la Repubblica, 24 agosto 2022
L’iPhone 14 sarà meno cinese e più indiano
C’è poco da girarci intorno: il riallineamento è cominciato. La decisione della Apple di spostare parte della produzione del nuovo iPhone 14 dalla Cina all’India è solo l’ultima conferma della direzione scelta dagli Usa, che non riguarda solo la necessità di diversificare le catene di approvvigionamento dopo il Covid, ma tocca anche la sfida strategica cruciale del futuro per il controllo della tecnologia. Qui si giocherà un’ampia fetta della rivalità geopolitica epocale tra Washington e Pechino, assai più rilevante delle scelleratezze belliche medievali di Putin, la cui economia vale meno del 2% del Pil globale e conterà sempre meno a causa della transizione ecologica. Resta solo da capire se la competizione porterà inevitabilmente americani e cinesi verso una nuova Guerra Fredda e quindi lo scontro, secondo la logica della “trappola di Tucidide” teorizzata soprattutto dallo studioso di Harvard Graham Allison, oppure se si troverà un modus vivendi utile a tutti, come auspica invece l’ultimo numero della rivistaForeign Affairs .
La nuda cronaca è estremamente chiara. Secondo Bloomberg , Apple ha deciso di iniziare la produzione del nuovo iPhone 14 in India un paio di mesi dopo il suo rilascio nella Repubblica popolare cinese. Ai profani questo dirà poco, ma per gli addetti ai lavori è un mutamento storico della strategia, perché anticipa un passaggio che in genere accadeva nell’arco di sei o nove mesi. La taiwanese Foxconn, tradizionale fornitrice della Apple, ha già studiato come trasferire i propri prodotti nella sua fabbrica di Chennai, nel Sud dell’India, per avviare rapidamente l’assemblaggio. La decisione ha un senso economico, perché l’India è il secondo mercato mondiale degli smartphone, ma sarebbe ingenuo fermarsi a questa spiegazione. L’obiettivo infatti è trasferire anche la produzione degli iPad, e si somma a scelte simili già fatte per spostare gli Apple Watch e i MacBook in Vietnam.
Allargando un poco lo sguardo, è inevitabile notare che il Congresso ha appena approvato con ampia maggioranza bipartisan il CHIPS and Science Act. Questa legge stanzia 52,7 miliardi di dollari, ossia un paio di “finanziarie” italiane, per favorire la ricerca, lo sviluppo e la manifattura dei semiconduttori negli Usa. Il provvedimento si salda alla strategia del reshoring, che nel 2022 ha già riportato in patria quasi 350 mila posti di lavoro del settore manifatturiero, principalmente dalla Cina, mentre la costruzione di nuove fabbriche in America è aumentatadel 116%. La prima spiegazione del fenomeno è ovvia. La pandemia ha dimostrato che l’offshoring si era spinto troppo avanti, delegando all’estero la produzione di beni indispensabili per la sopravvivenza dei cittadini. Inoltre il Covid ha paralizzato le catene di distribuzione, provocando danni che ancora paghiamo, inflazione inclusa.
L’offensiva nel settore tecnologico però va oltre. La sfida geopolitica epocale con l’autocrazia cinesesi giocherà su questo terreno, quanto e forse più di quello militare, che ha assolutamente bisogno di chip e altri beni del genere per prevalere. Per non parlare poi del controllo sociale, che darà un enorme vantaggio a chi saprà correre più velocemente nello sviluppo dell’intelligenza artificiale.
Allison prevede che questa competizione porterà inevitabilmente allo scontro, come era successo nell’antica Grecia fra l’emergente Atene e la potenza Sparta. Sull’ultimo numero di Foreign Affairs Jessica Chen Weiss si augura invece che non accada, con il suo articolo intitolato “The China Trap”, in cui sollecita gli Usa ad evitare la «pericolosa logica della Zero-Sum Competition». In altre parole, non è detto che questo sia un gioco in cui necessariamente uno dei due contendenti debba prevalere a spese dell’altro. Ci sarebbe lo spazio per competere e avere successo entrambi, senza doversi distruggere a vicenda. Nel frattempo però la Apple nel privato, e il governo Usa nel pubblico, stanno prendendo le loro precauzioni.