il Giornale, 22 agosto 2022
Intervista a Prisca Taruffi
Prisca Taruffi è «figlia di un sorpasso», quello che fece vincere a suo padre Piero l’ultima Mille Miglia, nel 1957, a bordo della Ferrari 315S. E, da lì, il suo destino è stato segnato. Nata e cresciuta a Roma con un padre/mito, al quale ha dedicato già una biografia nel 2006, per il centenario della nascita, ora parla di sé in Doppietta e punta tacco (edito da Minerva e arricchito da moltissime foto, di famiglia, di piste e di vittorie...), sottotitolo: «La mia vita con la Volpe argentata».
Il Dna nel suo caso proprio non mente: oltre alle corse in pista, dove debutta nell’84, Prisca Taruffi diventa campionessa italiana e vice campionessa europea di rally nell’89 (l’anno successivo alla morte del padre); partecipa a numerosi rally raid; è pilota-istruttore e test driver... In effetti è cancro ascendente gemelli, ovvero, dice lo zodiaco, «una forza della natura».
Prisca Taruffi, partiamo dal nome. È romano o messicano?
«Io conosco una versione romantica della storia: papà, che aveva corso a lungo in Messico, nella famosa Carrera, per tanti anni aveva portato con sé anche mia madre Isabella, in ricognizione, perché è una gara molto lunga, più di tremila chilometri... E una volta capitò a Taxco, dove c’è una chiesa barocca, bellissima, dedicata a Santa Prisca, e si innamorò di questo nome».
Quando vide la chiesa suo padre?
«Negli anni ’50. Ha fatto la Carrera dal ’50 al ’54, io sono nata dopo».
Dopo...?
«Dopo che papà si è ritirato dalle corse. Sono del ’59. Papà ha vinto l’ultima Mille Miglia della storia, nel ’57, ma aveva fatto una promessa a mia madre: smetterò di correre quando vincerò la Mille Miglia. Ne aveva fatte tredici. Quell’anno Enzo Ferrari gli diede una vettura ufficiale, molto potente, però gli disse: Ingegnere, se vince, si ricordi della promessa a Donna Isabella».
Appunto.
«C’è chi nasce per parto naturale, chi per un cesareo; io sono nata per un sorpasso, quello di mio padre a Von Trips, suo compagno, a pochi chilometri da Brescia. Quando tagliò il traguardo non sapeva di aver vinto, glielo disse mia madre, e lui: Non fare scherzi da prete. Però durante la corsa accadde una tragedia, un incidente in cui furono falciati tanti spettatori, e fu la fine della gara, considerata troppo pericolosa».
Quanti anni di differenza ci sono fra lei e suo papà?
«Lui vinse la gara a 51 anni, io sono nata due anni dopo. Tra mio papà e mia mamma ci sono 23 anni di differenza, e io ho avuto un padre anziano, tutti credevano fosse il nonno».
Per lui dimostra un amore e una ammirazione totali.
«Una delle missioni della mia vita è mantenere viva la memoria di mio padre, perché era un uomo schivo, che stava dietro le quinte: era un ingegnere, non un agitatore di folle come Nuvolari...».
E il nuovo libro come nasce?
«Per non dimenticare la mia vita, perché sono una donna fortunata, ho fatto cose belle e avventurose; e ricordare, in parallelo, anche quella di mio padre, per spiegare come ho ereditato questa passione, come se avessi seguito un destino, pur contro la sua volontà».
Suo padre era contrario che corresse?
«Quando ho iniziato, nell’84, noi donne pilota eravamo mosche bianche, ma ho avuto un’occasione: un amico che lavorava a Vallelunga, che è un circuito progettato da papà, mi disse che c’era un’auto per il Trofeo Renault 5. Mi chiese: Vuoi provare?, e io: E perché no. Così dissi a papà: Fra una settimana faccio una gara, in pista».
E lui?
«Da una parte era preoccupato. Non aveva mai spinto perché corressi, considerava l’automobilismo uno sport pericoloso, poi ero la figlia femmina... Però mi ha aiutato: mi ha portato in pista, abbiamo visto le traiettorie insieme, mi ha dato consigli preziosi. E ci siamo presi qualche spavento, per dei testacoda».
