Corriere della Sera, 28 agosto 2022
Che cosa vuole oggi Silvio Berlusconi
Sì, va bene, il Monza in serie A, il Milan dei record, le ville da Mille e una notte, i miliardi, le tv, le case editrici, Milano due, il fascino e un palmarès di conquiste, anche se qualcuno avrà da ridire, da fare invidia a Paride, due matrimoni e un terzo quasi, i figli, le figlie, i nipoti, i vulcani, le bandane, gli ulivi secolari, il cuoco Michele, il menestrello Apicella. Ma vuoi mettere con la Politica? Vuoi mettere con la soddisfazione di far fuori Mario Draghi con una zampata? Con l’adrenalina che sale mentre i peones tremano e tu bacchetti l’Europa e l’America su Putin? Vuoi mettere con la nuova, ennesima sorpresa che la vita ti riserva, quella di poter scatenare una delle menti più immaginifiche del dopoguerra, in pensioni minime a mille euro, tasse al 23 per cento, fino al sogno, anche se tu per primo pensi che resterà tale, di essere il primo presidente della Repubblica eletto dal popolo?
Impresa improba capire davvero l’animo di Silvio Berlusconi. Una chiave sta in una piccola frase, apparentemente insignificante, rivolta a Luciano Fontana, che la racconta nel libro «Un Paese senza leader». Sono nel parco di villa San Martino, ad Arcore: eliporto, cavalli, una cappella, viali con fiori e piante rare che percorre guidando a tutta birra un trabiccolo da golf. Poi entrano in casa, disseminata di tappeti, e si giustifica: «Se li vede rovinati la colpa è di Dudù e degli altri cani che li mangiucchiano. Sono diventato un po’ meno ricco, ma non fino a questo punto». Eccolo qui, mai soddisfatto, sempre a pensare che si debba fare di più. Come quel giorno del 1994, quando si spensero i fari al termine del confronto tv con Achille Occhetto. Il segretario chiedeva con gli occhi un giudizio ai suoi collaboratori, che con qualche condiscendenza alzavano il pollice e gli dicevano: «Lo hai stracciato». Il Cavaliere, alla richiesta di darsi un voto, rispondeva: «Il Milan fa i gol, io ancora no». Questo non gli impedisce di essere di fatto la versione repubblicana di un autocrate, con un’opinione galattica di sé stesso, che sublima nelle barzellette: «Berlusconi cammina sull’acqua e la Sinistra dice: guarda, non sa nemmeno nuotare».
Nasce a Milano nel 1936, sotto il segno della Bilancia, il 29 settembre. Il giorno in cui, cantava l’Equipe 84, «guardavo il mondo che/girava intorno a me». E per quanto riguarda vita e opere, basti così. Sia sufficiente la sintesi di Mike Bongiorno. Gli chiesero se avrebbe preferito cambiarsi con Fiorello o con Silvio Berlusconi e lui rispose: «Ma che domande mi fate, Fiorello è un uomo di spettacolo, un po’ come me. Ma Quello c’ha i miliardi, il potere, le donne, le ville, le televisioni, eh caro mio!».
Collezionare Delfini è uno dei suoi passatempi preferiti, qualcuno non ci casca e si divincola, gli altri finiscono tritati. Gianfranco Fini, Stefano Parisi, Giovanni Toti, Angelino Alfano, Mauro Pili, Maurizio Scelli, Corrado Passera, Gianpiero Samorì, Guido Bertolaso, Raffaele Fitto, Paolo Del Debbio, Mara Carfagna. Vale per lui in realtà la frase che Nanni Moretti recita nei panni del ministro Botero, nel film «Il Portaborse». È in piedi accanto alla scrivania dove, seduto, il figlio ragazzino, Gabriele, studia a testa bassa: «Quando penso che loro, tra qualche anno, prenderanno il nostro posto, be’, mi prende un’invidia terribile». E gli molla uno scappellotto, neanche tanto affettuoso. E adesso Silvio qualche scappellotto avrebbe voglia di tirarlo a quei due, Giorgia e Matteo, che si odiano ma non abbastanza da non cercare di cogliere l’occasione e prendersi lo scettro del vecchio leone. Perché è convinto che, senza di lui, nell’ultimo quarto di secolo, Meloni, Salvini e tutto il centrodestra, mai si sarebbero federati. E si sarebbero persi in ripicche, invidie, sgambetti e agguati, per altro ancora dietro l’angolo di una vittoria elettorale annunciata ma dai contorni futuri indefiniti e, sperano a sinistra, volatili. E allora si appresta almeno a tentare di guidarli per mano, perché senza di lui non si entra dalla porta principale. Un po’ come quando, all’indomani del voto del 2018, Salvini si guadagnò il diritto di spodestarlo dalla tribunetta del Quirinale. Ma lui, lì accanto, con Giorgia dall’altro lato, con le dita indicava: uno… due… tre…, come a dire che alla regia c’era sempre lui. Li fece infuriare. Come adesso, quando dice che il sovranismo è un’idea stupida, e stupido è chi ci crede. O quando fa capire che, se imparano l’educazione, può farli entrare nel Ppe.
Ora, un po’ a sorpresa e al contrario di Salvini, sterza sulla Russia e la giudica inaffidabile e spiega che una pace negoziata non si può fare a spese degli Ucraini. E dice che le tante cose buone di Draghi vanno mantenute. Su Giorgia premier sta tra il rassegnato e il non si sa mai, intanto bolla come irrilevante il dibattito sulla Fiamma nel suo simbolo. Ma tanti ricordano che, quando Fini cominciò ad alzare troppo la testa, fece trapelare: io l’ho sdoganato, ma se non si mette in riga torno a dire che è fascista e lo rimando da dove è venuto, anche se stavolta non pare così facile.
Fosse un altro, vista anche l’età, non si starebbe tanto a interrogarsi. E invece: che vorrà fare dopo il voto? Vorrà scartare? Gli basterà la presidenza del Senato? Ma scherzi? Lì si annoia! Ma scherzi? Quello la usa come un trampolino! Intanto c’è ancora un mese per la propaganda, e lui sogna il 20 per cento. Pura illusione, senza dimenticare però che si è laureato con una tesi sulla pubblicità. 110 e lode e 500 mila lire dall’Agenzia Manzoni. Era il 1961.