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 2022  agosto 22 Lunedì calendario

Sulla morte di Jacques Derrida

«Jacques, mio padre (io c’ero, e, confrontando con il testo che vedete qui sopra, se siete bravi in crittografia, "mio padre" non c’era, lo ha aggiunto lui a voce) non ha voluto né rito né orazione. Sa per esperienza che prova sia per l’amico che se ne fa carico. Mi chiede di ringraziarvi di essere venuti, di benedirvi, vi supplica di non essere tristi, di pensare solo a tanti momenti felici che gli avete concesso di condividere. Sorridetemi, dice, come vi avrei sorriso fino alla fine. Preferite sempre la vita e affermate incessantemente la sopravvivenza… Vi amo e vi sorrido, da dovunque io sia».
A leggere queste parole - scritte, si noti bene, tra virgolette, perché fosse chiaro che era una citazione - il 12 ottobre 2004 nel cimitero di Ris-Orangis, è Pierre, il figlio maggiore di Derrida: e non era un bambino, era professore e aveva 41 anni. A scriverle è stato Derrida, che riusciva a dire l’ultima parola anche dopo la morte, come nel passo di Poe che nel 1967 aveva posto in esergo a La voce e il fenomeno: «Sì; no; ho dormito, e adesso, adesso... sono morto».
Non si può dire che non si fosse preparato. Due mesi prima di morire, ad agosto, aveva rilasciato una bellissima intervista a Le Monde, poi ripubblicata in un volumetto, Apprendre à vivre enfin, dove si concentrava sul paradosso dell’imparare a vivere con cui ci stiamo confrontando. E sosteneva che no, non si può imparare a vivere. Ci vuole un bel coraggio, una bella sincerità, per un filosofo che a torto era considerato un sofista e un fumista: cosa gli sarebbe costato atteggiarsi a saggio stoico incurante della morte? Tanto, gli restava poco da vivere, avrebbe fatto un figurone e non sarebbe cambiato niente. Invece disse: «No, non ho mai imparato a vivere. Proprio per niente! Imparare a vivere dovrebbe significare imparare a morire, a farsi carico, per accettarla, della mortalità assoluta (senza salvezza, né resurrezione, né redenzione) - né per sé né per l’altro. Da Platone in avanti, è la vecchia ingiunzione filosofica: filosofare, è imparare a morire. Credo a questa verità senza arrendermici. Sempre meno. Non ho imparato ad accettarla, la morte». L’ora è fuggita e muoio disperato? No, per due ottimi motivi.
Primo, non si impara e non si insegna a vivere, ma ci possono essere delle imitazioni molto buone, delle mimesi che hanno il profumo (ma solo quello) dell’eternità. Vivere, così, significa ripetere, seguire un percorso o un dettato, una traccia o una falsariga. Come si può ereditare dai genitori un modo di vivere, così si può ereditarne un modo di morire (la "familiarità" di cui parlano un po’ sinistramente i medici). Nietzsche era bambino quando morì suo padre, e racconta di aver solo vaghi ricordi dell’evento (pianti, lutto, visite dei vicini e dei parrocchiani…) però a un certo punto ha degli abbassamenti di vista, vomito, mal di testa, e si dice: «morirò come mio padre», dello stesso male e alla stessa età. A lui è andata meglio, sopravvivrà, per una dozzina d’anni nel pieno dei suoi spiriti e poi ancora per un decennio demente e immemore.
Derrida invece ha ripercorso con esattezza le orme del padre, morto alla sua stessa età e dello stesso male, un tumore al pancreas: si era scritto la propria orazione funebre.
Non so poi chi l’abbia letta, in quella circostanza, ma è interessante questa pratica della sopravvivenza attraverso le lettere, in tutti i sensi, che appare confortante. Non si impara a vivere, insomma, ma, volendo, ci si prepara a sopravvivere - ecco il secondo motivo di conforto - ci si addestra alla sopravvivenza a cui fa riferimento nella lettera che si era scritto in uno scenario favoloso: lui che li guarda e sorride, da dovunque egli sia (da una nuvoletta? Perché no), e loro che piangono, benché lui gli abbia raccomandato di ridere (vorrei vedere se lo avessero fatto…). E Derrida, in fatto di sopravvivenza attraverso le lettere, era un professionista, essendosi occupato per tutta la vita del miracolo tecnologico per cui se qualcuno capitasse per caso su queste righe tra diecimila anni avrebbe un po’ della mia vita. E, detto fra noi, è questa è la convinzione che mi ha sempre spinto a scrivere. Gli istanti passano, per definizione, ma se in quegli istanti si scrive, non tutto va perduto.
I corpi lottano tanto o poco per non morire, ma alla fine soccombono, e in quel preciso istante l’anima scompare, non c’è più, perché l’anima era proprio la forza che risultava dalla vitalità del corpo. C’è poco da illudersi, una volta che il corpo ha finito di vivere anche l’anima se ne va, pensare a un fumo, a un soffio, a una farfalla che si allontana è pura superstizione.
Lo confermano anche le religioni che predicano la resurrezione, come il cristianesimo, che infatti parla di resurrezione della carne, senza la quale la resurrezione dello spirito non avrebbe senso, oltre a creare una grande confusione nell’Aldilà: «lo vedi quel fumo? È lo zio Pino». «E la farfalla?», «è Fernanda, l’amica della mamma», il tutto sussurrato da un soffio che, sperabilmente, ma non ci sono prove, è tuo fratello, che a sua volta spera di rivolgersi a te e non all’anima di un perfetto sconosciuto.
Questo riguarda il vivere e il morire, il corpo e l’anima. Ma, per fortuna, e questa era la grande speranza di Derrida così come di ogni scrittore o scrivente, c’è l’automa, e la possibilità della sopravvivenza tecnica, che come tutto ciò che è tecnico possiede qualcosa di miracoloso, anche se non di abbastanza miracoloso, dal momento che Derrida confidò al suo amico Jean-Luc Nancy, prima di morire, di preferire di gran lunga la resurrezione classica, con carte e tutto.
La sopravvivenza è il piano B. Perché l’anima ha solo due posizioni, acceso o spento. E quando è spenta lo è per sempre, dopo aver dettato legge (urgenze, bisogni, desideri, voleri e disvoleri) per tutta la vita. Ma l’automa, che sia un pezzo di carta leggibile da un altro o un messaggio registrato, come le ultime telefonate di quelli che si buttavano dalle Twin Towers o il pilota che dice «Mayday, Mayday, Mayday» mentre l’aereo scompare dai radar, può ripetere indefinitamente.
«Tout casse, tout passe, tout lasse, il n’est rien, et tout se remplace». Questa può apparire come una sentenza cinica o malinconica, ma è il senso di ogni esperienza umana. Succede proprio così, per Frédéric Moreau che perde ogni interesse per Madame Arnoux, per tutti e due che alla fine moriranno (e se non muoiono è solo perché si tratta di entità fittizie), e per ogni singolo componente dell’universo, destinato alla morte termica.
Lungi da me pensare, d’altra parte, che anche gli apparati tecnici siano eterni, ho visto troppe lampadine fulminarsi per farmi illusioni in proposito. Ma la tecnica, a cominciare da quella tecnica delle tecniche che è la scrittura, permette di integrare l’on/off secco dell’anima con una sequenza più o meno lunga di on/off, on/off, on/off. L’automa, così, assicura una sopravvivenza fantasmatica all’anima, e permette ad altre anime di imparare a morire assistendo alla morte degli altri o leggendone, come fate in questo momento, dunque di imparare a vivere (non avete perso il vostro tempo, o almeno spero).