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 2022  agosto 23 Martedì calendario

LA COREA DETTA LEGGE - A DIECI ANNI DALL'USCITA DEL VIDEO DI "GANGNAM STYLE" SU YOUTUBE, LA CULTURA COREANA HA CONQUSTATO IL MONDO - NON SOLO I BTS, IL FILM "PARASITE" E LA SERIE "SQUID GAME", LA "KOREAN WAVE" DOMINA ANCHE IL MONDO DELLA MODA, DEGLI INFLUENCER E ANCHE DEL CIBO - MA COME HA FATTO UN PAESE CHE FINO A POCHI DECENNI FA IL AVEVA UN REDDITO PRO CAPITE PIÙ BASSO DI HAITI, A DIVENTARE UNA POTENZA MONDIALE CHE COMANDA I GUSTI DELLE NUOVE GENERAZIONI? -

Quando si può dire che tutto sia iniziato? Probabilmente il 15 luglio del 2012. Quel giorno Park Jae-Sang, figlio trentenne di ricchi imprenditori di Seoul, carica su YouTube il video di una canzone del suo sesto album. Era noto alle autorità per la sua esuberanza, aveva una bella collezione di multe e censure per canzoni considerate sconvenienti se non proprio immorali. Si era dato un nome d'arte, Psy, da psycho, in quanto "pazzo per la musica". Nessuna multa gli è comunque arrivata per il video postato quel giorno, intitolato Gangnam Style.

Solo se avete passato gli ultimi dieci anni in una grotta nel deserto non sapete di cosa si tratta. Fenomeno virale, celebrazione trash irresistibile del distretto da dove viene Psy (a Gangnam negli ultimi quarant' anni il valore delle case è salito quindici volte più che nel resto di Seoul), il video ha spalancato un'era. Lo dicono bene i numeri.

Il 21 dicembre del 2012 tocca la cifra record di 1 miliardo di visualizzazioni, mai raggiunta prima. YouTube non aveva preso in considerazione la possibilità che un video superasse i 2 miliardi e 147 milioni di visualizzazioni, ma ecco che nella primavera del 2014 Gangnam Style polverizza anche quella soglia, costringendo il sito a modificare il software e portare il limite a nove milioni di miliardi.

Oggi in cima alla classifica non c'è più Psy ma, indovinate? Un altro video made in Corea, Baby Shark (2016), 11 miliardi di click per una canzoncina che insegna ai bimbi di Seoul a parlare in inglese. Sono cifre da capogiro, anche per una civiltà abituata alla globalizzazione. Ancora più vertiginoso è pensare che le genera un Paese che è quasi la metà dell'Italia, con poco più di 50 milioni di abitanti, che fino a pochi decenni fa aveva un reddito pro capite più basso di Haiti, e ora esporta auto, smartphone, tecnologia ma soprattutto k-pop, k-drama, k-film, k-fashion, k-food, k-beauty.

Possiamo dunque parlare di "coreanizzazione" della cultura pop contemporanea? Certo che sì. Non nella misura dell'americanizzazione della cultura di massa nel dopoguerra - non c'è un Alberto Sordi a sognare di fare il coreano con gli snack alle alghe o il bubble tea. Ma ci sono i suoi pronipoti, pronti a tutto per un gruppo come i Bts: i fan dei re del k-pop si fanno chiamare The Army e sono 90 milioni, provate a pensare quante potenze ci sono in giro con un esercito di 90 milioni di seguaci.

C'è un neologismo per tutto questo: hallyu. È un termine cinese che sta per "Korean Wave", l'irresistibile onda d'urto della cultura pop coreana divenuta in pochi anni una vera forma di soft power. «Già ci uccidono commercialmente, i coreani, poi vincono pure l'Oscar con un film inquietante», aveva commentato Donald Trump quando Parasite di Bong Joon-ho si era aggiudicato la statuetta, nel febbraio 2020, prima volta nella storia per un film non in inglese.

