la Repubblica, 28 agosto 2022
Intervista a Giuseppe De Rita
Professor Giuseppe De Rita, lei andrà a votare?
«Certo, mai saltato un voto. Lo considero un dovere morale, disapprovo la logica del me ne frego o del tanto sono tutti uguali».
Ha deciso anche per chi voterà?
«Sì, non sono solito decidere negli ultimi giorni, ma non ho mai dichiarato il voto e non comincerò ora».
Quelli come lei, votanti e con le idee chiare, stanno diventando una minoranza nel Paese.
«Lo so bene. Aumentano la disaffezione per la politica e la poca curiosità. Penso che i sondaggisti vedano giusto quando dicono che la tendenza all’astensionismo proseguirà anche stavolta».
Perché c’è sempre meno voglia di votare?
«Intanto c’è una specificità italiana.
Molto più degli altri Paesi occidentali noi siamo sempre andati per ondate.
Ondate emotive, ideologiche, politiche. Abbiamo avuto dei picchi di partecipazione legati a queste ondate. A suo modo anche il picco ultimo dei grillini è stato un fenomeno simile, sebbene più spinto dall’antipolitica. Quando non ci sono le grandi ondate, diventa difficile portare le persone a votare. Per molti le elezioni non sono più il momento magico della verità».
Non vede nemmeno l’ondata meloniana?
«Vedo l’accondiscendenza. Siccome c’è, vada pure avanti. Nella ronda della politica italiana forse è il suo turno, ma non percepisco entusiasmo per Meloni».
Da anni ci si interroga sulle ragioni dell’astensionismo crescente. Pensa che sia scadente l’offerta politica, come è opinione dominante, o anche la domanda ha le sue colpe?
«Credo che il più grande limite della politica italiana sia nella sua staticità. La nostra campagna elettorale è una litigata quotidiana su chi offre più tutele ai cittadini. Ti diamo questo, io ti do di più, allora io rilancio. Manca del tutto la capacità di andare oltre.
Nell’America del Vietnam i cantanti dicevano we shall overcome, andare oltre. Nelle società dinamiche e moderne ai leader serve il coraggio di non limitarsi a tutelare ma esplorare, provare, rischiare. È come la differenza tra montanari e marinari.
Per carità, intelligentissimi i montanari, ma la montagna che occlude la vista li porta solo a pensare a tenere in ordine il loro ambiente, chi sta sul mare ha un’altra prospettiva. Ecco, i nostri leader sono molto montanari. E poi sono invischiati nella pari merito».
In che senso?
«Uno vale uno l’hanno teorizzato i grillini, ma è una realtà che esiste anche in altri partiti. Cosa è il Pd se non un invaso di gente a pari merito?
Letta può essere il più colto, o il più esperto di politica internazionale, ma intorno a sé ha gente che di fatto sta nel gioco al pari suo. È sempre il tema dell’andare oltre, dell’uscire dalla mischia. Altrimenti i leader sono come giocatori di biliardo che tirano solo di rinterzo. Non diventeranno mai trascinatori di folla».
Berlusconi non è uno che ama il pari merito, ma non si può dire che abbia fatto bene in politica.
«Uscire dal pari merito però è stata la sua fortuna, in questo era il gemello siamese di Craxi».
Altra questione irrisolta: è il discredito della politica a creare l’antipolitica o è l’antipolitica che corrode la democrazia?
«Io sono abbastanza vecchio per ricordarmi quando nella Prima Repubblica c’è chi diceva basta con le ideologie, basta con i grandi partiti, servono i partiti d’opinione. La Malfa fu il primo. Era una proposta intrisa di cultura azionista, che puntava alla gestione dell’opinione pubblica.
Purtroppo ci siamo arrivati eccome, alla cultura d’opinione, in una forma degradata. Guardi i social, i politici sono prigionieri dell’opinione, non la gestiscono. L’opinione infiamma, crea grandi scontri, pensi solo alla diatriba sui vaccini o sulla guerra, ma alla fine non mobilita. Perché l’opinione basta a sé stessa: mi leggo il giornale, mi guardo il talk, litigo su Twitter, e mi fermo là».
L’Italia è anche l’unico Paese dove il sistema dei partiti è stato picconato dall’alto, anche da un pezzo di establishment: i politici come “casta”.
«Sì, è vero, c’è stata anche una campagna dall’alto. Ma anche in questo caso ha pesato la dittatura del pari merito nella quale diventa più facile attribuire la definizione di casta in pari misura al presidente del Consiglio, a quello della Camera come al consigliere comunale delpaesello. Poi, quando nella politica arriva un uomo di casta, casta vera, come Mario Draghi, viene rifiutato.
Perché è troppo fuori pari merito».
Quanto pesano le nostre sciagurate leggi elettorali sul non voto?
«Tantissimo. Hanno fatto leggi che espropriano l’elettore della possibilità di scegliere i parlamentari. Qui c’è di mezzo un imbroglio, quello della governabilità. Quante volte ci siamo sentiti dire che serviva una legge elettorale che stabilisse la sera stessa delle elezioni chi doveva governare? La governabilità è stata una parola d’ordine generale e non mi stupisce perché è una tematica tipicamente d’opinione».
Per giunta, chi l’ha vista la governabilità?
«Ma nessuno lo ammette, abbiamo avuto la religione del maggioritario.
Hanno creato il terrore del proporzionale, presentandolo come il regno dell’inconcludenza, mentre invece è accaduto il contrario».
Non è la preferenza il modo migliore per ridare scelta suo parlamentari agli elettori?
«Se lei mi chiede: vuoi la preferenza? Io rispondo sì. Ma ricordo anche il fenomeno dei voti comprati a pacchi».
Che succede all’Italia dal 26 settembre?
«Non lo so, temo solo che non ci sia nessuno a indicare la strada, a guardare oltre, appunto».