Robinson, 20 agosto 2022
Intervista a Giovanna Marini
«Non è detto che la politica sia diversa dall’amore, possono stare insieme», spiega.
E poi canta: «È una risata forte/ che ti si spezza in gola/ ma il letto è troppo corto/ e c’è una notte sola». È una dedica a Paolo Pietrangeli, morto a novembre del 2021, con la sua Fermiin mezzo a una strada.
Poi, pizzicando la chitarra acustica, intona accompagnata dalla voce potente di Sara Modigliani: «La convinzione di una nuova era/ che al mondo porterà la redenzione/ e porta scritto sulla sua bandiera: rivoluzione». Mentre tutto sembra ritornato a essere così brutto e pericoloso, Giovanna Marini ti fa pensare, per un momento, che un altro mondo potrebbe essere possibile. Pasolini aveva ragione su molte cose: il consumismo ha devastato i popoli spingendoli nel baratro di un’uniformità senz’anima e oggi guerra, rabbia e violenza ritornano senza che esistano nemmeno gli anticorpi di ideali più alti, di filosofie in grado di far sperare in un futuro migliore. Eppure queste voci di donne parlano al presente, sono più attuali adesso di ieri perché sono la testimonianza concreta di un processo che comunque continua a incidere nella società, magari con piccole cose: piccole come una scuola. Grandi come una scuola.
Come nasce la Scuola Popolare di Musica di Testaccio?
Sara Modigliani: «Nell’inverno del ’75 ricevo una telefonata da un bassista, Bruno Tommaso, che mi dice: “Insieme a Maurizio Giammarco, Martin Joseph e diversi altri dell’area del jazz romano abbiamo occupato un palazzo a via Galvani, a Testaccio, e vorremmo fare una scuola per la gente ma se non c’è una donna non ci mandano le ragazzine” (ride,ndr). Io insegnavo “Introduzione alla musica attraverso il flauto” e così mi sono messa in questa impresa che all’inizio era: pala, piccone e vernice, perché ci pioveva dentro e non c’erano neanche le sedie. Abbiamo lavorato come matti: Martin era l’addetto alla carriola, era tutto da sistemare».
Chi veniva a questa scuola?
S.M.:«Principalmente adulti, parecchi fuoriusciti dal conservatorio e molti del movimento studentesco che allora era appena nato; i bambini in realtà arrivarono più tardi, nel 1984, e nel frattempo io me n’ero andata e Giovanna era già diventata responsabile della scuola».
Giovanna Marini: «Insieme a un gruppo di lavoro che era andato consolidandosi perché nel frattempo di lì erano passati grossi personaggi come Steve Lacy e vari stranieri che poi però se ne andavano ed era quindi necessario garantire una continuità dell’esperienza attraverso un’organizzazione continuativa».
E il fine qual era?
G.M.:«Insegnare musica jazz. Infatti io non ero sicura che avesse senso la mia presenza perché mi occupavo di musica popolare. Poi però mi sono detta che, in definitiva, anche il jazz non era altro che una musica tradizionale. E fu magnifico».
E con il Covid oggi com’è andata?
G.M.:«Male, perché solo dopo parecchio abbiamo iniziato a fare lezioni online, ma per fortuna ci siamo ripresi. Grazie anche al fatto che le persone che lavorano qui sono un po’ come dei missionari: ai tempi c’era chi lasciava tutto perché credeva in questa scuola. E se i genitori oggi capissero che non è vero che con la musica si fa la fame, potremmo avere artisti straordinari.
Mia madre insegnava al Conservatorio e io ho due figli che fanno i musicisti e a vent’anni già guadagnavano. Oggi è ancora più facile, il lavoro si trova eccome».
Ricordo che con il vostro Coro andavate in giro per tutta l’Europa… G.M.:«Nel 1983 il Teatro les Bouffes du Nord di Parigi mi aveva chiesto di scrivere un’opera-oratorio per Peter Brook, si intitolava Il regalo dell’imperatore. E così siamo partiti per una lunga tournée in Francia e in Spagna, eravamo più di trenta. Ci siamo detti: “Portiamo persone già accoppiate, se no viene fuori un casino”. Alla fine però tutte le coppie si sono “scoppiate” riaccoppiandosi diversamente e chi aveva lasciato qualche fedele fidanzato, rimasto apresidiare la scuola, gli si è buttato tra le braccia al ritorno contando sul silenzio degli altri. È stato davvero molto, molto divertente».
