Corriere della Sera, 26 agosto 2022
Biografia di Maurizio Lupi
Dovesse capitarvi di incontrarlo in tarda mattinata, preparatevi prima una scusa bella solida, caso mai vi invitasse a pranzo. Perché allora stareste lì con lui che ordina una bresaolina, condimenti vicino allo zero, e vi lancia un’occhiata di sottecchi perché avete osato chiedere l’acqua con le bollicine. Moderati magari si diventa, che si comincia incendiari e si finisce pompieri, ma tutt’altra cosa è se ci si nasce, e lui, modestamente, lo nacque. Il suo motto politico, «da grandi onori derivano grandi responsabilità» somiglia un po’ a quello di Peter Parker, alias Spider Man, e per chi come lui si definisce il più draghiano dei draghiani, la fine del governo di unità nazionale è stata un dolore puro, anche se sulla lavagna dei cattivi segna solo Giuseppe Conte, e non i suoi aiutanti del centrodestra, che siamo pur sempre in campagna elettorale. Velleitario è una parola che non esiste nel suo vocabolario, e quindi a mettersi di traverso alla marcia annunciata di Giorgia Meloni verso Palazzo Chigi, per ora non ci pensa nemmeno. Ma gli si attribuisce un’attività di pontiere con il mondo della ragione e delle buone maniere perché gli strappi, dovessero esserci, siano almeno contenuti. Un pensierino, anche se non di recente, a un polo centrista e solido che consentisse di morire democristiani, lo ha fatto. Ma adesso eccolo qui, con l’amico Giovanni Toti, a tenere a bada il principale avversario. Quel Carlo Calenda che vorrebbe far raccolto nel suo orto, e che a suo dire assomiglia alla rana della favola, che, per invidia e voglia di potere, si gonfia e si gonfia per sembrare grande come il bue, fino a scoppiare. Finale che ovviamente non gli augura, perché mica siamo moderati per senza niente.
Maurizio Lupi nasce a Milano, il 3 ottobre 1959, sotto il segno, manco a dirlo, della Bilancia. Figlio di una coppia immigrata dall’Abruzzo, padre muratore e madre operaia all’Alemagna. «Sono terrone dentro», rivendica. Prima in una casa più piccola, ora in una un po’ più grande, vive da sempre nel quartiere degli Olmi, in quel di Baggio. Laurea in Scienze politiche all’università cattolica del Sacro cuore, una militanza lunga decenni in Comunione e liberazione, come la moglie Manuela, tre figli. È lui che ha venduto bibite a San Siro, altro che Luigi Di Maio al San Paolo. Per mantenersi agli studi ha anche dato ripetizioni, insegnato religione in una scuola media di periferia al quartiere Tessera, e ha fatto pure l’autista, anche se guidare non gli piace un granché. Tifoso del Milan, una passione per il calcetto ma soprattutto per la corsa, unica attività umana della quale è quasi un fanatico: ha fatto undici volte undici la maratona di New York ed è fondatore del Montecitorio Running club, oltre che del Milan club Montecitorio. Sport di base e legame con il territorio sono il suo chiodo fisso, che cura con la fondazione «Costruiamo il futuro». Ha avuto un cane per 19 anni, Macchia, e quando è morto non ne ha più voluto un altro.
Avrebbe tanto voluto fare il candidato sindaco a Milano, dove è stato assessore con Gabriele Albertini, e c’è andato vicino. Silvio Berlusconi, che pure aveva lasciato nei giorni dello strappo con il governo di Enrico Letta per seguire la scissione di Angelino Alfano, sarebbe stato d’accordo. Pare, ma magari sono chiacchiere, che a sbarrargli la strada sia stato Matteo Salvini, per preferirgli quel Luca Bernardo salito sul ring a fare il sacco da pugni di Beppe Sala.
È ministro delle Infrastrutture e dei trasporti nel governo guidato da Matteo Renzi, che ha da poco disarcionato Enrico Letta, quando, ai margini dell’inchiesta Grandi Opere, alcune intercettazioni lo accusano di aver ricevuto dei favori: un abito di sartoria, e poi un Rolex da diecimila euro e un lavoro per il figlio Luca. Spiega che l’orologio era un regalo di laurea, che il lavoro era uno stage non pagato e che comunque il figlio aveva trovato altro da fare negli Usa. L’archiviazione arriverà, ma intanto lui resiste, anche se il suo premier non vede l’ora che tolga il disturbo. Crolla quando squilla il telefono. È il figlio che lo chiama da Oltreoceano: «Papà, qui ci sono dei giornalisti che chiedono conto di quanto sta succedendo». Si dimette, ne fa una malattia, si rovescia in strada all’alba e corre per ore, stile Forrest Gump.
Se ti manda gli auguri di Natale, puoi essere certo che si fa accompagnare da Sant’Agostino, che se «a Lui è toccato di nascere per noi, a noi avvenga di rinascere in Lui». E non è davvero lontano dal Pange Lingua, nella versione di San Tommaso d’Aquino, che «se la ragione viene meno, la fede basta per rassicurare un cuore sincero». Per dire che la sua vicinanza alla Chiesa, dalla famiglia, al divorzio, all’aborto, è assoluta. Ma è anche osservante della dottrina di papa Francesco, che vuole i cristiani dentro le contraddizioni e le complessità di oggi. La sua terza casa, dopo la famiglia e la Chiesa, nell’accezione di Cl, è la Compagnia delle Opere, la potente e diffusa organizzazione di imprese che trova nella sussidiarietà la sua ragion d’essere. Questo lo fa essere avversario del salario minimo, che, a suo parere, metterebbe in ginocchio la piccola iniziativa. Vuole aiuti a famiglie e imprese, un po’ come tutti, contro la crisi energetica, e chiede per questo il sì ai rigassificatori e al nucleare green, tutte posizioni che lo trovano in contrasto con gli ambientalisti della prima ora. Ma lui al dialogo ci sta, quasi con chiunque. Purché gli si dia un palco e un microfono, che se non fosse Maurizio Lupi vorrebbe essere Pippo Baudo.