il Giornale, 24 agosto 2022
Nell’atelier di Luca Pignatelli
Anni fa, quindici o forse più, io e mia moglie visitammo per la prima volta Artefiera. Era l’inizio di febbraio, eravamo arrivati a Bologna in mezzo a una tormenta di neve. Dentro, storditi dal viaggio, avevamo girovagato spaesati tra i padiglioni, entrando e uscendo a caso dagli stand. Non ci piaceva quasi niente. Facevamo il gioco «Questo lo porteresti a casa?» e a tutto rispondevamo «no» o al massimo «ni». Poi eravamo capitati in uno stand ed eravamo rimasti incantati, da lì avremmo portato a casa tutto. Erano grandi opere dipinte sui teloni di canapa che avvolgevano il carico dei treni merci, oppure su tavole di recupero consumate dalle intemperie, o ancora su lastre di metallo ossidato. I soggetti erano vecchi aerei, locomotive a vapore, grattacieli anni Venti, statue classiche, boschi, tutti scurissimi, tutti in penombra, come se la luce venisse assorbita, oscurata dalla patina del tempo depositata su quelle figure che venivano da epoche lontane. Erano opere di Luca Pignatelli. Se avessi dovuto trovare un singolo aggettivo per descriverle avrei scelto «enigmatiche». E a proposito di enigmi: alcune erano punteggiate di minuscole macchie bianche, che lì, in fiera, mi erano sembrate la neve che avevamo appena lasciato fuori, fiocchi che trasformavano l’oscurità in fiaba e in sogno, come in un paesaggio dentro una bolla di vetro. Ma cominciando a seguire Pignatelli per mostre e gallerie e, più avanti, su Instagram, quelle macchioline bianche le avrei ritrovate davanti ad altri boschi, aerei, treni, grattacieli, ma anche in quadri che raffiguravano interni e arredi. Davvero poteva essere semplice neve?
È luglio, pomeriggio di una giornata milanese di sole accecante. L’asfalto è molle per il caldo nella via secondaria dalle parti di piazzale Corvetto, dove Luca Pignatelli, da ormai quindici anni, ha il suo studio. Mi apre la porta ed è amichevole mentre, sulla soglia, mi stringe la mano. Ha la mia età, anche lui è del ’62, e come me è brevilineo. Indossa una t-shirt nera, un paio di pantaloni chiari, mocassini. Mi viene da pensare che somigli a Strehler. Oppure a Giorgio Albertazzi. O forse invece somiglia solo pochissimo all’uno e all’altro, come mi renderò conto in serata quando cercherò le fotografie del regista e dell’attore per rinfrescarmi la memoria, e l’idea della somiglianza dev’essere colpa del taglio dei capelli, che sono bianchi e ondulati, lunghi fin sotto alle orecchie, oppure del suo sguardo, vagamente ieratico. O forse ancora, la colpa è solo dell’atmosfera arcana, enigmatica come i suoi quadri, che trovo quando mi fa entrare, un’atmosfera che ho sempre associato al sipario, alle quinte, alle macchine di scena, alle ombre indecifrabili del teatro.Qui dentro è fresco ed è tutto in penombra. C’è un lungo tavolo in legno, delle poltrone di design, e ogni spazio è pieno, come stratificato. Ma l’accumulo di quadri, di colonne lignee, di libri, oggetti, strumenti musicali, mi sembra tutt’altro che maniacale, tutt’altro che casuale, piuttosto un accumulo fatto per scelte studiate, filtrate. «Ma che meraviglia» mi viene da dire, perché questo primo grande locale sembra una Wunderkammer. «È qui che dipingi?». Pignatelli scuote la testa. «Di là, più in fondo. Ma soprattutto sotto». Infatti lo studio non finisce qui, anzi qui appena comincia. È un complesso che comprende i locali che furono di un’officina meccanica, di un rifugio antiaereo, e del laboratorio di un incisore che realizzava oggetti sacri per il Vaticano. Questa, mi verrebbe da dire, è la Versailles degli studi. Ogni vano è ampio quanto gli interi studi che ho visitato sin qui, e i locali si susseguono e si collegano con una planimetria complessa. Ogni grande ambiente porta in un nuovo grande ambiente e mentre giriamo ho la sensazione che se uscissi dalla porta da cui sono entrato, mi ritroverei in una stanza diversa. Appoggiati al muro, a cavalletto, appesi, ci sono smisurati dipinti su teloni ferroviari, lastre, tavole. Sono figure di statue e grattacieli, alcune costellate da una cascata di orologi, con un effetto che mi ricorda la neve di cui non ho ancora risolto il mistero. Certi teloni sono consumati, bucati. «Erano già così?» chiedo. «I buchi li ho fatti io» dice Pignatelli. «Ho martellato la tela per consumarla e non avere un bordo troppo netto. È un’idea nel solco di Burri, di Fontana, ma a me interessa creare punti di assorbimento di luce. Vedi?». Oltre i fori c’è del materiale nero, poroso. Sembrano passaggi verso un altrove, come in astrofisica si dice dei buchi neri. «Mi interessa l’incognita, l’indefinitezza, la coesistenza di oggetti appartenenti a epoche diverse. Mi interessa l’evoluzione continua che opera il tempo, dunque il concetto di non finito, di mai terminato. Ma adesso ti offro da bere». Perché parlando siamo passati attraverso un salone incantato dove dominano l’azzurro e il rosso e ci sono tappeti e divani, e siamo finiti in una cucina con un tavolo in legno infinito e Pignatelli ha aperto il frigo. Lo sguardo sarà anche ieratico, le sue parole complesse, lo studio una labirintica reggia di Versailles, ma è una persona che cerca di metterti a tuo agio. Nell’ora che passiamo insieme mi parla dei concetti e delle tecniche che sottendono le sue opere, ma anche dei paesi della Lomellina dove abbiamo radici comuni, della Costa Azzurra dove lui ha esposto al Mamac di Nizza e io vado in vacanza, della laurea in architettura non presa per scelta dopo aver passato l’ultimo esame, delle lezioni di musica jazz. E a proposito di improvvisazione ci siamo seduti, ha preso la tromba, ha suonato per me un pezzo all’impronta. Poi il giro riprende e scendiamo nei sotterranei, quelli dell’artigiano che lavorava per il Vaticano. Qui, di fronte a quello che mi piace pensare che sia un passaggio segreto (la porta di un armadio che si apre invece su un’altra sequenza di locali), il momento mi sembra propizio: «Luca, quelle macchie bianche sui tuoi quadri: da dove viene? È davvero neve?».
«Molto prima di trasferirmi qui, quando ero ancora in un altro studio, avevo ritrovato dei vecchi rullini. Ero curioso, chissà cosa c’era sopra. Li avevo fatti sviluppare. Erano degli scatti di vent’anni prima, io con degli amici, ma la pellicola col tempo si era deteriorata: sulle stampe c’erano delle macchie bianche, alcune grandi, altre piccole, che sembravano dare profondità, prospettiva. Mi erano piaciute moltissimo». Già: di nuovo l’effetto del tempo, del caso, le cose di ieri che oggi sono diventate diverse. E l’indefinitezza? C’è anche quella: perché ha cambiato discorso e dopo, andandomene, mi sono accorto che non l’ho mica capito se le macchie bianche sono neve oppure no.