Il Messaggero, 27 agosto 2022
La Russia brucia il gas pur di non darlo all’Europa
L’immensa e incessante fiammata arancione si scorge a occhio nudo da decine di chilometri oltre il confine con la Finlandia, e si confonde con i colori del tramonto. Ed è un altro disastro ambientale e una terribile beffa per l’Europa, che sta per affrontare un inverno più freddo degli altri dopo i tagli energetici russi. Perché quella fiammata, che va avanti da giugno ed è stata osservata, fotografata e studiata attraverso le immagini satellitari e le elaborazioni di tecnici norvegesi e ricercatori della Miami University in Ohio, è gas che va in fumo e rilascia nell’aria 9mila tonnellate al giorno di diossido di carbonio e quantità enormi di carbonio nero, il particolato che residua della combustione.
Ma a evocare di ben peggio è l’ex presidente russo Medvedev, che snocciola le quattro ragioni che richiederebbero l’uso dell’arma nucleare da parte russa: il lancio di missili balistici sul territorio della Federazione o di suoi alleati, attacchi a infrastrutture critiche che riguardano la deterrenza nucleare, l’uso dell’atomica stessa, altre minacce all’esistenza della Russia.
Intanto a Portovaya, confine con la Finlandia, l’arma che usa Mosca è bruciare il gas, alla vigilia della settimana con 3 giorni annunciati di cessazione dei flussi del Nord Stream 2 verso. È la Bbc a lanciare l’allarme. Il sito, a nord-ovest di San Pietroburgo, ospita una stazione di compressione all’inizio del gasdotto Nord Stream 1, che si attraverso il Baltico scarica nella tedesca Greifswald il gas destinato alla Germania. La società norvegese Rystad Energy ha calcolato che da 2 mesi bruciano ogni giorno 4.34 milioni di metri cubi di gas naturale liquefatto (gnl), un valore di 10 milioni di euro, che su base annuale equivarrebbero a 1.6 miliardi di metri cubi e allo 0.5 per cento del fabbisogno dell’Unione europea. Considerando che la Russia ha già ridotto il flusso del Nord Stream 1 al 20 per cento della sua capacità, e che Gazprom ha tagliato la produzione di gas naturale del 13 per cento da inizio anno a Ferragosto, che le sue esportazioni sono calate del 36 per cento in conseguenza principalmente della guerra in Ucraina, e che i prezzi dell’energia nel mondo si sono impennati, tutto quel gas che brucia preoccupa, e alimenta un giallo che tecnici e politici cercano di decrittare. Per Mark Davis, responsabile di Capterio, società che studia le soluzioni tecniche per il gas in fiamme, quanto sta succedendo è frutto di una «scelta deliberata, che ha motivazioni tecniche. Gli operatori aggiunge – spesso sono molto esitanti quando devono disattivare un impianto, perché è tecnicamente difficile o troppo costoso farlo ripartire, e questo è probabilmente il caso». Miguel Berger, ambasciatore di Germania nel Regno Unito interpellato da Bbc Radio 4, offre una lettura politica: «Le misure che abbiamo preso, la riduzione di consumo di gas dalla Russia dal 50 al 10 per cento, sta avendo pesanti effetti sull’economia russa, e non sanno più a chi vendere quel gas. Allora devono bruciarlo».
DANNI ECONOMICI E AMBIENTALI
In totale, l’Europa importa dalla Russia il 40 e il 30 per cento rispettivamente del suo fabbisogno di gas e petrolio. Ma la Germania ha già fatto sapere che per il 2024 le importazioni dalla Russia saranno azzerate. Che il gas bruci è normale in quegli impianti, ma non a questi livelli. «Mai visto dice Jessica McCarty della Miami University fiamme così alte, così a lungo». Per Esa Vakkilanen, della finlandese Lut University, a causa dell’embargo potrebbero mancare ai russi «le valvole di alta qualità di cui c’è bisogno per processare petrolio e gas». Syndre Knutsson, della Rystad Energy, ne deduce che non c’è prova più eloquente del fatto che la Russia «potrebbe, domani stesso, riportare a livelli normali il prezzo del gas». E poi, preoccupano i rischi per l’ambiente. Ogni giorno le fiamme di Portovaya rilasciano nell’atmosfera 9mila tonnellate di CO2, e costituiscono una fonte continua di calore eccessivo, del tutto anomalo. Il particolato (carbonio nero) va a «depositarsi su neve e ghiaccio dell’Artico e ne accelera lo scioglimento», denuncia Matthew Johnson, della Carleton Università in Canada.