Corriere della Sera, 23 agosto 2022
In morte di Franco Rositi, sociologo dei mass media
Franco Rositi, professore emerito di Sociologia nell’Università di Pavia scomparso sabato scorso all’età di 84 anni, è stato uno dei padri nobili della sociologia italiana. Come tanti della sua generazione, l’incontro con l’«officina sociologica» avvenne a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, sulla scia della crescente mobilitazione politico-ideologica di quel periodo.
Rositi era entrato nell’orbita delle correnti catto-comuniste guidate da Franco Rodano e Claudio Napoleoni. Lo reclutò alla sociologia Francesco Alberoni, che gli offrì un posto di ricercatore all’Istituto Gemelli-Musatti. Iniziò poi la carriera accademica a Milano, poi Bari e Torino e infine Pavia, dove insegnò Teoria sociologica a partire dal 1990.
Sin dagli esordi, i suoi interessi si concentrarono nell’ambito della sociologia della cultura. Scrisse il suo primo libro con Giorgio Galli (Cultura di massa e comportamento collettivo, il Mulino, 1967) e curò poi tre importanti volumi su Razionalità sociale e tecnologie dell’informazione, con saggi dei più importanti sociologi italiani e stranieri del tempo (Edizioni di Comunità, 1973). Fece importanti ricerche sulla comunicazione e l’opinione pubblica (I modi dell’argomentazione e l’opinione pubblica, Eri, 1982) e sull’industria culturale (La ricerca sull’industria culturale, Nuova Italia Scientifica, 1992). La sua ultima produzione s’indirizzo verso temi più generali, come in Sulle virtù pubbliche (Bollati Boringhieri, 2001), I valori e le regole (Liguori, 2014) e Sociologia (Egea, 2015).
Rositi fu un instancabile organizzatore di iniziative editoriali e profuse un impegno straordinario nella promozione di istituzioni accademiche di eccellenza. Fu l’ispiratore del nuovo Istituto universitario superiore presso l’Università di Pavia, che venne parificato nel 2005 alla Scuola Normale di Pisa. Era fermamente convinto che l’Università italiana dovesse prevedere un «binario» dedicato alla ricerca e all’istruzione di eccellenza: una sfida che in parte resta ancora inevasa.
A Pavia fui collega di Franco Rositi fino al 2004, quando mi trasferii all’Università di Milano. I nostri contatti erano ripresi negli ultimi anni. Ci accomunavano gli interessi per Max Weber, per il tema delle ideologie, per la crisi della democrazia.
In una delle sue ultime mail, commentò un mio editoriale sul «Corriere della Sera» dedicato alla «recessione democratica». «I rischi di cui parli – mi scrisse – sono soprattutto quelli derivanti da determinati orientamenti della popolazione (compresi i gruppi dirigenti). Io penso che alla base di certi orientamenti ci siano ragioni strutturali determinanti... L’ordinamento dominante (norme + giustificazioni) nella nostra società favorisce sistematicamente la fuga dal pensiero complesso, quindi innanzitutto dal pensiero politico (o dalla ragione politica). La complessità reale stimola la ricerca del semplice, quasi indipendentemente dal livello di istruzione. Ovviamente il problema può presentarsi in misura maggiore o minore, ma si sbaglierebbe a non vederne le radici strutturali».
In uno scambio successivo, convenimmo che fra queste radici bisognava includere anche la de-strutturazione delle grandi cornici ideologiche novecentesche, della loro capacità di fornire senso e guida all’azione.
Franco stava lavorando sul concetto di «consenso irragionevole», una nuova forma effimera di condivisione su fatti e valori privi di fondazione. Certamente, la campagna elettorale in atto gli avrebbe fornito molti spunti per approfondire il suo pensiero. Quello di un grande intellettuale, animato dalla weberiana Beruf: un impegno profondo a cercare conoscenza e a riflettere sui valori.