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 2022  agosto 18 Giovedì calendario

Colloquio con Paolo Virzì - su "Siccità"

Roma. A Paolo Virzì si vuol bene quasi come fossimo figlioli suoi o lui figliolo nostro. E pure Virzì ci vuole bene, perché i suoi film sono sempre un atto d’amore per il pubblico, anche ora che il pubblico non si sa bene dove sia e le sale cinematografiche paiono le rovine di Ostia antica, persino mentre tutto sembra andare a scatafascio come in Siccità, il suo nuovo film scritto con Francesca Archibugi, Paolo Giordano e Francesco Piccolo, che sarà proiettato alla Mostra di Venezia fuori concorso e nei cinema dal 29 settembre. Quattro giorni dopo le elezioni politiche, non serve dire altro, se non che il cinema è pure consolazione, e che la dichiarazione di voto di Virzì è pronta: "Certo non voterò per l’alleanza di ultradestra, non uso la parola centrodestra perché il centro non vedo dove sia, e cercherò di capire qual è il voto meno buttato via per stizza".

Siccità è una storia dura, "e non direi distopica", dice il regista, "forse apocalittica, se non fosse un termine così biblico e impegnativo". Roma senza acqua, impestata dalle blatte, flagellata da nuove epidemie, il Tevere disseccato che restituisce sul greto sabbioso il mitologico colosso di Nerone, una città attraversata da una umanità sperduta e sola. "Beh, che ci prepara di bello, un altro film senza speranza?", chiedeva il dottore al regista Guido Anselmi, alter ego di Federico Fellini, all’inizio di . Ma in Siccità, è convinto Virzì, la speranza c’è: "Sicuramente è un film sullo sgomento e la solitudine delle persone, sull’aridità delle relazioni umane che ci ha regalato questo tempo di paure. Allo stesso tempo, a pensarci bene, c’è quasi un happy end". Che poi, chi può dire se un finale è lieto o no? "I film li capisci davvero cosa sono solo quando li vede il pubblico, e forse nemmeno dopo. Ancora oggi c’è chi si congratula per il lieto fine di Ovosodo e chi mi rimprovera un epilogo troppo amaro".

Siccità è un incastro di storie all’americana, "come Short CutsCrashMagnolia", le citazioni sono di Virzì, solo che non piovono rane, anzi non piove nulla (quasi nulla...) e non c’è neanche un Manfredi cui aggrapparsi per il rito di Giove pluvio come in Riusciranno i nostri eroi. Cast ricco, dal copione e dalla descrizione  che ne fa il regista esce una fauna disperata: c’è il detenuto Silvio Orlando, dolcissimo idiota, Valerio Mastandrea, autista proletarizzato che prima scarrozzava il presidente del Consiglio, un misto di tutti i premier progressisti e ottimisti che poi si scoprirà essere morto e per giunta suicida, l’attore spiantato Tommaso Ragno che si ricicla predicatore social e la sua disperata moglie, la bravissima Elena Lietti, la dottoressa imbronciata Claudia Pandolfi, un Vinicio Marchioni impegnato in un sexting ancora più virtuale del virtuale, Max Tortora che pare uscito da Umberto DEmanuela Fanelli un po’ Elide Catenacci, la figlia di Aldo Fabrizi in C’eravamo tanto amati, che mette in un italiano finto istruito gli affaracci di famiglia e finisce a galleggiare in una piscina come il giornalista mantenuto di Viale del tramonto.

"Quanti bravi attori abbiamo. Forse, rispetto ad altre stagioni in cui ero più aspro, più carogna con i miei personaggi, stavolta ci ho messo più dolcezza verso di loro, più tenerezza. Per questo nel racconto irrompe anche una canzone di Mina, Mi sei scoppiato dentro al cuore, per il desiderio di innamorarsi di tutte queste persone perdute, che non sono più capaci di parlarsi né di fare l’amore, nemmeno gli amanti ci riescono".