NEL BAGNO DI PARASITE Il prossimo 24 settembre, chi si avventurasse al Victoria & Albert Museum di Londra si troverebbe di fronte, ricreato nei minimi dettagli, il bagno della misera baracca di Parasite, quello dove i protagonisti si arrampicavano in cerca di campo per i cellulari. È uno dei pezzi forti di Hallyu! The Korean Wave, mostra evento che l'istituzione londinese lancia come la prima in occidente di questa portata (fino al 25 giugno 2023).

L'idea è di risalire alle origini del fenomeno immergendo il visitatore nella iper vitalità colorata e creativa del fattore "K"; dalle giacchette di Psy agli oggetti di scena di Squid Game, dal packaging delle maschere di bellezza che hanno invaso il mercato occidentale alla torre di 33 monitor tv creata nell'86 da Nam June Paik, pioniere coreano della videoarte, fino alla scultura alta tre metri di G-Dragon (uno degli idoli k-pop più amati dalla moda).

Se pensiamo a quanto sono importanti oggi le parole, per capire quanta hallyu c'è nelle nostre vite, basterebbe dire che lo scorso ottobre l'Oxford English Dictionary ha aggiunto 26 lemmi coreani. Alcuni sono ovvi (k-pop e via discorrendo), altri meno. Mukbang sono i video di gente che si ingozza di cibo coreano mentre interagisce con gli spettatori.

 Hanbok è l'abito tradizionale coreano, che stilisti contemporanei come Suh Younghee e Ji Won Choi hanno reimmaginato in chiave moderna, e li si vedrà nella mostra. La più interessante di tutte è forse skinship: indica il contatto fisico e l'intimità fra persone dello stesso sesso, molto comune nei gruppi k-pop; due ragazzi/e che si strusciano o si danno bacini non fanno necessariamente una coppia, anzi.

PROFESSIONE TOPLINER Per capire cosa rende speciale il k-pop ci siamo presi una guida inaspettata. Val Del Prete è arrivata a Londra da Roma qualche anno fa con una borsa di studio in neuroscienze, ma poi ha virato sulla musica e oggi è una topliner e vocal producer che scrive canzoni da dischi di platino per superstar k-pop come le Twice, gli Astro, The Boyz, le Aespa. «Il k-pop non è un genere musicale, è un fenomeno culturale», spiega Val.

 «Dietro a gruppi come Bts o le Blackpink, che tutti indicano come le nuove superstar globali, c'è un'industria che punta a sviluppare prodotti di intrattenimento musicale e visuale ad altissimi livelli, per una generazione abituata a vivere e socializzare online senza barriere di lingua, spazio, tempo, genere. Devono sfornare continuamente contenuti per tenere viva l'attenzione dei fan».

Un bombardamento, insomma: di coreografie, luci, colori, scenografie da videogame, canali video live, reality tv, balletti non stop - a guardare le band femminili è impressionante la similitudine con le esibizioni delle ragazze di Non è la Rai: Gianni Boncompagni aveva avuto l'occhio lungo.

 I gruppi sono quasi sempre maschili o femminili, rari quelli misti, affollati, fino anche a undici o dodici idol, ciascuno col suo ruolo: il rapper, il visual, la prima voce, il primo dancer, quello/a più fashionista, il cucciolo «Ai casting delle agenzie, e uso il termine agenzie perché SM o YG Entertainment sono molto più che case discografiche, si presentano in migliaia, ma solo pochi ce la fanno e per loro inizia un training tostissimo di due o tre anni prima del debutto. Vengono messi sotto contratto anche a dieci anni e allenati come atleti, per imparare a cantare, ballare, recitare, diventare performer di prima classe».

A scrivere i pezzi ci pensano professionisti come Val, «e devi fare i conti con l'impatto visuale. Queste sono canzoni multistrato pensate per performance di gruppo, è più simile a scrivere una partitura per orchestra con anche 50 o 70 parti vocali, che non a una ballata pop alla Ed Sheeran, ma è questo il suo bello». Al centro c'è il rapporto fortissimo che si crea fra gli idol e il loro fandom, alimentato da canali social che non riposano mai.

