Corriere della Sera, 23 agosto 2022
Intervista a Yeman Crippa dopo l’oro europeo
Al collo, la medaglia d’oro nei 10 mila all’Europeo. In tasca, la tessera del club riservato ai grandi mezzofondisti azzurri della storia (Cova, Mei, Antibo). Un piatto di pomodori e mozzarella, più il lusso di una birra («Fuori gara me ne posso concedere due alla settimana, non sempre rispetto la regola ma la media è quella»). La fidanzata Sofia, con cui convive in collina a Trento, al fianco. Nella notte del trionfo, Yeman Crippa è un italiano felice.
La sua storia di orfano etiope adottato da una coppia italiana con cinque fratelli e i cugini per vivere sulle montagne del trentino è tutto fuorché banale, Yeman. In che modo il suo passato corre in pista con lei?
«Ho avuto una storia particolare, è vero. Mi sento tanto fortunato di essere potuto venire in Italia e di aver scoperto che c’è un’altra vita. Mi è stato dato un futuro diverso, migliore. È questo il motivo per cui questo oro che ho aspettato a lungo lo dedico a me».
Una finale dominata.
«Ho impostato la gara sui cambi di ritmo: quando non sono in condizione li pago nel finale. Ma qui a Monaco stavo benissimo, avevo rinunciato al Mondiale in Oregon per l’Europeo: una scelta non facile, però alla fine azzeccata. Avevo capito dal bronzo nei 5 mila che stavo bene, che riuscivo a fare cose belle, quindi nei 10 mila sono riuscito a gestirmi. Ho visto il norvegese andarsene, mi devo tirare le orecchie per aver guardato troppo il francese, ho rischiato di perdere l’attimo, ma le gambe c’erano: mi sono gasato, e per rimontare è bastato il minimo sforzo».
E poi ha mostrato alla telecamera i muscoli, come Marcell Jacobs.
«Ma io ne ho molti meno! Però nel gesto di mostrare i muscoli c’è potenza, volevo far vedere la mia e tirare fuori tutta l’emozione che avevo dentro. Subito dopo il traguardo ho fatto anche il gesto dell’esultanza di CR7...».
Però lei è interista.
«Mio papà Roberto mi ha obbligato da piccolo a tifare Inter: in Trentino andavamo al bar a vedere le partite e quando l’Inter perdeva mi mettevo a piangere… che stupido! Sono un tifoso di calcio anche perché ho giocato: centrocampista centrale, mi hanno provato anche terzino ma correvo dappertutto a recuperare palloni. Perdevamo 11-0 e correvo solo io! Ho amato Stankovic e Eto’o: nelle prime garette di corsa, se vincevo, dopo il traguardo facevo la “sparata” come Dejan».
Questo oro tanto atteso ha avuto il sapore dolce che si immaginava?
«È più bello di come me lo sognavo: sapevo dall’inizio che, se il norvegese fosse andato via, sarei andato a riprenderlo. Ma finché non raggiungerò i migliori al mondo non sarò soddisfatto. Ora mi guardo bene questa medaglia, poi con il mio allenatore Massimo Pegoretti cercheremo di capire come raggiungere i rivali che ho davanti. Ho vinto in Europa, ma il Mondiale e l’Olimpiade sono ben altro».
Per come è fatto, Yeman, riuscirà ad assaporare questa vittoria o pensa già alla prossima gara?
«Non sempre riesco a godermi le cose belle: nella vita me ne sono successe di brutte ma anche di bellissime. Non mi sento mai il migliore, non mi sento mai appagato».
Quando incide la sua storia in salita in questa sensazione di insoddisfazione?
