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 2022  agosto 24 Mercoledì calendario

Storia della Woodstock del 1999

Affitti una ex base militare piena di cemento e asfalto; ci metti 400mila spettatori per tre giorni di fila; fai suonare le band rock più aggressive in circolazione; subappalti la ristorazione ad aziende che fanno pagare otto dollari una bottiglia d’acqua; non hai un vero servizio d’ordine; non hai un numero sufficiente di servizi igienici; continui a scocciare tutti quanti sui fantomatici valori di pace e amore che sarebbero alla base dell’evento. Cosa può andare storto? Ad esempio, alla fine, il pubblico potrebbe decidere di radere al suolo tutto quanto, palco incluso. Abbattere le torri dei tecnici audio. Incendiare qualche camion. Saccheggiare gli stand. Assediare gli organizzatori. Abbattere il muro che circonda l’area. Continuare nella devastazione fino all’arrivo delle squadre anti-sommossa della polizia.
Andarono così i tre giorni della nuova Woodstock, organizzata nel 1999 a trent’anni dalla vecchia Woodstock, passata alla storia come un fine settimana di pace, amore, sesso, droga, musica. La Woodstock del ’69 fu l’apice della stagione degli hippies. La località prescelta in realtà si chiamava Bethel, contea di Sullivan, una cittadina rurale 69 km a sud-ovest di Woodstock. Elliot Tiber, il proprietario del motel El Monaco sul White Lake a Bethel, si offrì di ospitare il festival in una sua tenuta di 15 acri. Aveva già ottenuto un permesso dalla città per il White Lake Music and Arts Festival, che sarebbe stato un concerto di musica da camera. Quando si accorse che la sua proprietà era troppo piccola, Tiber presentò gli organizzatori a un allevatore, Max Yasgur, che accettò di affittare loro 600 acri (2,4 km²) per 75.000 dollari. Una miseria. Gli organizzatori, tra i quali spiccava Michael Lang, il vero inventore della manifestazione, dissero di attendere 50mila persone. Ne arrivarono 400mila. Il festival si protrasse dal 15 al 17 agosto 1969 ma la gente rimase un altro giorno, non voleva andarsene. Jimi Hendrix suonò all’alba e incendiò l’inno americano nel cielo mattutino. Si esibirono, tra gli altri Creedence Clearwater Revival, Jefferson Airplane, Santana, Janis Joplin, Sly & The Family Stone...
Il concerto fu un successo ma i promotori non guadagnarono nulla, almeno così dicono nello splendido documentario Trainwreck: Woodstock ’99, tre puntate disponibili su Netflix. Fatto sta che Woodstock divenne un marchio e alla fine incassò il dovuto tra film, dischi, gadget. Nel 2019, ad esempio, sono usciti lussuosi e costosi cofanetti con le intere performance musicali della tre giorni. Nel 1994, Lang provò a rivitalizzare il marchio ma il festival non ottenne un grande successo. Nel 1999, l’organizzazione era più combattiva. Questa volta, nessuno sarebbe entrato gratis. La base militare di statunitense di Rome nello stato di New York era perfetta perché enorme ma circondata da un muro. Il festival si svolse dal 22 al 25 luglio 1999. La lista degli ospiti musicali prevedeva la crema del metal e del cosiddetto nu metal: Limp Bizkit, Rage Against the Machine, Korn, Red Hot Chili Peppers, Megadeth, Metallica. Chitarre ad alto volume, testi rabbiosi, nichilismo. Parrebbe che gli organizzatori, questa volta, non sappiano chi hanno invitato a suonare. Il pubblico comunque risponde bene: arrivano in 400mila anche questa volta. Progressivamente il festival diventa un delirio sempre più pericoloso. C’è un caldo da allucinazioni, l’asfalto non aiuta. Mancano acqua, docce, servizi igienici. Nessuno pulisce, si dorme tra la spazzatura. Il servizio d’ordine non ha la minima idea di cosa debba fare. Nell’incertezza, resta immobile.
Assistiamo a riunioni grottesche in cui anziani hippie, avidi di denaro, disposti a risparmiare su qualsiasi cosa, predicano la pace e l’amore universale ed esaltano «lo spirito di Woodstock», che non si capisce dove stia di casa. Non a Rome dove si svolge il concerto. Pace e amore è uno slogan per vendere magliette e lo spirito di Woodstock si riassume in: «arrangiatevi, è andata bene la prima volta, andrà bene anche questa». Invece va male.

Durante il concerto dei Limp Bizkit, si teme la prima sommossa. Il pubblico sprigiona elettricità, il gruppo rovescia benzina sul fuoco con l’esecuzione di Break Stuff, brano classico del repertorio, in cui si racconta di una giornata storta, in cui si ha voglia di fare del male a qualcuno. L’ultimo giorno, gli organizzatori hanno promesso un grande evento finale dopo l’esibizione dei Red Hot Chili Peppers. Invece non c’è nulla. Il pubblico si scatena e distrugge tutto. Alla fine si conteranno numerosi feriti e una notevole quantità di denunce per stupro e molestie.
Rimane una domanda nell’aria. Come mai nel 1969 non successe nulla e nel 1999 successe un disastro? Prima la pace e l’amore; poi la rabbia e la violenza? La prima Woodstock fu baciata dalla fortuna. Ma le vibrazioni negative erano già presenti anche nella Summer of Love. Infatti pochi mesi dopo, quando i Rolling Stones organizzano la «loro» Woodstock all’autodromo di Altamont, ci scappa addirittura il morto dopo una giornata di violenza cieca tra il pubblico e il servizio d’ordine affidato agli Hell’s Angels.
La generazione che si presenta a Woodstock ’99 è stata allevata a colpi di consumismo e nichilismo. I ragazzi sanno benissimo che tutto è merce, anche gli slogan patetici che i vecchi hippie ripetono come un mantra. Schiacciare i grilli parlanti (tra cui ci possiamo mettere anche Mtv e il mondo delle celebrità) fa parte del divertimento. Forse il documentario vorrebbe contrapporre la vecchia generazione di idealisti a quella nuova di nichilisti. In questo fallisce completamente. È chiarissimo che in questa storia non esistono i buoni, solo gli affaristi e le loro vittime.