Cosa voleva dire essere donne nel mondo della musica in quegli anni?
G.M.:«Non era per niente facile anche nel mondo della musica. Basti pensare a Peggy, la sorella di Pete Seeger che suonava il banjo molto meglio di lui e cantava anche molto bene, eppure né lui, né la famiglia, che era tutta di musicisti, ha mai fatto niente per metterla in evidenza: ha spinto i maschi. E Bob Dylan con Joan Baez? All’inizio, quando lei era famosa e lui no, l’ha usata e poi, anni dopo, nel momento in cui l’ha invitata in tour con lui, entrava per primo, si pigliava tutto il tempo, sbrodolava, allungava e alla fine per la povera Joan non c’era più spazio e così lei restava dietro le quinte a piangere. Eppure ha continuato la tournée con lui».
L’altra faccia di Dylan, come dice il titolo di un suo disco.
G.M.:«Dylan era prepotentissimo, me lo ricordo bene. Dovevo cantare al Club 47 a Boston. Quando arrivo mi dicono: “Presto, presto, sali sul palco prima che arrivi Zimmy”. E io: “Ma chi è Zimmy?”. Era il soprannome che gli avevano dato allora quando si chiamava ancora con il suo nome, Robert Allen Zimmerman. A un certo punto arriva questo tipo coi riccetti già accompagnato da una specie digregario che blatera: “Now this is my place” (imita benissimo l’accento strascicato di Dylan, ndr) piazzandosi vicino al palcoscenico, senza guardare nessuno. Lui non era in cartellone ma si infilava tra un musicista e l’altro. C’era tutta la scena folk lì in quel periodo, da Pete Seeger a Judy Collins, ma l’ospite fissa e la vera star era Joan Baez a cui lui si è subito incollato».
Con questo libro è stata un po’ vendicata: in copertina c’è una famosa foto di loro due ma è stata messa lei in primo piano… G.M.:«Giusto! (ride,ndr).Infatti io lì a Boston mi ero detta: “Questo Zimmy è proprio uno str...!”. Me ne stavo andando quando sento: “How many roads must a man walk down” (canta magnificamente, ndr). Mi sono fermata e sono tornata dentro per sentirlo: era straordinario».
A proposito di un altro grande artista e grande appassionato di Bob Dylan, Francesco De Gregori.
Avete fatto un disco insieme.
G.M.:«Un giorno è venuto a trovarmi con una scatola di cioccolatini, che ho apprezzato, ma fondamentale è stata Chicca, sua moglie, che cantava con noi nel Coro (ride,ndr).
Francesco ha sempre voluto incidere conI dischi del solema una volta ebbe una brutta discussione con Ivan Della Mea che gli disse: “No, tu sei da un’altra parte, fai musica leggera”.
Ma aveva ragione Francesco e infattialla fine quel disco arrivò. Trent’anni dopo (Il fischio del vapore, ndr). Ma credo che sia un bel disco».
Tornando al tema del libro: è capitato anche a voi di vivere una situazione discriminante?
S.M.:«Ho iniziato con il Canzoniere del Lazio: ero trattata come l’ultima ruota del carro, non solo perché ero femmina, ma perché non era iscritta al partito. La linea su tutto la prendevano i maschi e io dovevo solo cantare quello che dicevano loro».
G.M.: «Dovevi importi!».
S.M.: «Non mi sono imposta ma me ne sono andata. Ho cambiato vita finché, pian piano, ho ripreso a cantare anche grazie a Giovanna, da cui ho imparato quasi tutto».
G.M.: «Io ero stata chiamata a dirigere l’orchestra per la colonna sonora del filmIo sono mia, di Sofia Scandurra. Do l’attacco e l’oboe non entra. Lo ridò e niente. Allora gli dico: “Scusi, vuole entrare?”. E lui: “Non prendo ordini da una donna”. C’era Massimo Bartoletti che fa: “Vabbè, vabbè, entro io”. Do l’attacco, parte Bartoletti e poi attacca l’oboe. Una cosa ridicola, tutti sghignazzavano ma alla fine non gli ha detto niente nessuno. E temo che anche oggi ci sia ancora molta strada da fare».