Robinson, 20 agosto 2022
Biografia di Marco Mazzoleni raccontata da lui stesso
Ci sono modi diversi per occuparsi di quel bene comune che è la terra al tempo del cambiamento climatico. Quello che ha scelto Marco Mazzoleni ha un tocco minimalista ma concreto: guarda alle sue montagne senza paraocchi ideologici, liberi da quel corteo di frasi che sembrano inseguire questo nostro sconsolato futuro, senza mai di fatto raggiungerlo.
Mazzoleni nasce ingegnere e finisce fotografo: «Una passione che è diventata mestiere, impegno, testimonianza», mi dice mentre arranchiamo su un sentiero che porterà a un alpeggio sui monti della bergamasca: «Vedi, qui a maggio salivano i bergamini con le loro vacche e le masserizie, con le mogli e i figli. Era un intero mondo che si spostava. Salivano per poi ridiscendere in autunno».
Chi erano esattamente i bergamini?
«Erano allevatori nomadi. Praticavano una forma di transumanza bovina, simile a quella che veniva adottata al centro-sud per le pecore. Ma mentre quest’ultima è nota e studiata, l’altra è stata trascurata».
Perché?
«Molto è dipeso dal fatto che la cultura ufficiale tra otto e novecento ha denigrato il fenomeno bergamino riducendolo a una forma di economia arcaica».
Di fatto lo era.
«Certo, ma più che arcaica la definirei elementare.
Capace di sviluppare un rapporto tra protezione del territorio e processo economico da cui oggi poter apprendere qualcosa di interessante. Occuparmene è stato un po’ come un ritorno all’infanzia che voleva dire boschi, prati, stalle».
Hai origini contadine.
«No, tutt’altro. Mio padre, Francesco, fu inviato nella Valle Imagna per aprire una filiale del Credito Bergamasco. Mamma Ermanna insegnava in una scuola rurale. Sono nato a Branzi, un paese dell’alta Val Brembana. Fino alla prima media ho studiato da esterno in una scuola di suore. Poi feci la seconda e terza media a Bergamo e fu un impatto traumatico. Ebbi la fortuna di incontrare un professore di lettere che capì il mio disagio e seppe inserirmi con affetto in quel nuovo mondo.
Appresi in seguito che anche lui veniva dalla montagna.
Amava Leopardi e me lo fece amare. Ma i miei studi presero tutt’altra direzione».
Verso dove?
«I miei pensarono che non avessi predisposizioni al ragionamento teorico. Mi iscrissi a malincuore in un istituto tecnico occupandomi di meccanica. Scoprii il fascino della progettazione e del disegno tecnico.
All’università scelsi ingegneria. Feci il biennio a Pavia.
Era il 1968. Improvvisamente tornai a quella cultura umanistica che avevo appena sfiorato. Conobbi Dante Isella e Maria Corti. Ero tentato di cambiare facoltà ma anche la meccanica mi piaceva. Finii al Politecnico di Milano dove portai a termine la mia specializzazione».
L’interesse per la fotografia quando si manifestò?
«Fu un dono tardivo che legai all’idea che la fotografia dovesse essere più che altro uno strumento di documentazione. La mia è stata una formazione da autodidatta. Poi ho cercato di approfondire frequentando Il Diaframma, la galleria di Lanfranco Colombo. Lui l’aprì a Brera nel 1967 e lì sono passati i più grandi fotografi italiani e stranieri. Conobbi e frequentai i corsi di Lucien Clergue uno dei fondatori, nel 1968, deiRencontre d’Arles ».
Quando dici che la fotografia è strumento di
documentazione che intendi?
«Intendo una fotografia realistica. Per me uno dei punti di riferimento è stato Pepi Merisio. Bergamasco innamorato del reale, fu particolarmente attento alle condizioni di vita delle popolazioni disagiate dell’Italia degli anni cinquanta e sessanta. Lui mi fa venire in mente Calvino quando scrive nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno che il neorealismo non fu una scuola ma un insieme di voci, in gran parte periferiche, attraverso cui si scoprirono molteplici Italie».
Ti sei dedicato alle montagne della tua Bergamo. Che Italia hai scoperto?