E al debutto?
«È venuto a vedermi, con la mamma, e mi ha fatto i complimenti. Così sono andata avanti».
Quanti anni aveva?
«Ventiquattro, che per un pilota è tardissimo. Poi ho bruciato le tappe, dalla pista al rally, dal rally alla pista, ai raid, che sono i rally africani».
La soddisfazione più grande?
«Il titolo iridato di rally femminile nell’89, con un’auto potente e impegnativa, la Ford Sierra Cosworth, la macchina che mi ha regalato le emozioni più belle. E, per le gare, quelle africane, come il Rally dei Faraoni e il Rally delle Gazzelle, in Marocco».
Che cos’hanno di speciale?
«Lì si va oltre la competizione, ci sono l’imprevisto e l’avventura, rimanere in panne nel deserto, stare di notte da sola col copilota sotto il cielo stellato, affrontare la tempesta di sabbia chiusa in macchina... Ho conosciuto i miei limiti e le mie forze, perché ho affrontato situazioni mai provate, come sormontare le dune a cattedrale, alte cento metri, e buttarmi di sotto, con tecniche di guida diverse da quelle abituali, o dormire in tenda, o non dormire affatto. Situazioni forti, a livello psicologico e fisico».
Come ci si prepara? Suo padre aveva addirittura una palestra-serra...
«Era parte della disciplina del pilota, lui ha corso fino a 51 anni. Per guidare un’auto potente per tante ore devi allenarti, nutrirti in un certo modo, lavorare sulla resistenza muscolare, sulla resistenza alla guida e al caldo, fare le ricognizioni...».
È anche campionessa di golf.
«Sì, ho vinto un titolo nazionale senior. È uno sport che amo perché è a contatto con la natura. Poi ho praticato nuoto, equitazione e sci, e ho giocato a pallavolo in serie A: mi hanno fatto provare di tutto, pur di evitare l’automobilismo. Però poi a 24 anni ho iniziato con le gare e le corse e sono diventata pilota istruttore e preparatore tecnico, anche nei corsi di guida».
Qualche allievo celebre?
«Molto bravo era Giorgio Faletti, che mi presentò anche la mia copilota, Roberta Termali, ex moglie di Zenga. Un’altra copilota è stata Marina Lungo. E poi Eros Ramazzotti, grande appassionato di auto».
Ha avuto sempre copilote?
«Quasi sempre, così da poter competere sia per la classifica femminile, sia per l’assoluta. Nell’89, quando ho vinto il titolo italiano di rally, nel campionato di gruppo A siamo arrivate al terzo posto della classifica assoluta, una grande soddisfazione: di uomini dietro ne abbiamo lasciati molti... Nel deserto invece avevo copiloti uomini, come l’ex campione Franco Picco, che ancora fa la Parigi-Dakar in moto, e che mi ha insegnato moltissimo, durante tre edizioni dei Faraoni».
E poi ha fatto la Mille Miglia sull’auto di papà, nel 2007, cinquant’anni dopo quella vittoria.
«Sapevo quanto lui tenesse a quella gara, ascoltavo i suoi racconti, tutti gli chiedevano sempre di quella Mille Miglia... Sapevo che era stata una vittoria sofferta, inseguita, che aveva segnato la sua vita. Quando la Ferrari mi ha proposto, per i 50 anni, di fare la rievocazione con quella stessa macchina che aveva guidato papà per oltre mille chilometri, mi è sembrato un sogno».
E la macchina?
«Era di una bellezza... Il proprietario era un americano. È rimasta tre mesi in osservazione alla Ferrari, io l’ho provata a Maranello ed era difficilissima da guidare: con i freni a tamburo, il che significa che non frena, riscaldava da morire, con il volante a destra...»
E poi?
«E poi mi sono seduta dove papà aveva lottato e sofferto per 1.600 chilometri, ed è stato come averlo vicino a me: un’emozione straordinaria. È una gara nel cuore della gente. Ne ho fatte altre tre, ma quella è irripetibile».
Ha anche conosciuto Enzo Ferrari.
«Ho incontrato il Drake a 14 anni con papà, mamma e mio fratello. Mi regalò un foulard col cavallino. Era un uomo enigmatico, con gli occhiali scuri. Con mio papà, che era scontroso, si sono presi e lasciati molte volte, ma c’era grande rispetto».
