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 2022  agosto 25 Giovedì calendario

Biografia di Shaul Ladany

Fra i superstiti del massacro di Monaco 1972, c’è un atleta e un uomo straordinario in grado di incontrare la morte faccia a faccia ma di vincerla. Il suo nome è Shaul Ladany, un docente di ingegneria prestato all’atletica che prima di salvarsi dai palestinesi di Settembre Nero era già sopravvissuto a un bombardamento a tappeto a Belgrado e a un periodo di prigionia in un campo di concentramento, Bergen-Belsen, lo stesso in cui morì Anna Frank. Nato in Jugoslavia il 2 aprile 1936, all’alba della Seconda Guerra Mondiale, Shaul Ladany oggi ha 86 anni, vive nel sud di Israele e si tiene in forma marciando 5 km al giorno, la sua passione. «Sono in ottima salute rispetto alla mia età dice dall’altro lato della cornetta -. Fortunatamente, sono sopravvissuto e così posso raccontarvi nel dettaglio cosa ho vissuto sulla mia pelle in quel 5 settembre di cinquant’anni fa». Certo Shaul Ladany non può aver dimenticato quei momenti drammatici che sconvolsero i Giochi di Monaco.
IL RACCONTO
Per 10 giorni, le Olimpiadi del 1972, inaugurate il 26 agosto di cinquanta anni fa nello stesso stadio in cui si è appena conclusa una splendida edizione degli Europei di atletica, avevano mostrato la gioia dello sport: dai 7 trionfi di Mark Spitz nel nuoto a quelli di Borzov nell’atletica, per esempio. Poi, il terrore colpì. Inizia così il racconto del professor Ladany: «Dalla cena in avanti ricordo tutto, purtroppo. Il 3 settembre ho preso parte alla 50 km di marcia ed il giorno dopo, per me, è di riposo. La sera del 4, l’intera squadra israeliana viene invitata ad uno spettacolo di gala in un teatro locale. Viene anche scattata una foto di gruppo, l’ultima in cui ci siamo tutti perché molti di noi sarebbero morti il giorno dopo». Fa una pausa di commozione, Shaul Ladany. Secondi interminabili. Poi, prosegue il suo racconto: «Tornato al villaggio olimpico, poco prima di salire nell’appartamento, Moshe Weinberg, l’allenatore di lotta che chiamavamo Muni, mi chiede di prestargli la sveglia, che a me non serviva in quanto avevo finito le mie gare. Ci pensa il mio compagno di stanza Zelig Shtroch, intorno alle 6, a svegliarmi di colpo. Mi dice: Gli arabi hanno ucciso Muni. Per una frazione di secondo penso a uno scherzo, perché Zelig è sempre stato un gran burlone. Invece, quando lui scosta la tenda e indica una macchia di sangue sul pavimento: È il suo corpo, giaceva lì prima che venisse gettato in strada, realizzo che non si tratta di uno scherzo». A quel punto, cos’ha fatto Shaul Ladany? «Senza pensarci un attimo, indosso velocemente una tuta sopra il pigiama e vado alla porta d’ingresso dell’appartamento, condiviso con gli altri compagni di stanza. La apro verificando che all’esterno non ci sia nessuno. Noto che a 4-5 metri, alla mia destra, c’è una persona in piedi con il viso coperto. E’ uno dei terroristi. Forse non mi ha visto, rifletto. Poi, non so come, ma riusciamo a scappare, a differenza degli altri israeliani presi in ostaggio». Finirà in un bagno di sangue, ma questo non impedirà la ripresa dei Giochi, portati a termine l’11 settembre.
IL DOLORE
Undici, curiosamente, come le vittime israeliane. «Ritengo che durante quelle Olimpiadi siano stati compiuti alcuni errori. Innanzitutto, la strage forse poteva essere evitata. Sì perché la polizia avrebbe dovuto attuare misure di sicurezza più efficaci, alla luce del fatto che gli israeliani erano già stati presi di mira in precedenza dai terroristi. Qualcosa andava fatto, anche se è vero che durante le Olimpiadi la pace doveva regnare sovrana e nessuno avrebbe potuto immaginare all’epoca che qualcuno avrebbe cercato di approfittare di quell’evento per un attacco terroristico. Secondo errore: alla cerimonia di chiusura, non solo non c’era nessuno di noi, ma nessuno ha sfilato con la bandiera israeliana. Alla fine, i terroristi avevano ottenuto ciò che volevano: ovvero farci scomparire dalla scena internazionale».