«Qualcosa che non avrei immaginato di trovare: la ripresa e conservazione di certe tradizioni di allevamento e produzione di formaggio. Sto parlando di cultura materiale. Il mio lavoro per anni si è svolto prevalentemente sulle Alpi Orobie, per me un laboratorio nel quale studiare la relazione tra l’uomo e la natura».
Un rapporto che si è molto deteriorato.
«I movimenti ecologisti hanno più volte lanciato l’allarme. Hanno messo in guardia dal cambiamento climatico. Ma abbiamo sentito talmente tante volte questo discorso che alla fine nessuno sa più bene a cosa credere o cosa fare. Penso sia giusto parlare delle minacce che incombono. Ma la risposta non è nei grandi scenari che disegnano un futuro molto incerto. La risposta è che cosa concretamente ciascuno di noi può fare per risolvere non le grandi questioni ma i piccoli eventi che decidiamo di affrontare».
Non è un po’ troppo minimalista come proposta?
«Forse sì. Ma qual è l’alternativa? La politica si è autocondannata ad agire sul presente. Teme che provvedimenti efficaci solo in prospettiva abbiano un costo immediato che le toglierebbe consenso. Di qui la vaghezza dei discorsi e le promesse per lo più disattese».
Quindi non è dalla politica che arrivano le risposte.
«Politica significa tante cose. Ma soprattutto vuol dire tener conto del bene comune. Quale entità collettiva vogliamo proteggere. Come affrontare, per tornare alle mie montagne, la lunga attività antropica che ha modificato il volto del territorio. A volte peggiorandolo, altre migliorandolo. In quel libro straordinario che èStoria del paesaggio agrario italiano mi colpì il richiamo che Emilio Sereni fece alleOperette morali e in particolare dove Leopardi, tessendo l’elogio degli uccelli, dice che le cose che vediamo e che ci sembrano naturali in realtà non lo sono, essendo frutto dell’intervento umano. Per Sereni era chiaro che la specificità del paesaggio italiano fosse il risultato di un grande lavoro da parte dell’uomo. La mia impressione è che questa idea del paesaggio non naturale ma antropizzato non sia entrata nel pensiero comune. Salvo forse per i suoi lati negativi. Il mio lavoro fotografico dovrebbe, mi auguro, contribuire a cogliere questi aspetti che nella montagna sono meno leggibili che nella pianura».
La tua fotografia documenta la parte invisibile della montagna.
«La parola “invisibile” evoca suggestioni verticali. Come se nella montagna si avvertisse qualcosa di sacro. Ma non vorrei fare cattiva letteratura. Ciò che mi interessa è comprendere il rapporto tra le grandi visioni del mondo e la riscoperta dell’identità di un territorio».
Dove collocheresti il punto di incontro?
«In quello spazio in cui il paesaggio vissuto come esperienza estetica si trasforma in esperienza culturale.
Petrarca fu tra i primi a concepire l’idea di paesaggio e a declamarne la bellezza, facendone un oggetto estetico.
Qualche secolo dopo, Sereni ha introdotto l’aspetto culturale del paesaggio agrario italiano. E dire culturale significa riconoscere le specificità storica del territorio».
A questo proposito avevamo iniziato parlando del
fenomeno dei bergamini.
«La loro era una cultura prevalentemente nomade, basata su forme di egualitarismo all’interno del gruppo».
Coinvolgeva anche le donne?
«A causa del carattere patriarcale delle famiglie, le donne erano penalizzate da un sistema ereditario che favoriva i maschi, per il resto una donna valeva quanto un uomo. Diversamente da ciò che accadeva nelle transumanze pastorizie del centro sud, dove la donna era votata al sacrificio totale e incondizionato verso il marito e i figli, lì rivestiva un ruolo importante e riconosciuto, in un certo senso paritario, contribuendo direttamente alla conservazione della comunità».
Erano comunità chiuse?
«Solo in parte. Avevano tratti gitani, come dimostra anche il modo di vestire: sotto il tabarro indossavano spesso preziosi gilet ricamati e portavano gli orecchini. C’era un che di stravagante. Ma al di là del colore fu grazie a questo fenomeno di transumanza che si è sviluppata una notevole industria casearia».
Cosa producevano?
