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 2022  agosto 22 Lunedì calendario

Biografia di Giuliana De Sio raccontata da lei stessa

«L’anagramma del mio nome è: delusa in gioia. E io sono delusa, perché nella vita ho sempre sperato che arrivasse qualcuno a salvarmi... ancora non è arrivato, ma sono convinta che, prima o poi, qualcuno arriverà». 
Giuliana De Sio, nata a Salerno, pur definendosi una «svizzera napoletana» per il suo carattere combattivo, non nasconde le sue fragilità. Attrice di cinema, teatro, televisione, ha lavorato con i più grandi attori ed è stata diretta dai più grandi registi, ma ha cominciato per caso. 
«Ero giovanissima, una diciottenne in fuga da casa – racconta —. Appena finito il liceo a Cava de’ Tirreni, dove vivevo con la mia famiglia, arrivai a Roma. Cominciai a frequentare comunità hippy e amici che lavoravano nell’ambiente dello spettacolo. Conobbi Alessandro Haber, che avevo visto recitare in teatro e mi aveva colpito come attore, ma lui prese a corteggiarmi in maniera spietata... cedo alla sua corte. Non avevo mai pensato di fare il suo mestiere, fu lui che, essendo convinto di aver intravisto in me qualcosa di giusto per lo schermo, prima mi scatta una serie di foto sul terrazzino di casa, poi mi prese per la collottola e mi portò da un agente cinematografico. La mia faccia fa il giro di ben tre produzioni, mi propongono di fare tre provini, li supero tutti e tre. Non sapevo cosa scegliere, ma scelsi bene: il personaggio di Sibilla Aleramo nello sceneggiato “Una donna” nel 1977. In pratica, da assoluta principiante, mi ritrovavo in un ruolo da protagonista... un inizio folgorante». 
E Haber fu contento, naturalmente... 
«Sì, all’inizio, ma poi siccome cominciarono a propormi tanti altri progetti, e a lui no, cominciò a esserne geloso... Alessandro stesso lo ha raccontato in varie interviste, ovviamente ridendoci sopra...». 
Perché era scappata di casa così giovane? 
«Una famiglia difficile. Mio padre, avvocato, se ne andò di casa molto presto, quando mia sorella Teresa ed io eravamo bambine. Mia madre, laureata in medicina, senza aver mai praticato la professione, cominciò a bere. Era una donna infelice, una delle più infelici che abbia mai conosciuto. Difficile stare vicino a una persona alcolizzata, che oltretutto è tua madre. La mattina, fino a una certa ora, era ancora lucida, e mi pareva di intravedere in lei una mamma come tante altre, diciamo normale. Poi iniziava a bere birra, diventava aggressiva, sgradevole, solitaria, chiusa in sé stessa, e non era più mia madre. Io facevo uno slalom, tra i suoi momenti di lucidità e quelli in cui era fuori di testa, per instaurare un possibile rapporto con lei. Il bello e il brutto, li affrontava bevendo. Quando me ne andai via, ne soffrì molto, ma non avevo altra scelta, non vedevo l’ora di abbandonare tutta quella pesantezza, e mi sono salvata». 
Si è salvata grazie al suo carattere, che da alcuni è stato definito indomabile, persino terribile? 
«Dicono che da giovane fossi antipatica, forse lo ero, perché dovevo muovermi in un mondo, quello dello spettacolo, che non conoscevo. Ero stata catapultata in mezzo a produttori, registi e attori famosi, fotografi, giornalisti... ed è probabile che all’inizio dovessi difendermi, capire come comportarmi. Poi sono stata aiutata da una trentina d’anni in analisi: ho vissuto dei transfer furibondi con i miei analisti, ma evidentemente sono serviti a qualcosa. Non so come sarei diventata se non mi fossi sdraiata sul lettino dello psicoanalista». 
Il padre assente l’ha poi spinta a innamorarsi di uomini molto più grandi di lei, per esempio Elio Petri? 
«Ho sempre cercato negli uomini delle forti personalità e che contenessero tanti elementi importanti e, naturalmente, per avere tanti contenuti bisogna essere in là con gli anni. Elio era un intellettuale a tutto tondo: sapeva tutto ed era anche molto spiritoso, poi era dotato di un fascino irresistibile». 
Mario Monicelli, invece, si spacciava per suo padre? 
«Sì – ride —. Con lui nessuna storia amorosa, solo un grande affetto, da padre a figlia. Mentre andavamo in giro a presentare il nostro film “Speriamo che sia femmina”, la gente riconosceva me, in quanto attrice nota, ma lui come regista non lo riconoscevano e allora mi chiedevano: è suo padre? Rispondeva Mario dicendo di sì, raccontando oltretutto episodi inventati della mia infanzia». 
Tra gli uomini di fascino, Giorgio Strehler, con cui debuttò al Piccolo di Milano. 
