il Giornale, 23 agosto 2022
Scende a 29,9 anni l’età in cui si va via di casa
«Tutti i nostri amici si lamentano perché i figli crescono, vanno via di casa e non tornano più a trovarli. Perché a noi non capita mai questa fortuna?». Era il padre di Julia Roberts nel film Qualcosa di cui sparlare che si dannava con la moglie: una figlia non era mai uscita di casa, l’altra, tradita dal marito (Julia, appunto) ci era appena ritornata. Ma potrebbe essere lo sfogo di qualsiasi padre italiano. Anche se è vero che i dati Eurostat usciti ieri ci certificano meno bamboccioni dello zero-virgola-uno per cento rispetto alle nostre consuete abitutdini, è pur vero che rispetto ad altri Paesi ci collochiamo malissimo. Rispetto a svedesi e finlandesi poi, ci sarebbe d’andare a nascondersi. Quelli svezzano i figli licenziando la balia. Il tempo di nascere e praticamente sono già fuori casa: tra i diciannove e i ventuno anni salutano mamma e papà. Quattro scatoloni, due librerie Billy, niente tende e nessuno li vede più. L’età in cui un italiano/a abbandona il tetto domestico è passato dai trent’anni ai ventinove-virgola-nove. Olè! Però in compenso, adesso, da noi, fa la sua corsa al galoppo un altro sconcertante fenomeno, quello dei Neet cioè quello dei giovani che non fanno un tubo: non studiano e non lavorano. Un po’ come il pinguino del figlio del camorrista detenuto nella torrida Castrovizzo, che si vedeva nel film di Checco Zalone. C’è poco da ridere: l’ultimo dato Eurostat, riferito al 2020, colloca l’Italia nella posizione peggiore in Europa, con un’incidenza di giovani che non studiano e non lavorano tra i 20 e i 34 anni, superiore di circa il 12% rispetto alla media europea (29,4% contro 17,6%).
Perciò meno 0,1 di bamboccioni, molti più Neet. Va bene, per consolarsi c’è sempre la vilissima abitudine di guardare a chi sta peggio, e chi sta peggio c’è sempre. Nello specifico, escono di casa più tardi dei nostri i figli dei greci, dei bulgari, degli slovacchi, dei portoghesi e dei croati.
Ma è con i nostri che dobbiamo fare i conti. E va bene la crisi, il Covid, la guerra, il mercato del lavoro, va bene che in Italia ormai va in pensione solo chi ha capito come andarci, va bene tutto. Ma è diventato davvero difficile capire cosa serva che facciamo per i giovani e per attrezzarli alla vita. Se da un lato viene in mente la fortunatissima raccomandazione che il padre di Larry Niven gli fece il giorno del suo ventunesimo compleanno «Figliolo, questo è un milione di dollari. Non perderlo»; dall’altro fa riflettere anche ciò che dichiarò una volta Kirk Douglas: «I miei figli non hanno mai avuto i vantaggi che ho avuto io. Io sono nato povero». Al momento c’è poco da fare. Ma anche qualora ci fosse l’impagabile possibilità di scegliere, il dilemma resterebbe. Aiutarli e sostenerli e farli stare al caldo finché la vita ce lo consente, tarpando però qualsiasi senso di urgenza e autodeterminazione; o invece mandarli nella realtà nudi, come un battessimo con acqua ghiacciata, e sperare che si temprino nello shock?
Sempre per tornare ai dati, si sa che, negli anni, finora, la situazione italiana è sempre peggiorata: se nel 1983 i diciotto-trentaquattrenni che vivevano in famiglia erano il 49 per cento, nel 2000 sono arrivati a essere il 60,2 per cento, per attestarsi al 58,6 per cento del 2009. Secondo i dati dell’ultimo rapporto Istat, oggi i ragazzi che vivono in casa con i genitori sono sette milioni: il 67,6 per cento. Speriamo tanto di poterci aggrappare a questo zero virgola in controtendenza. Ma ci pare che per come la realtà si sta apparecchiando (scuola, nuovi miti internet, educazione media...) le speranze crollino fragoroso tonfo. Temiamo che la tentazione sia quella di restare a casa di mamma e papà aspettando di diventare milionari in un giorno. Magari con un clic. Allora, ai genitori, resterà il faro di un’altra citazione: «Voglio che i miei figli abbiano tutto quello che non ho mai avuto poi voglio traslocare nella loro casa».