021 arringa sui social: «Il blocco navale che chiede Fratelli d’Italia è una missione militare europea, fatta in accordo con le autorità del Nord Africa, per impedire ai barconi di partire in direzione dell’Italia. È l’unica misura seria per contrastare il business dell’immigrazione clandestina, e fermare le morti in mare. Ma capisco – aggiunge sarcastica la leader - sia un discorso troppo difficile da comprendere per i paladini dell’accoglienza a tutti i costi». Ce l’ha con la sinistra, ma punge pure Salvini, a cui cerca di strappare parole d’ordine e consenso. Nonostante conosca bene la posizione contraria dell’Europa e la condanna inflitta dalla Corte di Strasburgo per i respingimenti decisi dall’Italia nel 2009, la campagna di Meloni si fa via via più martellante. Giorgia la guerriera ha fondato su questo la sua presunta proposta “innovativa” anti-sbarchi e intende portarla avanti. Il 6 agosto scorso posta un titolo dell’Unità e polemizza con gli avversari: «Blocco navale in Libia contro le morti in mare. Quando lo diceva l’Europa andava bene?» . Si riferisce a un articolo in cui si illustravano «le iniziative della Commissione per fermare i flussi migratori – sostiene Meloni - Il Blocco navale europeo in accordo con le autorità del nord Africa che propone Fdi è l’attuazione di quanto proposto dall’Ue già nel 2017 e ribadito più volte». Ma si rivela un’affermazione priva di fondamento. La proposta non risulta mai avanzata da Bruxelles, e anzi in quel periodo la rappresentate Ue per gli Affari Esteri, Federica Mogherini, escludeva il blocco navale fra le «misure aggiuntive per rafforzare il lavoro dell’Ue lungo la rotta del Mediterraneo e in particolare intorno alla Libia”.Alla fine Meloni deve virare su una più generica difesa dei confini, italiani ed europei. Le parole Blocco navale, che prefiguravano una potente e istituzionale missione sovranista, non ci sono più. Anche se lei, la presidente, continua a usarle a furor di comizio.
CRISTORADICALISMO E LOTTA ALL’ISLAM
«Giorgia Meloni, speranza di tutti i patrioti». Così il 10 ottobre scorso Santiago Abascal salutava la presidente di Fratelli d’Italia ospite d’onore al congresso madrileno del partito nazionalista spagnolo. Lei aveva appena pronunciato un discorso appassionato sulla “Europa dei popoli” e il cristianesimo come valore fondante messo a repentaglio dalla deriva laicista imboccata dall’Occidente. «Sono sotto attacco le nostre radici cristiane in nome di un relativismo assoluto e un ateismo aggressivo», accusava Meloni. Portatrice sana di un’ideologia che l’assiduità con il capo di Vox - erede di quel cattolicesimo nazionale che si riteneva finito con la dittatura franchista – ha reso negli ultimi anni più esplicita. “Cristoneofascismo” l’ha definita il teologo iberico Juan José Tamayo nel saggio La internacional del odio: un movimento transnazionale che, inserendo la dialettica amico-nemico nella cruenta battaglia fra il bene e il male, genera «una nuova religione che si nutre di odio, lo alimenta tra i suoi seguaci e lo inocula nella cittadinanza». Per lei è talmente importante dirsi cristiana da avervi dedicatoun intero capitolo della sua biografia, oltre all’ultimo comizio in terra iberica: «Sì all’universalità della croce, no alla violenza islamista. Sì ai confini sicuri e no all’immigrazione di massa. Sì al lavoro dei nostri cittadini, no alla grande finanza internazionale. Sì alla sovranità del popolo, no ai burocrati di Bruxelles. Sì alla nostra civiltà e no a coloro che vogliono distruggerla».





Gli atti parlamentari, i post sui social, gli interventi pubblici riflettono questa dottrina. Nel marzo 2019, per commentare la notizia di un marocchino che aveva accoltellato un passante solo perché indossava un crocefisso, l’ex ministra avverte su Facebook: «Se i musulmani pensano di portare la guerra santa in casa nostra, è arrivato il momento di prendere provvedimenti drastici. Intendiamo difendere le nostre radici classiche e cristiane dal processo di islamizzazione dell’Europa, se ne facciano una ragione i buonisti e i sultani di mezzo mondo». La stessa furia manifestata contro la campagna Ue per l’anno europeo dei Giovani 2022, la cui testimonial è una ragazza con l’hijab: «Il velo islamico non rappresenta in alcun modo i valori europei», sbotta Giorgia su Twitter. Tutte posizioni utili a promuovere la teoria complottista, datata già 2017: «Siamo la nazione che l’anno scorso ha fatto scappare centomila italiani all’estero e in tre anni ha portato in Italia 500mila immigrati, per lo più africani. Penso che ci sia un disegno di sostituzione etnica».