«Mi sento fortunato a essere stato adottato: questa, in fondo, è la mia seconda vita. In Etiopia mi aspettava un’esistenza misera, in orfanotrofio, non avevo idea di come sarebbe andata a finire. I miei genitori adottivi mi hanno dato una possibilità: una vita normale, un tetto, la scuola, l’atletica. Sono arrivato in Italia da Dessiè, 400 km da Addis Abeba, un piccolo villaggio. Sono partito dal nulla. Avere dei vestiti e dei libri di scuola in Trentino era già tantissimo. I miei compagni avevano tutto, abiti di marca e giocattoli di cartoleria. Io non ho mai avuto né giochi né vestiti comprati, mai posseduto cose materiali. Io e i miei fratelli ci siamo sempre dovuti meritare tutto, ma va bene così. Ho imparato a soffrire, a sacrificarmi, a lavorare con determinazione per un risultato».
Ricorda i suoi genitori biologici, scomparsi quando lei aveva 5 anni?
«Ho qualche ricordo. Brutto. Se ne sono andati tutti e due per una malattia infettiva. Ma i bambini in Africa sono per forza molto avanti: crescono per strada, fanno e capiscono cose che un bambino italiano non farebbe e non capirebbe mai. Chi lascia un bambino per strada, in Italia? In Etiopia è la normalità. Io sono cresciuto così».
È mai tornato a Dessiè?
«Più volte. La prima ero stracarico di emozioni. Non vedevo l’ora di tornare dove giocavo a nascondino con gli amici, di rivedere casa, il luogo dove sono venuto al mondo. Una volta lì, però, non ho più sentito la scintilla. Il posto mi sembrava minuscolo, le emozioni sono svanite. Le due sorelle che per prime mi hanno raggiunto in Italia l’hanno vissuta come me, i miei fratelli invece no: al ritorno in Etiopia si sono commossi».
Ha nominato Jacobs. Cosa ha pensato quando ha visto Jacobs e Tamberi conquistare l’oro olimpico nello sprint e nell’alto, l’anno scorso a Tokyo, a dieci minuti l’uno dall’altro?
«In Giappone all’Olimpiade c’ero anch’io, ma a marzo ero stato fermo un mese per infortunio e ai Giochi, benché pensassi di essere allenato, ho scoperto di non essere in condizione. A Tokyo non ero io. Il mio obiettivo è diventare come Marcell e Gimbo, ci accomuna la voglia di fare vedere al mondo chi siamo. Le loro medaglie olimpiche hanno fatto scattare a tutti gli azzurri la voglia di pensare in grande. È stato proprio un salto mentale che ha cambiato l’Italia dell’atletica. All’Europeo di Berlino 2018 avevamo vinto 6 medaglie; qui 11, di cui tre d’oro».
La Torre, il d.t. della Nazionale, vorrebbe farle fare la transizione dal mezzofondo in pista alla maratona in strada. È pronto?
«Prontissimo, anche se so già che la pista mi mancherà... Io vorrei sperimentarmi su una maratona già la primavera prossima, ma le cose bisogna farle bene, vanno programmate e organizzate. La strada mi piace, le distanze lunghe anche: voglio proprio sbatterci il muso».
E quando si ritroverà fianco a fianco dei fortissimi africani, che pensieri le frulleranno per la testa?
«Già li incontro nelle call room delle gare internazionali, e mi chiedo: ma cosa avrà lui più di me? In quali modi si sarà allenato meglio? Il keniano Kipkoge, per dire, è un’icona: non dubita mai di sé, ogni maratona la vince. Con gli africani ci parlo un po’ in amarico e un po’ in inglese. Però, Kipkoge a parte, loro spesso vanno allo sbaraglio, senza ragionare: si buttano in gara e come va, va. La loro forza è l’incoscienza. Mi hanno invitato tante volte ad allenarmi in Kenya. Prima o poi, magari, ci vado».
Intanto ci è andato in vacanza.
«L’anno scorso, con Sofia. Safari e poi mare».
(interviene Sofia: «Oddio, mare… Io nuotavo, a lui ho allacciato il salvagente!»).
Programmi, ora?
«Una gara a Feltre e i 5 mila al meeting di Rovereto, dove proverò a scendere sotto i 13’. Poi, finalmente, vacanza con Sofia. Formentera, Maiorca o Minorca. Oppure Africa, in Madagascar. In ogni caso, relax. In vacanza non corro».