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 2022  agosto 25 Giovedì calendario

Biografia di Dario Vergassola raccontata da lui stesso

L’ex calciatore Simone Vergassola è un suo parente?
«No, però Fazio c’è cascato. Il mio agente Carlo Gavaudan lo convinse e così lui mi chiamava a Quelli che il calcio. Quando poi dicevo che non eravamo parenti tutti ridevano, sembrava una battuta: lui era alto, moro, il Dna non è un caso. Mi chiamavano anche le radio sportive per commentare le sue prestazioni». 
Il suo primo ricordo? 
«Io che allatto al seno di mia madre sul terrazzino e vedo mio padre che va al lavoro in bici. Ma non so se l’ho sognato o lo ricordo davvero». 
Che lavoro facevano? 
«Mio padre, Umberto, scaricava al porto, in un magazzino della Marina, e puliva scale e uffici. Mia madre, Edda, andava a servizio nelle case. Purtroppo è mancata molto giovane, a 53 anni, mentre lavorava. Ha avuto un attacco di asma. Mio padre l’ha portata in Vespa al pronto soccorso, ma non c’è stato niente da fare. Non mi avevano chiamato per non disturbarmi, avevo il figlio piccolo...». 
Il primo regalo che ha fatto lei a loro? 
«Li ho portati a cena fuori: non c’erano mai andati. Avrei voluto ricomprargli la casa dove sono cresciuto, volevo fare una sorpresa a mio padre e portarlo lì per Natale. Però non c’è stato verso di convincere i proprietari, anche se avevo fatto un’offerta spropositata». 
Che adolescenza ha avuto? 
«Ero basso e mi prendevano in giro. Difendermi con le battute è stata una forma di sopravvivenza, ma normale, non ne soffrivo. La prima volta che sono andato a dormire fuori con gli amici con il sacco a pelo, mia madre mi aveva messo dentro le lenzuola. E mentre gli altri avevano tutti pensieri più o meno erotici, io ero l’unico a provare una sorta di vertigine sotto l’immensità del cielo». 
La Spezia, primo pomeriggio. Merenda all’aperto con panini di «muscoli» (qui chiamano così le cozze, è una contaminazione con le moules francesi, musselsin inglese), due birre piccole e una bottiglietta d’acqua. Dario Vergassola finge interesse per l’intervista, in realtà vuole solo scampare al trasloco di cui si sta occupando la moglie Paola. Alla fine della lunghissima chiacchierata paga il conto. Ligure e gentiluomo. 
Ci ha messo un po’ a fare il comico. Prima ha lavorato all’Arsenale militare di La Spezia. 
«Per sedici anni. Per chi è di qua è l’equivalente di un ministero a Roma. Ero intontito dallo stipendio fisso, molto basso, anestetizzato rispetto a quello che mi piaceva sul serio. Pensavo alle bollette, alla spesa, non alla creatività». 
Che mansioni aveva? 
«Manovale, marinaio di coperta. La prendevo immaginando di essere Corto Maltese. Pioveva, salute precaria, bronchite dalla mattina alla sera... Poi sono passato a mansioni di ufficio». 
E il sacro fuoco dello spettacolo? 
«Sotto banco frequentavo quelli che suonavano. Ricordo i viaggi sulla Cisa con la mia 127 per andare a Milano ai provini per Zelig. Tornavo alle 4 del mattino e alle 8 andavo all’Arsenale». 
Perché la chiama Spezia, senza «La»? 
«Non saprei. Forse per risparmiare. Non dimentichi che sono ligure». 
Chi cominciava con lei, a quei tempi? 
«C’erano già tutti. Gli Elio e le Storie Tese, Maurizio Milani, un genio dal cinismo meraviglioso. E poi Paolo Rossi, che era già famoso: mi ero quasi inginocchiato davanti a lui, rappresentava quello che volevo fare». 
La svolta arrivò con il Maurizio Costanzo Show. 
«Avevo vinto Sanscemo, un Festival di canzoni comiche che si svolgeva a Torino. Chi vinceva faceva le ospitate al Costanzo Show. La prima volta chiesi a mia moglie se mi aveva guardato: rispose che aveva sonno, era andata a dormire». 
Parliamo di Paola. Da quanto tempo state insieme? 
«Sposati da quasi 39 anni, altri 7 di fidanzamento. È stato uno di quegli amori da ragazzini, che aspetti finché non cresci: roba che quando passava il treno immaginavo ci fosse lei sopra. Siamo stati fortunati. Ed è caduta in trappola: si occupa di tutto, è la commercialista di casa». 
Sopporta la sua ipocondria. 
«Sono un po’ psicolabile: alterno attacchi di panico ad attacchi d’ansia. E mi basta un piccolo dolore per pensare di avere diecimila malattie. Mi è successo da poco mentre facevo la doccia: non ero sicuro se una cosa l’avevo sognata o vissuta. Quando succede, lei mi dice: “Forza, vestiti che andiamo a fare la spesa”. Se sono solo è più complicato, ci vuole qualche goccetta». 
Frequentatore assiduo di Pronto soccorso. 
«In tutta Italia, potrei fare la classifica. Abuso del fatto che mi riconoscono: sono tutti molto gentili con me». 
L’ultimo che ha visitato? 