«I fan vedono letteralmente gli idol crescere con loro, ogni giorno, anche nelle piccole cose. In cambio, sono capaci di stare svegli tutta la notte per votare l'ultimo singolo e farlo schizzare in cima alle classifiche. Quelli dei Bts arrivarono ad affittare di tasca loro i tabelloni a Times Square a New York per il quinto compleanno del gruppo».

La posta in gioco è altissima da quando i Bts hanno sfondato il muro del mercato Usa con Dynamite, generando qualcosa di molto simile alla Beatlemania. E infatti ora tutti li vogliono: è fresca la pubblicazione di Bad Decisions, che mette insieme i sette ragazzi - RM, Jin, Suga, V, J-Hope, Jimin e Jungkook - con i rapper Benny Blanco e Snoop Dogg, quasi a smentire le voci di uno stop per la band, in corsa ormai da dodici anni.

Non sono un fenomeno nato a tavolino, i Bts hanno iniziato dal basso, scrivono da sé quasi tutte le canzoni che hanno temi anche complessi; il rapporto difficile col mondo adulto, le aspettative sociali, i rapporti personali, il disagio mentale. Le fragilità non vengono nascoste, anzi, spesso sono spunto per canzoni, come per serie tv.

Hwang, il protagonista di Stranger (su Netflix) che scopre un vaso di pandora di corruzione politica, ha subìto da piccolo un'operazione al cervello che lo ha reso incapace di esprimere le proprie emozioni. In It' s Ok Not To Be Ok si incrociano le vite di un bell'infermiere di ospedale psichiatrico, con fratello disabile a carico, e una scrittrice di libri per bambini dal guardaroba firmato Dior e Dolce e Gabbana, problematica e sociopatica. E la protagonista di Avvocata Woo, in testa alle classifiche Netflix, è autistica e geniale.

La forza di queste serie è nel non negare il disagio, ma raccontarlo con ironia, leggerezza, mescolando thriller e soap opera, fumetto e romance. Le serie giocano con tutto, c'è pure la versione coreana di La casa di carta. Vincenzo è la storia di un giovane coreano adottato da un mafioso italiano (!); Guardian porta nel presente le avventure di un goblin che deve trovarsi una sposa mortale; Crash Landing On You immagina la love story fra un'ereditiera della Corea del Sud che precipita col parapendio in Corea del Nord, e l'ufficiale nemico che la aiuta a nascondersi. Come nel cinema di Bong Joon-ho o di Park Chan-wook, la critica sociale e politica scorre nemmeno tanto sotto pelle.

Pachinko, prodotta da Apple TV prima del successo di Squid Game (di cui è in preparazione la seconda stagione), racconta la vita di una donna coreana attraverso il 20esimo secolo: le spinte a una modernizzazione metabolizzata troppo in fretta, le ferite aperte della colonizzazione giapponese (1910-1945), mentre i media registrano un aumento dei crimini di odio verso i coreani in Giappone, alimentati dall'estrema destra.

IL FUTURO IMPALPABILE Hallyu! The Korean Wave metterà in mostra anche i webtoons, graphic novel digitali che si scrollano verticalmente, pensati per gli smartphone e popolarissimi in Corea, negli anni fonti di idee e storie per cinema e serie tv. Il successo del k-pop non lo aveva previsto nessuno, ma ora è una strategia, con lo Stato in prima linea a finanziare e sostenere quello che Soo-Man Lee, fondatore della SM Entertainment, sintetizza con efficacia: «Culture first, economy next».

 Il futuro per lui sono le Aespa, gruppo che combina quattro performer reali con avatar digitali, già pronte per il metaverso. Con buona pace di chi, al loro debutto, ha lanciato l'allarme per la «deumanizzazione» del k-pop. Q È cominciato tutto con gangnam style. E poi sono arrivate le serie, i film, la moda, il cibo, i cosmetici. Ma come ha fatto un paese così piccolo a diventare tanto grande? La risposta in una mostra a Londra. e qui.