Ha incontrato tanti piloti nella sua vita?
«Schumacher, con cui avrei dovuto correre proprio la Mille Miglia. Alex Zanardi, che mi ha colpito per il carisma, l’umanità e lo spirito, e poi Niki Biasion, che conosco bene, Valentino Rossi che vedevo da piccolo sulle spalle di papà Graziano a Misano, Emanuele Pirro, un grande amico, Andrea De Cesaris, e poi tante donne pilota, le signore della pista e del rally che ho avuto l’onore di incontrare».
Chi sono?
«Maria Teresa De Filippis, molto amica di papà, e Lella Lombardi, il mio mito, l’unica donna ad aver conquistato mezzo punto in Formula Uno, e italiana. E poi Maria José Rodriguez, Majo, la giovane messicana con cui ho condiviso l’ultima Carrera, molto forte, che corre coi camion, con le Mercedes, con qualsiasi cosa. Nei rally, Michèle Mouton, un mito, che ho incontrato con la copilota Fabrizia Pons, e poi Silvia Giannetti, che corre nel deserto ed è campionessa di motorally, e Camelia Liparoti, che fa la Dakar coi quad: donne particolari, diciamo».
È anche Grand Marshal della Carrera.
«Significa la testimonial: è un titolo che danno ogni anno, per la rievocazione della gara, e io sono stata la prima donna a riceverlo, quando, per i 70 anni della vittoria di papà con la Ferrari, mi hanno invitato a guidare un’Alfa Romeo. Un bell’onore. Papà in Messico è molto amato, lo chiamano El Zorro Plateado».
Gli avevano dato loro il soprannome di Volpe argentata?
«Sì. Sia per i precoci capelli bianchi, sia per la sua tattica di gara e l’astuzia: era un pilota che sfruttava la conoscenza del mezzo, dato che era ingegnere, e sapeva quando spingere fino al limite la vettura e quando, invece, risparmiarla».
La velocità per lei?
«Mi è sempre piaciuta. Per i 18 anni ho voluto una Kawasaki 350 di seconda mano: per me è l’espressione della velocità, di un senso di libertà, l’accelerazione, il vento fra i capelli, nel casco... Ne ho avute quattro, ora ho la Vespa».
E in gara?
«Il pilota bravo è quello che sta sul filo del rasoio: guida al limite delle sue possibilità, su quella sottile linea oltre la quale vai fuori, e questo dà una ebbrezza meravigliosa».
Ha mai avuto paura?
«Beh, sa quanti spaventi... Mi sono anche capottata tre volte, di cui una davanti a mio papà a Imola, in bagarre. Una vergogna».
Suo papà era orgoglioso di lei?
«Non me lo diceva apertamente, ma sotto sotto... Il mio grande rimpianto è che sia morto l’anno prima della mia vittoria del titolo. Spero che, da lassù, sia orgoglioso della sua figlia femmina».
E sua mamma?
«Donna Isabella, che ha 94 anni, pensava di aver smesso di soffrire, e invece... Alla partenza del mio debutto ha pianto: Si ricomincia da capo. Ma io sono sempre andata per la mia strada».
La cosa più difficile per un pilota?
«Trovare la macchina giusta, col giusto team. In pista, per me, fare il tempo migliore nelle prove, per partire davanti; nei rally, cercare di sfruttare al cento per cento l’auto, senza andare oltre i limiti».
Com’è il mondo delle donne pilota?
«Eh, quando l’ho conosciuto io, c’era molta, molta competitività, più che fra gli uomini. Anche gelosie nelle squadre. Infatti, a parte le mie copilote, mi trovavo meglio in squadre maschili».
Perché ama tanto il Rally delle Gazzelle?
«Gazzella, per i marocchini, è un modo per definire la donna giovane che sfida il deserto. Una donna libera. Io ho fatto il Rally per cinque anni e lì, nel 2008, ho vinto l’ultima gara importante della mia carriera. Mi sento un po’ una gazzella, la donna che si mette in gioco e cerca di superare le mille difficoltà e imprevisti che esistono nel deserto».