Corriere della Sera, 27 agosto 2022
Sono Kiefer, ho duemila anni
Ossessioni, problemi, idee, materiali, sperimentazioni. Ma anche racconti di vita. Esperienze. Incontri. E amicizie. All’origine di Paesaggi celesti, il libro di Anselm Kiefer in uscita per il Saggiatore il 2 settembre, vi è proprio il sentimento dell’amicizia: il lungo e intenso dialogo del grande artista tedesco con Germano Celant. Tra il 2019 e il 2020 il critico ha ideato questo progetto editoriale, che poi è stato realizzato dai suoi collaboratori.
All’apparenza, un’antologia di alcune tra le più importanti interviste rilasciate da Kiefer (tra il 1990 e il 2019). In realtà, un’involontaria autobiografia intellettuale e poetica, nella quale, sollecitato dalle domande di tanti interlocutori, il pittore parla di sé: formazione, atelier-città, viaggi, riferimenti culturali. Idealmente, un ulteriore pannello del polittico teorico cui, da anni, si sta dedicando l’autore de I sette palazzi celesti, il quale, in linea con una nobile tradizione novecentesca (da Umberto Boccioni a Vasilij Kandinskij, da Giorgio de Chirico a Piet Mondrian, da Max Ernst a Salvador Dalí) affianca alla pittura l’attività critica, come dimostrano i suoi taccuini e le lecture tenute al Collège de France di Parigi nel 2010 (L’arte sopravvivrà alle sue rovine, Feltrinelli, 2018).
Pur provenienti da fonti eterogenee, i testi radunati in Paesaggi celesti sembrano collegarsi e continuarsi, conducendo sulla soglia tra calcolo e mistero. Ne emerge il ritratto di un artista profondamente consapevole di sé, sorretto da volontà di potenza, da tensione verso la totalità e da hybris, al punto da dichiarare: «Se voglio cambiare la pittura, è un problema di storia dell’arte, mentre io voglio cambiare qualcosa nella storia del mondo».
Oltre a enunciare le procedure seguite e gli strumenti utilizzati, Kiefer si mostra indifferente all’art system. Poco attento alle questioni sociologiche e mercantili, distante dall’idolatria di una contemporaneità senza spessore («un bicchiere d’acqua rovesciato»), rivela le intenzioni sottese al suo mestiere; confessa le sue passioni letterarie (Goethe, Paul Celan, Jean Genet, Ingeborg Bachmann) e artistiche (Albrecht Dürer, Vincent van Gogh, Joseph Beuys); riflette su mitologia, mistica ebraica, gnosticismo e scienza; spesso, si richiama all’alchimia, metafora di un processo creativo che affonda le radici in una dimensione originaria. «Quanti anni ha?», gli chiede un intervistatore. «Ho circa duemila anni», risponde Kiefer, alludendo a una precisa concezione: agiamo nella storia e siamo agiti da essa, oscillando tra «il “piccolo” tempo umano e il “grande” tempo del mondo».
Talvolta, si ha l’impressione di imbattersi in pagine complesse, scritte non da un pittore contemporaneo ma da un filosofo antico, sapiente nel mescolare metafisica, erudizione e lirismo, affascinato dalla possibilità d’interrogare il mondo e la natura, affacciandosi sull’immensità delle stelle e dell’infinito. Erede del maestro di Socrate, Archelao, e di Democrito, Kiefer muove dall’identificazione tra arte e filosofia, per elaborare una sorta di materialismo inquieto. Lontano dall’idealismo platonico, confessa di non credere neanche agli impulsi istintivi: «Non ho mai inventato nulla. Forse più di altri ho mostrato ciò che esisteva già. Forse in una luce diversa».
Impegnato a riaffermare la centralità dei contenuti, Kiefer tende a partire da qualcosa che esiste: motivi banali, rovine, ma anche episodi storici, rimandi colti e figure della mitologia, i cui nomi già custodiscono un’aura e suscitano «la sensazione che dietro sia nascosto qualcosa». Da questi choc nasce la navigazione incerta del dipingere. Un evento dal valore gnoseologico: un modo per conoscere e per far affiorare un’anima dalle cose.
Siamo dinanzi a un’avventura che non ha nulla di letterario. Convinto che le strade già battute hanno una bellezza illusoria mentre quelle più anguste portano verso il «regno dei Cieli», questo pictor doctus incline a identificarsi con il veggente Tiresia si affida a un approccio poetico. Conteso tra il bisogno di esprimersi e la volontà di rifugiarsi nel silenzio, egli sa che l’arte si dà sempre come luogo dove suggestioni erudite devono essere dislocate e deviate, per poi essere riattivate nel campo magnetico dello sguardo. Si sofferma, perciò, spesso su poesie ermetiche e su trattati misteriosofici e mistici, ricchi di dettagli frammentari, opachi e lasciti in ombra, che attendono di essere integrati e completati. Dunque, modula «spontaneamente il significato mettendo a confronto o in contrasto l’assenza di significato».
Assistiamo a sequenze di profanazioni, che ricordano quelle compiute da José Enrique Tafas, il pittore inventato da Jorge Luis Borges e da Adolfo Bioy Casares, abile nel realizzare quadri dove alcuni scorci di Buenos Aires venivano coperti sotto strati di catrame. Analogamente a Tafas, Kiefer concepisce i suoi quadri, ha sottolineato Salvatore Settis, come instabili punti d’incontro tra diacronia e sincronia: da un lato, la memoria della storia dell’arte; dall’altro lato, il bisogno dell’artista di esercitare la sua sovranità nel presente. In bilico tra il momento ideativo-progettuale e quello performativo-gestuale, tra esattezza e imprecisione, Kiefer ha la determinazione di un iconoclasta e, insieme, la maestria di un alchimista: sovrappone pennellate vigorose e incastona materie cui toglie peso, procedendo per stratificazioni e cancellazioni, tra dubbi, false partenze, fallimenti.
Nascono così iconografie dense e notturne, che decretano il declino di ogni riconoscibilità, annunciano la crisi dello sguardo opaco dell’abitudine, infine sorprendono le forme sull’orlo di un abisso. Sono drammaturgie aperte, indeterminate, in divenire, sensibili al sopraggiungere del caso, capaci di suggerire visioni eterogenee. «Quando qualcuno inizia qualcosa con l’intenzione di creare valori eterni, è destinato a essere dimenticato. Al contrario, dura in eterno solo ciò che è davvero vivo e dunque comprende già visivamente il proprio (…) cambiamento», dice Kiefer, memore della lezione di van Gogh e, soprattutto, di quella dei pittori romantici (Caspar David Friederich, John Constable e William Turner), protagonisti di un’estetica «simile alla fisica delle particelle, alla dissoluzione di oggetti statici in una stanza vuota».
Siamo sul crinale tra calcolo e mistero. Un pittore può tentare di governare ogni passaggio. Eppure, il quadro percorre sentieri interni a lui stesso ignoti. Ecco: il non-detto, l’enigma. Kiefer osserva: «L’opera è inseparabile da me, ma allo stesso tempo è un enigma». Ed è sempre approdo di «qualcosa di indicibile, un buco nero o un cratere il cui centro è irraggiungibile».