La Lettura, 28 agosto 2022
Su "Nel Paese dell’aquilone cosmico" di Olivier Guez (Pozza)
Nel bellissimo documentario che gli ha dedicato Asif Kapadia, si può ascoltare una meditazione di Diego Armando Maradona che, a mio parere, vale come intere biblioteche di estetica e teoria dell’arte. Sono parole, infatti, tanto sagge quanto semplici, che si addicono perfettamente all’arte del calcio, ma anche alla scrittura letteraria, al cinema, alla musica, e a qualunque forma di espressione che aspiri a stupire, commuovere, eventualmente illuminare. Ridotto all’osso, alla sua essenza più preziosa, il calcio, secondo Maradona, è un inganno: tutto sta nel far credere all’avversario (ma potremmo anche dire al lettore, allo spettatore...) che stai andando in una direzione, e all’improvviso cambiare strada.
Ha ragione il grande Diego: ogni volta che ci imbattiamo nel più indefinibile dei fenomeni, ciò che per comodità chiamiamo «bellezza», è sempre all’opera un inganno di questo tipo: pensiamo di essere in grado di prevedere dove sta andando un grande artista, fino al momento in cui, basta una lievissima finta, ci rendiamo conto che... è andato da un’altra parte!
Ho molto pensato a questa «estetica in nuce» di Maradona leggendo il bel libro calcistico di Olivier Guez, il cui titolo, Nel paese dell’aquilone cosmico, rimanda sempre all’asso argentino, al quale, per terrorizzare gli avversari, bastava fare qualche noncurante palleggio durante il riscaldamento prepartita. L’inventore dell’indimenticabile epiteto fu Victor Hugo Morales (il destino di poeta era inciso nel suo nome), il grande telecronista argentino che, nonostante tutti i cigarillos che fumava, riusciva a superare i trentatré secondi gridando «goooooooooool» a squarciagola. L’occasione, come tutti gli appassionati di queste materie sanno bene, fu il secondo gol di Maradona (il primo, ugualmente celebre, lo fece di mano) in Inghilterra-Argentina nei quarti di finale del campionato del mondo messicano, il 22 giugno 1986. Ma bisogna leggere tutta la trascrizione, a pagina 162 del libro di Guez, del commento in diretta di Morales a quel sublime slalom che traumatizzò l’intera nazionale inglese, per apprezzare a pieno l’invenzione verbale dell’estasiato telecronista. Guez, che è andato a intervistarlo, ovviamente ha chiesto a Morales come gli sono venute in mente quelle parole insieme assurde e perfettamente calzanti: ma sarebbe come chiedere a Shakespeare che cosa aveva pensato al momento di scrivere il monologo di Macbeth.
Ma il punto decisivo dell’intero libro di Guez mi sembra un altro: l’impresa irripetibile di Maradona allo stadio Azteca fa corpo con la voce di Morales che lo commenta. Con buona pace degli spontaneisti, che credono ingenuamente che possano esistere i capolavori senza un discorso che li esalti e li consacri, tutte le arti hanno bisogno della loro critica: e poco importa che i critici vengano sempre vituperati come artisti di serie B o parassiti, è sempre il giudizio che sostiene l’opera e la rende percepibile, non c’è nulla di innocente in queste faccende, si tratti di inseguire un pallone o di comporre un poema o una sinfonia.
Guez lo sa bene: la sua storia della società e della cultura argentine attraverso la religione del calcio non è solo una vicenda di grandi campioni e allenatori geniali. Molto istruttivo a questo proposito è il capitolo del libro dedicato a una rivista fondata nel 1919 a Buenos Aires, «El Gráfico». Fu il suo direttore, l’uruguayano Lorenzo Borocoto, a teorizzare per primo un calcio diversissimo dai razionali e prudenti schemi di gioco inglesi ed europei. Il gioco rioplatense, ovvero quello caratteristico dei Paesi attraversati dal Rio de la Plata (Uruguay e Argentina), era essenzialmente fondato sugli aspetti più imprevedibili e irrazionali del calcio: l’estro individuale, il coraggio della giocata, l’eleganza del tocco, l’indifferenza per il risultato. Osserva giustamente Guez che non siamo lontani dalla filosofia del tango. Ma la cosa più interessante è che le teorie del «Gráfico» (da quello che ne capisco dal libro di Guez, la rivista ha una certa somiglianza con il nostro glorioso «Guerin Sportivo»), è il loro carattere predittivo: negli anni Venti viene teorizzato una specie di giocatore ideale, che ha imparato i suoi trucchi nei piccoli campi improvvisati delle periferie più povere, che corrisponde esattamente alla fisionomia tecnica e psicologica di Maradona, quarant’anni dopo. Se aveva ragione Oscar Wilde nel ricordarci che è la natura a imitare l’arte, bisognerà aggiungere che l’arte, a sua volta, imita la critica.
«Nessun paese», conclude Guez, «ha intellettualizzato il calcio più dell’Argentina». Ma a certi livelli di ossessione, siamo tutti un po’ argentini. Ed è questo il motivo per cui noi fissati non ci vergogniamo di fare tardi, la domenica notte, guardano fino all’ultimo tutti i programmi post-partita, le moviole, le dichiarazioni degli allenatori, i commenti e i litigi in studio. Se è già difficile al profano capire perché guardiamo tante partite, tutto questo contorno verbale a cui volentieri ci assoggettiamo gli sembra sconfinare nella malattia mentale. Ma la realtà la sappiamo solo noi malati: le partite non esistono, o meglio, in sé e per sé esistono solo per i principianti e i dilettanti. Nel calcio, che forse è il più irrazionale di tutti i giochi umani, contano molto più che altrove i discorsi che se ne fanno prima, durante e dopo.
Siamo nel dominio assoluto dell’interpretazione, dell’elaborazione secondaria, della sofistica più spericolata. È impossibile spiegarlo a chi ci supplica per il nostro bene di spegnere la tv, una buona volta. E a chi, con aria di sfida, ci ricorda che alla fine è solo il risultato che conta, noi rispondiamo che sarà pure vero, ma questi benedetti risultati non significano nulla, se non ci fosse chi li rimugina da una partita all’altra, li compara con tutte le altre possibilità, li scruta come gli antichi indovini facevano con le viscere degli animali sacrificati.
Se preferite gli eventi «puri», sarà meglio che vi dedichiate a guardare i tramonti, o la pioggia.