La Stampa, 22 agosto 2022
La terza vita di Luigi de Magistris
Richiesto di un chiarimento sui fondamentali ideologici dell’Unione Popolare, il cartello di estrema sinistra che ha fondato con Luigi de Magistris, il segretario di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo se la cava così: «Io sono un marxista. Luigi è uno di quelli che David Harvey, tra i massimi studiosi del marxismo, chiama comunisti di fatto».
Tanti hanno cercato di liquidarlo. Invece de Magistris, da quindici anni sulla cresta di un’onda politico-mediatica, surferà anche il 25 settembre. Il suo nome comparirà sulle schede in tutta Italia, all’interno del simbolo dell’Unione Popolare che ha messo in piedi con i vecchi compagni di Rifondazione e con i nuovi di Potere al Popolo. Ha raccolto 100 mila firme in due settimane. Pochi ci scommettevano, commettendo un errore che in tanti hanno fatto: sottovalutare de Magistris. Che ha mille difetti, per lo più incorreggibili, ma non difetta di resistenza, anche fisica. Gira l’Italia dormendo due ore a notte.
Classe 1967, figlio nipote e pronipote di alti magistrati, borghese del Vomero, da ragazzo studente modello a differenza del più bohémien fratello Claudio, che dopo una trentina d’anni sarà suo consigliere politico al Comune, non senza imbarazzi per il lavoro di organizzatore di grandi eventi cittadini. Entra in magistratura come da copione familiare. Ne esce dopo 15 anni, sanzionato e trasferito dal Csm dopo inchieste calabresi a dir poco controverse su malaffare politico-massonico.
La Casaleggio Associati ne veicola la candidatura alle Europee del 2009 come indipendente nella lista dell’Italia dei Valori di Tonino Di Pietro, che pure in privato non lesina epiteti coloriti. Con Beppe Grillo finisce presto a reciproci vaffa perché rifiuta il controllo preventivo sul suo blog.
L’elezione è plebiscitaria: 415.646 preferenze. Ma la grama vita brussellese lo annoia anzichenò. «E se mi candidassi sindaco di Napoli?», butta lì ai suoi assistenti a fine cena in un’uggiosa serata. I commensali si guardano increduli. «E con chi, Luigi?». «Da solo».
Sì, vabbè. Da solo.
Sei mesi dopo è sindaco di Napoli. Se non da solo, quasi: a sostenerlo solo Rifondazione e Italia dei Valori, quotate dagli esperti il 3 per cento. Festeggia in una gremita piazza Plebiscito. Descamisado con bandana arancione, inneggia alla rivoluzione del popolo dei senza potere di cui s’intesta modestamente la rappresentanza.
La politica la impara presto, anche troppo. Cambia assessori come mutande e con notevole cinismo litiga prima o poi con tutti i collaboratori: dai prof benicomunisti Mattei e Lucarelli al magistrato-assessore Narducci e al carabiniere-capogabinetto Auricchio, questi ultimi eroi dell’inchiesta Calciopoli. Rompe anche con Sandro Ruotolo, antico sodale di agorà televisive, dopo aver scaricato la nipote Alessandra Clemente, vittima di camorra e assessora.
Casinista, populista, arruffapopolo, masaniello, qualunquista, per dieci anni governa una «Napoli ribelle», come intitola l’ultimo libro edito da una casa editrice di Scampia, Marotta&Cafiero. Sbraitando contro i poteri forti, agita una personale connessione popolare. Pedonalizza il lungomare e rinfaccia al presidente del Napoli De Laurentiis di volere «uno stadio da 40mila posti, elitario e non per il popolo». Dà la cittadinanza onoraria al leader curdo Ocalan, a quello palestinese Abu Mazen e ai calciatori Maradona, Reina, Hamsik. Inventa lo zapatismo partenopeo e riceve in Comune il filosofo Latouche, teorico della decrescita felice. A dispetto dei numerini della Corte dei Conti, proclama l’inesigibilità dei debiti comunali che gonfia assumendo maestre negli asili.
Sentendosi leader nazionale, dal primo giorno da sindaco medita il grande salto. Conteso dai talk show (un tempo Santoro, ora Giletti), lancia mille progetti nazionali ma non ne cava nulla di realmente concreto. Finisce male anche con Di Pietro e, nel 2013, con l’altro ex pm Ingroia, che chiama quale alter ego a guidare la brancaleonesca Rivoluzione Civile, non volendo rischiare in prima persona. Ne viene fuori un flop clamoroso, che costringe Ingroia, che aveva lasciato la toga sicuro dell’elezione, a mettersi a fare l’avvocato. In mancanza di meglio, de Magistris resta sindaco e continua a meditare il salto nazionale. Alla fine del secondo mandato da sindaco, si candida alle regionali in Calabria, arruolando – tipico metodo suo – come star Mimmo Lucano. Due ribelli, due perseguitati. Il 17 per cento non è niente male, ma il seggio non scatta.
A de Magistris, peraltro disoccupato avendo dismesso la toga senza ricorrere all’aspettativa, non restano che le elezioni politiche. Altro giro, altra corsa, altro logo. Unione Popolare come quella francese, lanciata ai primi di luglio in un’assemblea conclusa con de Magistris che fa il pugno chiuso, alla Mélenchon e nessuno si senta offeso. Obiettivo 3 per cento. Dietro di lui una galassia movimentista che va dai centri sociali agli accademici pacifisti D’Orsi e Bevilacqua, dall’ambientalista Finiguerra, in rotta con i Verdi alleati al Pd, agli ex assessori a Roma, Berdini e Montanari, traditi e cacciati dalla Raggi. E più ampia e variegata sarebbe stati la compagnia, se non si fossero rivelati infruttuosi gli abboccamenti con gli ex 5S di Alternativa come Pino Cabras, Di Battista e i prof della commissione DuPre anti Green Pass.
Buoni rapporti con Fico, pessimi con Conte che de Magistris mette sullo stesso piano di Draghi. Slogan: le privatizzazioni sono un golpe, fuori la mafia dallo Stato, il neoliberismo sta crollando e così via. Nel programma di 15 pagine no all’invio delle armi in Ucraina, superamento della Nato, salario minimo, scala mobile, sanità pubblica, fisco progressivo. Il più a sinistra di tutti, ma con un leader che non si è mai connotato fino in fondo. Ha sempre pescato voti altrove e fatto alleanze trasversali. Terzomondismo post moderno. Masse popolari e borghesia. Purché sia lui, e solo lui, a comandare.