Da impedire anche con una proposta di legge, depositata a inizio legislatura, per introdurre nel Codice penale il reato di integralismo islamico. L’obiettivo è punire con il carcere (fino a sei anni) i “cattivi maestri”, vietare i sermoni coranici su suolo patrio. «Ogni giorno i tagliagole del sedicente Stato islamico arruolano nuovi adepti, dalle Nazioni più disparate, ma tutti uniti nella folle guerra alle democrazie laiche dell’Occidente», si legge nella premessa. «In questo quadro assume particolare rilevanza la predicazione che avviene giorno dopo giorno nelle moschee», in Italia “gestite senza alcun controllo”. Per Fdi è una questione di sicurezza, anche. Perciò è indispensabile «rendere perseguibile penalmente ogni propaganda o predicazione
ed è quest’ultima specificazione che consente di non assimilare il nuovo reato ad alcuna ipotesi di reato di opinione», si giustifica Meloni. Forse consapevole della pericolosità di una crociata che fa impallidire la maglietta anti-Maometto indossata sedici anni orsono dal ministro leghista Calderoli, con la sua scia di rivolte e sangue nel Maghreb.
COLPODISPUGNASULLATORTURAEPIÙCARCERE
«Senza certezza della pena, siamo finiti». Era il 2013. Una arrembante Meloni attaccava l’allora premier Enrico Letta contro i cosiddetti decreti “svuota carceri”. Quasi dieci anni dopo, l’originaria parola d’ordine – più carcere per tutti – resta lo slogan di un partito che rivendica la direzione ostinata e contraria rispetto ad alleati ed avversari che, anche per rispondere alla drammatica condizione in cui versano molti dei penitenziari italiani più volte stigmatizzata dalla Ue, puntano a depenalizzare e a incentivare l‘adozione di misure alternative. Non solo. Il programma meloniano prevede dal 2018 un altro obiettivo: cancellare la legge sulla tortura, al grido di “Difendiamo chi ci difende”. Mentre dà battaglia anche sull’attenuazione dell’ergastolo ostativo, ormai imposto dalla Consulta, dopo le sentenze della Corte di Strasburgo. Progetti per i quali la presidente può contare sul generalissimo salernitano, l’ex ufficiale dei carabinieri definito dalla stessa Meloni «una colonna di Fratelli d’Italia», il questore della Camera Edmondo Cirielli. «Cancelleremo questa orribile norma della tortura sul piano giuridico che criminalizza e discrimina le forze dell’ordine », aveva promesso il deputato, dopo la condanna di cinque agenti della penitenziaria.
«La questione del sovraffollamento carcerario va affrontata strutturalmente, altrimenti si fa pagare ai cittadini l’incapacità dello Stato di risolvere il problema», predicava già Meloni. Fino a dire: «Poiché una percentuale non irrilevante di coloro che vengono messi fuori torna a delinquere, è corretto dire che il mandante di questi nuovi reati è lo Stato». È la bandiera che oggi sventola più di sempre. Meloni non si è mossa di lì, e nella scorsa primavera, ha visto Lega e parte di Forza Italia andarsi a schiantare sul referendum che chiedeva, tra l’altro, l’abolizione delle esigenze cautelari liberando dal carcere, ad esempio, truffatori o molestatori seriali, e che prevedeva la cancellazione della legge Severino per amministratori colpiti da condanne (seppur non definitive).
È tra le divise che operano nell’inferno di tante carceri italiane che vive uno zoccolo duro del partito della Meloni. Ed è lo stesso Cirielli, ormai da anni, il primo firmatario di numerose proposte di legge che puntano a blindare le porte del carcere anche per quei detenuti che possono aspirare a trattamenti premiali o ad espiare la restante pena fuori della cella. Niente sconti di pena, niente liberazione anticipata, ad esempio. «Le statistiche riportano che in Italia vi sarebbe un vero e proprio abuso nell’utilizzo delle misure alternative», scrive Cirielli nella proposta di legge «Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, concernenti la soppressione del beneficio della liberazione anticipata », depositata il 13 marzo 2019. Ecco in concreto: «Solo la Francia prevede sconti di pena, leggermente inferiori a quelli consentiti nel nostro ordinamento. Al contrario, paesi come la Germania , la Spagna o il Regno Unito, non conoscono un simile istituto: per evitare un cieco “sversamento” nella società del pericoloso contenuto dei penitenziari, l’unica possibilità offerta al detenuto di uscire prima della scadenza del termine stabilito è quella della libertà condizionale». Per la “colonna” di Fdi, insomma, braccio destro in tutti i sensi della presidente, i detenuti sono massa informe: rifiuti da trattare a parte.