«Mi chiamò lui, perché ero già conosciuta nel cinema. I colleghi mi sconsigliavano di accettare la proposta, affermando che mi avrebbe strapazzato, maltrattato, perché era un regista terribile con gli attori. Io accettai, proprio per essere macellata dal grande maestro del teatro, per sentirmi dire “fai schifo”, sarebbe stato uno sprint a fare meglio... Invece, è successo tutto il contrario: con discrezione ed eleganza, mi corteggiava. Corrispondevo al suo tipo di donna, anche per i miei capelli rossi, e durante le prove, mi lasciava ogni giorno una lettera in camerino, con bellissime parole di apprezzamento. Mi sono sentita amata, guidata e deresponsabilizzata: pensava a tutto lui e mi accompagnò con cura nel personaggio della prostituta tossica che dovevo interpretare». 
Corteggiata anche da Massimo Troisi? 
«Assolutamente no! Solo una grande amicizia. Lo adoravo come uomo e come eccezionale protagonista. Oltre a essere colto, poetico, aveva sempre la battuta pronta, originale, senza essere mai retorico... e appena conosciuto feci una gaffe pazzesca..». 
Quale? 
«Eravamo a Napoli, proprio per parlare con la troupe del film che dovevamo iniziare a girare, “Scusate il ritardo”. Ci trovavamo in riunione nella hall dell’albergo e io comincio a sentire un ticchettio, quindi chiedo: c’è qualcuno di voi che ha una sveglia in tasca? Massimo sbottona la camicia, mi fa vedere una cicatrice che attraversava tutto lo sterno... aveva una valvola al cuore. Un’assurda figuraccia, non sapevo come rimediare, ma lui ci scherzò sopra per sdrammatizzare. Però il problema di quel film fu poi un altro. Elio era malato, durante le riprese si aggravò e morì: durante tutta la lavorazione, recitavo e piangevo, recitavo e piangevo. Uno strazio infinito. Il giorno del funerale, il produttore volle portarmi comunque sul set, ma quando Massimo mi vide, mi rimandò indietro dicendo: come può recitare cumbinata in chilla maniera?.. e il set venne sospeso per qualche giorno». 
Non solo uomini molto più grandi di lei, ma ha fatto innamorare anche un ragazzino: Carlo Calenda. 
«Proprio così... Nello sceneggiato tratto dal libro “Cuore”, con la regia di Luigi Comencini, impersonavo la maestrina dalla penna rossa e Carlo era il mio scolaro prediletto. In una scena gli detti due bacetti sulle guance, che non si aspettava: divenne tutto rosso, tremava tutto, si era innamorato di me!... Non mi accorsi del suo turbamento, lo scoprii molti anni dopo, quando proprio lui raccontò l’episodio in un’intervista televisiva». 
Lei ha recitato con i protagonisti della storia del grande e piccolo schermo. Con chi si è trovata meglio? 
«Piuttosto racconto con chi mi sono arrabbiata come una bestia: Michele Placido. Eravamo a Mosca per presentare “La piovra”. Era gennaio e avevamo appuntamento con il fotografo sulla piazza Rossa per un inedito servizio fotografico. Michele è noto per la sua non puntualità. Non so quanto tempo io l’abbia aspettato in quel gelo notturno, ero diventata un pupazzo di neve... e quando tornai in Italia, finii a letto con 40 di febbre». 
Allora meglio la temperatura mite del Marocco, dove ha girato il suo nuovo film che uscirà prossimo anno... 
«Certo, molto meglio, pur facendo un ruolo non facile. Si intitola “Raqmar”, è diretto da Aurelio Grimaldi, e impersono un’imprenditrice che in Marocco recluta ragazzetti da portare in Italia per farli diventare dei prostituti di lusso destinati a viziosi anziani ricchi. Inoltre sono in tournée teatrale con lo spettacolo “Favolosa”, dove recito e canto tre favole di Giambattista Basile, “La gatta cenerentola”, “La scortecata” e “La femmina e il diavolo”». 
Con sua sorella, cantautrice e scrittrice, non ha mai pensato a realizzare progetti comuni? 
«Teresa è dotata di una fantastica creatività, che io non ho e che le invidio: compone musica, scrive libri, ora fa anche la stilista... Facciamo cose molto diverse, difficili da conciliare, siamo all’opposto caratterialmente, fisicamente e abbiamo vissuto avventure diverse». 
La sua avventura più difficile? 
«Affrontare il Covid. Era il febbraio 2020, inizio pandemia, non ancora vaccinata, sono stata contagiata probabilmente perché giravo con la compagnia nei teatri di tutta Italia. Un’esperienza traumatica, distopica. Sono finita con urgenza allo Spallanzani, chiusa in una stanza, una cella, senza capire cosa mi stesse accadendo, né sapere cosa succedeva fuori, perché nessuno poteva venire a trovarmi. Poi in camera arriva un televisore, vedo la tragedia, le file di bare, e ho capito che di quella cosa potevo morire. Nella mia vita sono sopravvissuta a tante cose, pure stavolta ce l’ho fatta... devo avere una buona fibra».