«Quello di Asti. Rapidissimi, mi hanno fatto Tac ed elettroencefalogramma. Voglio spezzare una lancia per chi pilota gli aerei quando ci sono io a bordo e per chi è di turno all’ospedale quando vado io. E, vorrei aggiungere, che in questi continui vai e vieni ho riflettuto su una cosa». 
Dica. 
«Ma certe persone che stanno portando un figlio d’urgenza all’ospedale, quando lo affidano al medico sperano che sia bravo o che non sia gay? Questa domanda vale per tutti i mestieri». 
Se le chiedono che lavoro fa, cosa risponde? 
«Il cazzaro miracolato, con patologia a parlare continuamente. Ho un cervello che va a 30 mila, inutilmente. Un giorno mia mamma disse: “In televisione c’è pieno di scemi, prova anche tu”». 
Certe sue interviste a «Zelig» oggi non si possono più sentire. E non si potrebbero nemmeno più fare. Nessuna soubrette si è mai lamentata? 
«Guardi che ci sono andato pesante anche con i calciatori. Una volta chiesi a Buffon se dopo aver calciato una palla a settanta metri poi gli faceva male. Michelle Hunziker è un’altra che non ho risparmiato. Dopo l’intervista disse a microfoni spenti che era stato peggio di una visita dal ginecologo. Eppure poi Gino e Michele, apprezzando il modo in cui seppe incassare, le chiesero di condurre Zelig». 
Mara Carfagna a «In onda» la tacciò di arroganza. 
«Ho capito: ma una che sta con Mezzaroma che domande si aspetta? Se guarda il Late Show americano le domande sono molto peggio. E comunque alla Carfagna ho sempre riconosciuto di essere strutturata: ha usato bene l’esperienza della politica, ha imparato mentre lo faceva. Una volta è venuta a salutarmi al termine di uno spettacolo a teatro e si era pagata il biglietto». 
Il politically correct cambia la satira? 
«Cambia tutto in peggio. I politici non puoi neanche toccarli, succede il finimondo. Ma è difficile tutto, essere bassi, grassi, alti, magri. Se cominci a selezionare le cose che puoi dire, se ti preoccupi di non offendere, hai finito». 
Le battute più scorrette? 
«Quelle sui morti. È scomparso l’inventore della brugola: la famiglia si stringe intorno alla vedova. È morto Balocco: sarà cremolato a Natale. È mancato Foppa Pedretti: è stato seppellito in una bellissima bara che piegando gli angoli diventa un tavolo da campeggio. Addio a Piero Angela: adesso in Paradiso andrà a spiegare agli angeli che non esistono. Non puoi pensare che siano irrispettose: devono essere fulminanti». 
In tv ha lavorato in tantissimi programmi, Rai e Mediaset. La spalla ideale? 
«Serena Dandini: è una istituzione della televisione. Se una sua scelta ti sembra sbagliata, dopo poco scopri che ha ragione. Ha lavorato con dei geni, non capisco cosa ci facessi io». 
E dei grandi con cui ha lavorato lei cosa dice? 
«Cerco di lavorare con i più bravi, perché mi aiutano. Jannacci, Moni Ovadia, Riondino». 
Un ricordo di Jannacci. 
«Una volta mi fece sdraiare per un’ora e con un apparecchio misurò una serie di indicatori per eventuali malattie tipo neurodegenerative. Fu serissimo. Peccato che tre giorni dopo in una farmacia vidi esposto lo stesso apparecchio che era un elettrostimolatore con tutt’altra funzione: mi aveva preso per i fondelli». 
Un suo mito? 
«Woody Allen. Quando Costanzo lo invitò allo Show andai a vederlo: stetti seduto vicino a lui come un cagnolino». 
Ha mai chiesto l’autografo a qualcuno? 
«Solo a Caetano Veloso. Mi proposero di introdurlo a Lecce per un suo concerto. Quando cantò Un vestido y un amor e Cucurrucucú Paloma ero già innamorato di lui. Peccato che mia moglie, che non sta mai male, proprio quella sera avesse un mal di testa. Mi chiese di accompagnarla in albergo e io non potei dirle di no. Però mi è rimasto l’autografo». 
E Gaber? 
«L’ho conosciuto al Lido di Venezia, partecipando al suo festival “Professione comico”. C’erano ospiti una sera Benigni e la sera dopo Grillo. Stetti due serate perché vinsi il premio del pubblico e quello della critica. Io e Paola eravamo partiti con la macchina di un suo cugino perché io avevo la 127 e non ci sarei mai arrivato. La figlia di Gaber, Dalia, mi ha detto che quando il padre mi vedeva da Costanzo si divertiva molto. Una bella medaglia». 
Dove nasce la sua amicizia con Fabio Volo? 
«Mi ha chiamato in radio per farsi insultare». 
Prego? 
«Ma sì, io leggo i brani dei suoi libri prendendolo in giro e lui ride». 
Ha tre nipoti. Che nonno è? 
«Ho Amelia, 8 anni, la squilibrata. Adriano, 4, il duro tutto bello. E Dante, il piccolino, che ha sei mesi: lo chiamiamo Ridolini. Se conti anche mio padre di 90 anni e fai la somma, c’è da badare a tutti». 
Un programma che non ha ancora fatto? 
«Il sogno sarebbe Per un pugno di libri. Leggo tantissimo, da quando mia madre mi portava mentre prestava servizio in una casa di avvocati. Mi lasciava nella stanza dei figli: su una parete avevano tutti i Linus. Ho cominciato così».