ADDIO REDDITO DI CITTADINANZA
Non fa nemmeno la fatica di rielaborare troppo, Giorgia Meloni. Sui salari fra i più bassi d’Europa e la precarietà in cui versa una massa di lavoratori, le proposte riflettono di sana pianta quelle di Confindustria: per un programma fondato principalmente sullo sconto alle imprese, che potrebbero così aumentare la manodopera, risparmiando cifre notevoli. Come se gli oltre tre milioni di precari appena censiti, un autentico record della storia repubblicana, fossero invisibili. Indegni di attenzione. L’unico modo per incentivare l’occupazione e difendere il potere d’acquisto è tagliare le tasse ai lavoratori (poco) e alle imprese (molto). Da finanziare come al solito: facendo nuovo debito. «Dall’inizio dell’emergenza Covid abbiamo speso 200 miliardi in deficit, crede davvero che non si potevano trovare 16 miliardi per il cuneo?», ha spiegato a metà luglio la leader di FdI. Decisa a reperire i fondi anche attraverso l’abolizione del reddito di cittadinanza, peraltro già ridimensionato su loro proposta in Parlamento. Definito l’anno scorso «metadone di Stato perché è lo stesso principio che vale per il tossicodipendente, ti mantengo nella tua condizione di difficoltà, non voglio migliorarla», il reddito è per Meloni «una misura diseducativa, che disincentiva al lavoro». Poiché costringe a restarsene sul divano, «è un fallimento totale» da cancellare all’istante. Meglio sostituirlo con il meccanismo illustrato(e poi però ritirato) negli «appunti per un programma conservatore » presentato alla convention milanese di inizio maggio: l’idea era quella di utilizzare l’intelligenza artificiale per rintracciare “l’elenco dei giovani” appena diplomati o laureati così da agganciarli «a imprese del settore, agenzie per il lavoro e centri per l’impiego». Una sorta di navigator virtuale: il giovane «è vincolato ad accettare l’offerta di lavoro», arrivando persino a immaginare «l’applicazione di un sistema sanzionatorio». Seppellita sotto una valanga di critiche, la proposta alla fine non è stata inserita nel programma per manifesta inapplicabilità. Al suo posto, la consueta deregulation sul fronte dell’occupazione. Esattamente quanto sostenuto dal presidente degli industriali Carlo Bonomi.
RALLENTARE LA TRANSIZIONE VERDE
Non solo “i burocrati di Bruxelles” e la cosiddetta “lobby Lgbt”. Nel suo comizio davanti alla platea di Vox, Giorgia Meloni si scaglia sia contro il movimento ambientalista Friday for Future , sia contro “il fondamentalismo climatico del Green Deal”. «L’ideologia di Greta Thunberg – ha detto dal palco allestito a Marbella – ci porterà a perdere migliaia di aziende e milioni di posti di lavoro in Europa. Ora ci accorgiamo che la nostra dipendenza energetica è drammatica e che la transizione all’elettrico senza controllare la materia prima ci renderà ancora più dipendenti dalla Cina di quanto lo siamo dalla Russia». Il voto di qualche mese fa al Parlamento europeo è emblematico. La risoluzione per ridurre le emissioni del 60% entro il 2030 per poi azzerarle nel 2050 – è passata per un soffio. Contrario tutto il centrodestra Ue: Popolari, Conservatori e Riformisti, il gruppo Identità e Democrazia. Tra le delegazioni italiane a schierarsi contro, ecco Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia. È la linea portata avanti anche in Italia. Nella conferenza programmatica di Milano, punto 4 del “decalogo dei Conservatori”, il Green Deal europeo viene definito come «una furia ideologica con opachi interessi economici». È la stessa Meloni a spiegarlo: «Possibile che con la pandemia, la guerra, i prezzi dell’energia alle stelle, la carenza di prodotti primari come il grano, l’assenza di materie prime che compromette qualsiasi investimento l’unico strumento che abbiamo per liberarci dalla dipendenza russa, ovvero il Pnrr, abbia come obiettivo primario quello della transizione verde?». Uno sbaglio che lei ora intende correggere, chiedendo «con forza all’Europa la revisione degli obiettivi green dettati in sede comunitaria, sia nel merito, sia nei tempi di attuazione». È quanto prevedono le due diverse mozioni depositate alla Camera in primavera. «Vogliamo combattere l’inquinamento legandoci mani e piedi ai Paesi più inquinanti al mondo? Così avremo altri milioni di disoccupati», tuona lei dal palco. «Va bene il biogas, il geotermico, il solare e l’eolico», incalza la presidente dei Fratelli. «Ma sblocchiamo pure l’estrazione del gas nei nostrimari e la ricerca sul nucleare».