Non c’è nulla di più inquietante che scoprire che per fare un film di fantascienza non serve ambientarlo in un futuro lontano, ma qui e ora. Racconta Virzì: "Il film è nato da una chiacchierata nel marzo del 2020, erano i giorni in cui eravamo chiusi, con la gente che cantava sui balconi o spiava il vicino che usciva di nascosto e i droni che puntavano quelli che facevano jogging sulla battigia. Ricordo che una mattina ero uscito verso il Circo Massimo con il mio cagnolino Totò, un barboncino rognoso che non mi sono mai filato troppo e che invece in quei giorni era una salvezza. Roma era deserta, a un certo punto una gazzella dei carabinieri si ferma sgommando davanti a me: cosa fa lei qui? Dove abita? Torni subito sotto casa sua! E io ho obbedito. Lì, con gli altri autori, abbiamo cominciato a chiederci: che ne sarà di noi? Che succederà alle persone? Torneranno a toccarsi? Ci sarà di nuovo un bacio al cinema?".

La scelta di ambientare tutto in una Roma assetata, sudata, asciutta come il Tevere ("Ma ’sto fiume ce serve o nun ce serve?", si chiedeva non a caso Verdone nel mitologico finale di Gallo cedrone), è venuta da sé: "La città che per prima ha avuto gli acquedotti, costruita sull’acqua pubblica, la città delle fontanelle, l’icona del progresso di secoli che si sgretola e muore di sete e di sonno". La decisione di aggiungere all’incubo pandemico quello climatico è narrativa ma tanto, tanto politica: "Due anni fa si parlava poco di siccità, ma non serviva la sfera di cristallo per capire cosa ci aspetta, bastava leggere gli scienziati. Sono rimasto colpito da un reportage che mi aveva segnalato Giordano sulla crisi idrica a Città del Capo nel 2018. Si può vedere su Youtube, racconta il conto alla rovescia prima della sospensione dell’erogazione dell’acqua pubblica, il contrasto tra i quartieri bianchi dove si gioca a golf, con i campi irrigati, e le township dove arriva brutalmente la polizia ad arrestare chi lava la macchina. La pandemia, l’emergenza climatica aggravano le disuguaglianze".

Solo che la risposta della piazza è sconcertante. Questo è anche un film di riots, sulla rabbia sociale, sull’odio, solo che non è più la haine delle banlieue di Kassovitz che nei Novanta faceva vibrare di insurrezione i cuori del pubblico più a sinistra. "Da tempo c’è questo fenomeno inedito, che abbiamo visto bene con le manifestazioni No Mask a piazza del Popolo, i ragazzi dei centri sociali che manifestano insieme ai fascisti, quei proclami tipo siamo oltre le barriere obsolete di destra e sinistra, noi siamo il popolo, una roba spaventosa collegata con il caos, i gilet gialli, i forconi. Queste forme di protesta che hanno qualcosa di reazionario, non di rivoluzionario, che manipolano il disagio sociale".

Poi l’infinita vanità del tutto, gli scienziati che si lasciano sedurre dai media come molti virologi fuori controllo: "Mentre scrivevamo il film avevamo sotto gli occhi le nuove star, questi virologi che nessuno conosceva e che abbiamo visto presto mettersi in posa sui rotocalchi, sfoggiare capigliature sempre più creative, sfilare sui red carpet. Nel film, il rigoroso idrologo che cala dal Nord con il suo carico di previsioni sullo sconquasso climatico ci mette niente a scoprire la dolcezza della corruzione mediatica". E pure la dolcezza di una irresistibile e autoironica Monica Bellucci, nella parte di una quasi se stessa.

A proposito di cambiamenti climatici: un tempo l’autunno caldo era la speranza della sinistra. Oggi è il suo incubo. Dice Virzì: "Mi aspetto tanta rabbia, le elezioni non aiutano, porteranno l’Italia a parlare di noi stessi, chi ha votato chi, chi si allea con chi, ci sfugge la natura globale del conflitto: da una parte il partito di chi spera ancora nelle conquiste del sistema democratico, lo stato sociale, la rappresentanza e dall’altra la resa a progetti di autoritarismo, Orban, Putin, Trump". La domanda è ovvia: Virzì aggiungerebbe Meloni all’elenco? "Potrebbe, o anche no. Avendo la destra un programma irrealizzabile e del tutto fuori sincrono con le esigenze del momento, non si può escludere un classico stallo di ingovernabilità. Magari, se vince Meloni, presto o tardi torna un tecnico, Draghi o chi per lui. Ma si deciderà tutto all’ultimo, perché il primo partito italiano è quel 40 per cento che non vota o non sa più per chi votare". O che, come il Ruggero Mazzalupi-Ennio Fantastichini di Ferie d’agosto, "Io i partiti l’ho votati tutti!". Si vuol bene pure a lui, nonostante tutto.