La Stampa, 27 agosto 2022
In morte di Alberto Balocco
Come sempre, soprattutto nella storia delle aziende familiari, la svolta avviene di domenica, all’ora di pranzo, quando la frenesia della produzione rallenta e c’è il tempo per le discussioni importanti. È il febbraio dell’82 quando nella nuova casa di Fossano, in via Marconi, fatta costruire al posto dell’antica pasticceria di famiglia, Aldo Balocco chiama i figli Alessandra e Alberto: «Venite con me nello studio». Alessandra ha 18 anni, Alberto, "Bebe", 16. La scelta è difficile. La Nabisco, colosso americano dei biscotti, aveva proposto di rilevare l’azienda. Nell’autobiografia ("Volevo fare il pasticcere", Rizzoli) scritta insieme al giornalista Adriano Moraglio, Alberto racconta lo stato d’animo di quel primo pomeriggio: «Siamo poco più che due ragazzi, viviamo nella "bambagia" come molti nostri coetanei, ma abbiamo capito bene, in tutti gli anni trascorsi vicino a nostro padre, quale dramma stia vivendo: un dramma di solitudine... un dramma carico di apprensione e di ragionevole realismo. Quante volte si è rigirato in testa quella frase: «Se venissi meno io, voi come fareste?». Quel pomeriggio, racconta il figlio, Aldo Balocco è «allettato dall’ipotesi di poter tirare il fiato e garantire un futuro alla sua azienda». La Nabisco, in quegli anni, è un acquirente solido. A Chicago ha il panificio industriale più grande del mondo, possiede marchi importanti come Saiwa. All’improvviso Alberto e Alessandra prendono in mano la situazione e convincono il padre a non farlo: «Hai dato l’anima per costruire qualcosa di bello, papà. Perché noi non dovremmo impegnarci a fare altrettanto?».
In questo quadretto di inizio anni Ottanta in una cittadina della provincia cuneese ci sono molti caratteri di quel capitalismo familiare, locale e mondiale al tempo stesso, che ha saputo trovare nella dimensione glocal la chiave del suo successo. Alberto studia economia a Torino e Milano, governa un’azienda da quasi 200 milioni di fatturato, esporta dolci in tutto il mondo. Ma i 400 dipendenti sono concentrati nei due stabilimenti produttivi di Fossano e Trinità, nel cuneese. Un legame fortissimo con il territorio, come accade ad un altro colosso dolciario cuneese, la Ferrero di Alba. La Balocco cresce in dimensioni a metà degli anni Settanta e l’impresa comincia a fare fortuna grazie al successo del suo prodotto di punta, il panettone mandorlato. La pubblicità su Carosello e, più recentemente, la sponsorizzazione della Juventus, rendono il marchio ancora più forte. Un amico di famiglia raccontava ieri un particolare sul carattere mite e riservato di Alberto: «Ai tempi della sponsorizzazione ci fece avere due biglietti per la partita della Juventus. Dovevamo andare tutti e tre allo stadio: io, mio padre e Alberto. Ma arrivati all’ingresso, per un disguido tecnico, non venne riconosciuto e i funzionari addetti all’ingresso non lo fecero entrare. Avrebbe potuto dire "Lei non sa chi sono io". Invece si girò e, senza dire una parola, tornò a casa».
Alberto ha la stoffa dell’imprenditore proprio perché teme di sbagliare, studia ogni mossa, sa che una decisione avventata potrebbe avere conseguenze disastrose. Lui diventa amministratore delegato, la sorella Alessandra gestisce il delicato settore del marketing. Fin dal suo ingresso in azienda, nel dicembre del 1989, sente sulle spalle il peso della storia industriale della Balocco: «Ci sono dei fili invisibili che legano mia sorella Alessandra e me ai sacrifici e ai desideri, all’impegno e alle sconfitte di mio nonno, di mio papà e di quanti avevano lavorato con loro per tirare su la Balocco». Storia ormai quasi centenaria (l’azienda è stata fondata nel 1927) e avventurosa. Con il fondatore, Antonio, antifascista, costretto a fuggire in bicicletta insieme al figlio nei sentieri delle Langhe per sfuggire alle brigate nere che devastavano i loro negozi per rappresaglia. Anche se dice di vivere nella bambagia, il giovane Alberto non dimentica quella storia aziendale di famiglia. È un imprenditore moderno che sa ereditare dal padre Aldo un’azienda in crescita. Nel 2019 Forbes lo inserisce tra i 100 manager vincenti dell’anno. È un appassionato di sport: soprattutto bici e mountain bike, quello che ieri gli è stato fatale. Una tragedia che colpisce una dinastia industriale, come già era accaduto ai Ferrero con la scomparsa improvvisa di Pietro durante un’escursione in bicicletta in Sudafrica, nell’aprile del 2011.
Alberto Balocco muore due mesi dopo il padre, Aldo, deceduto all’inizio di luglio. Lascia la moglie Susy Pinto, la ragazza di Napoli conosciuta a 21 anni. Andava a trovarla di nascosto ad Amalfi, dove poi si sarebbero sposati. Lascia tre figli: Diletta, la più grande, Matteo e Gabriele. Lascia un’azienda in salute. Dei suoi 400 collaboratori diceva: «Alla Balocco non ci sono mai stati padroni e dipendenti. Men che meno da quando siamo arrivati noi giovani. Siamo tutti insieme sotto quell’ombrello comune che si chiama lavoro». L’impresa è impresa comune, il rischio è il rischio di tutti. Sembrano drammaticamente profetiche le frasi che concludono l’autobiografia scritta nel 2016 con Moraglio: «Ce la farò? Ce la faremo anche oggi? Sono le domande che vivono dentro la coscienza di ogni imprenditore quando si trova di fronte a scelte difficili, consapevole che dietro l’angolo, anche quando tutto sembra andare bene, c’è sempre il rischio di un imprevisto, di un’emergenza che può mettere in pericolo tutto e tutti».