«Tra i formaggi ricorrenti, oltre allo stracchino, che era quello principale, si produceva il bitto, il bagòss, il taleggio, le robiole che nel tempo sono diventatieccellenze. Fu grazie a questa varietà che decollò alla fine dell’Ottocento l’industria casearia lombarda.
Famiglie come Arrigoni, Galbani, Berera, Goglio, Locatelli, Invernizzi, Cademartori e altre furono artefici di questo sviluppo. E quasi tutte avevano radici bergamine. I loro fondatori erano del self-made-man.
Pensa, che lo stesso Carlo Cattaneo – un uomo che ha inciso con la sua visione sociale e politica sul pensiero italiano – aveva origini bergamine».
Che cosa resta di quel mondo originario?
«Negli anni Cinquanta dello scorso secolo le cose hanno cominciato a cambiare. Le aziende zoo-tecniche, sull’onda dell’industrializzazione, hanno decisamente puntato allo sfruttamento intensivo dei terreni. Le stesse vacche sono state trasformate in macchine da latte. Non sto demonizzando il comparto. Ma quello che è accaduto riguarda soprattutto il rovesciamento del rapporto tra alpeggio e pianura. Si è scoperto che con l’intensificazione del terreni le vacche rendevano molto di più in pianura che in montagna».
Con quali conseguenze?
«L’abbandono della montagna e il conseguente tramonto della civiltà bergamina. Certo, per dirla con il racconto di Nuto Revelli, quella civiltà rappresentò unpezzo del mondo dei vinti, con le sue durezze e i suoi pregi. Non ne faccio l’elogio, perché non avrebbe senso.
Dico però che da quello che faticosamente sta tornando bisognerà trarre qualche insegnamento per il futuro. A causa dei troppi interessi contrastanti e di abitudini e stili di vita ai quali è difficile rinunciare, sarà un cambiamento lento, complicato e incerto».
Cambiare intendi il rapporto con la natura?
«Non dobbiamo difendere la natura perché la natura si difende da sola. Dobbiamo solo decidere se l’uomo vuole continuare a vivere su questa terra. O estinguersi».
Vasto programma.
«D’accordo, ma da qualche parte bisogna cominciare. Ho preso parte con il mio lavoro di fotografo al ripopolamento dei pascoli montani. Con gli alpeggi la montagna ha ripreso a vivere. Ma non mancano i problemi».
Tipo?
«C’è il rischio di speculazioni provocate dalla ripartizione dei fondi europei. Si parla di finanziamenti di decine di milioni di euro. A chi vanno? Ci sono i bandi. Che una volta aggiudicati, in certi casi vengono disattesi o aggirati. Le truffe per ottenere i fondi destinati ai pascoli di alta quota sono diffuse in tutta Italia: dal Parco dei Nebrodi, in Sicilia, alle Alpi Orobie, al Trentino. Non c’è, come vedi, solo la poesia su un passato che comunque non tornerà, c’è da difendere vasti territori dalle brame umane, dagli imprenditori sleali, agevolati da una burocrazia a volte compiacente o contraddittoria».
È il rapporto sempre complicato con la tradizione.
«Troppo fragile per non esporsi alla strumentalizzazione, anche economica».
Si oscilla tra speranza e delusione. In te cosa prevale?
«Ogni tanto provo a tirare qualche somma. Ho fatto l’ingegnere, ho insegnato. Ma alla fine la fotografia è stata la mia grande risorsa fisica e mentale. Ho lavorato per l’editoria e per alcune agenzie. Ho girato un po’ il mondo.
Nell’autunno del 1979 andai in Nicaragua, quando i sandinisti vinsero e cacciarono il dittatore Somoza. Il risultato fu una mostra a Palazzo Braschi a Roma. Anche lì c’era speranza e poi subentrò la delusione con Ortega che di fatto ha ripercorso le orme di Somoza. Allora ancora insegnavo. Non avevo del tutto chiaro cosa fare.
Da quasi 15 anni ho iniziato una immersione totale nelle valli, cercando di entrare in sintonia con i luoghi e le persone cercando di comprendere e se possibile condividere gli aspetti importanti di queste realtà. E nello stesso tempo è per me un ritorno ai luoghi che avevo sfiorato nella mia infanzia e giovinezza. Non mi illudo, certo, di salvare il pianeta. Ma intanto ho cominciato a salvare me stesso.