NUOVI LINGUAGGI
Riposizionamenti drastici in geopolitica. Dichiarazioni più istituzionali. Toni, in generale, più bassi. L’obiettivo di oggi è: diventare più “digeribile” agli occhi dei nuovi elettori e soprattutto degli osservatori stranieri. Per il professor Roberto Esposito, quello che ha fatto Giorgia Meloni in questi anni è stato «applicarsi e lavorare su più fronti. Mentre è rimasta coerente con una sua linea, ultra conservatrice, si è preparata a questa corsa della vita». Anche Lorenzo Pregliasco, esperto di narrazione politica e direttore di Youtrend, sottolinea il cambio, accorto e inevitabile, nel volume e nei contenuti. «Un ritocco che deve essere sembrato inevitabile per scongiurare sfavorevoli accostamenti al passato». Sia per Esposito che per Pregliasco, beninteso, la leader è stata costretta dai tempi precipitosi della crisi a una virata veloce, a tratti impervia. L’immediatezza delle nuove elezioni ha sorpreso anche lei. E, posta di fronte a questa occasione storica, ecco che la prima donna in odore di premierato in Italia prova a spiazzare interlocutori scettici, storici avversari. Come? Provando a incidere sul linguaggio. Che – attenzione - avverte il professore della Normale, che ha dedicato studi al codice del Ventennio – «non è esattamente un linguaggio fascista». E questo, nonostante la presenza della fiamma tricolore che resta nel simbolo – condannata dalla senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di concentramento - stia a indicare un solido ancoraggio col passato. Commenta Esposito: «La presidente di Fdi, a differenza di altri leader, intelligente e furba politicamente, ha mostrato una forte capacità mimetica rispetto al contesto. Cambia registro a seconda che parli sul piano locale, e intendo addirittura romano, o sul livello nazionale ed internazionale. Se parla a Vox usa certi vocaboli, se deve rassicurare gli americani cambia la struttura del discorso. Ha un doppio registro: uno, più moderato, per assicurare eventuali nuovi elettori e l’altro più radicale per mobilitare i fedelissimi. Ma in generale direi che non usa il linguaggio del fascismo: che è rivoluzionario nella forma e regressivo nei contenuti. Quello che adopera la leader è invece molto conservatore, con qualche tratto di autoritarismo, non lontano da quello dei repubblicani americani o dei tories inglesi. O, se guardiamo alla Francia, tra lepenismo e gaullismo. Ma è nel merito della sua visione che si può riscontrare l’arretratezza e la distanza da un’idea di politica inclusiva e matura».
Analogamente, anche Pregliasco osserva le correzioni in corso: «Il principale obiettivo per la leader di Fdi è accreditarsi. Il videomessaggio per gli osservatori internazionali, la preparazione accurata del discorso in tre lingue. Per ragioni evidenti, infatti, i media e gli ambienti che contano interpretano il fenomeno Meloni con la lente della storia. Il tentativo della presidente Fdi è quindi di non offrire alcun pretesto a paralleli con il Ventennio. Poi, in queste ultimissime settimane, la volontà di non strappare e di contenere i toni dirompenti si rivolge anche al quadro interno: tra messaggi e manifesti 3 per 6, alla vecchia maniera, è tutto un insieme di toni positivi, un blu di fondo costante. E l’invito: “Pronti”, revival della prima Forza Italia». Si tratta, per Pregliasco, «di un atteggiamento coerente con l’ondata che sembra profilarsi. Stando al grande vantaggio della coalizione, in questo momento il centrodestra non ha necessità di strappare. Deve invece approfittare delle divisioni degli altri». Infine, «anche la scelta di collocarsi in maniera molto atlantista non era affatto scontata. Ma deve convincere quei mondi che, seppur da fuori, incidono sulla politica italiana, se vuole governare il Paese». È il segno che la presidentessa tricolore sa di non essere più un outsider. L’esercito è motivato, ora o mai più. Per la Giovanna d’Arco figlia della Garbatella e di Colle Oppio, è tempo di tentarel’assalto, quello decisivo, al “Palazzo”.
(3 - FINE)