la Repubblica, 19 agosto 2022
Sylvester Stallone: «Non posso più fare Rambo»
A partire dal successo diRocky , nel 1976, Sylvester Stallone si è imposto come eroe “popolare”. Da allora ha creato soprattutto nel cinema di genere una serie di personaggi in cui l’uomo comune può riconoscersi e il prossimo Samaritan — su Prime Video dal 26 agosto — non fa eccezione. Con una sfiziosa variante: in questo action spettacolare diretto da Julius Avery “Sly”, 76 anni, è un supereroe ritiratosi a vita privata.
Cosa l’ha convinta a interpretare un personaggio con superpoteri?
«Il grande pubblico mi conosce per Rocky Balboa, John Rambo, al massimo Demolition Man.
Ho pensato: perché non tentare di portare qualcosa di questa mitologia dentro un ruolo leggermente diverso? Il personaggio che interpreto, Joe Smith, è una figura che puoi incontrare sull’autobus mentre vai al lavoro. Un uomo della strada con un passato doloroso che gli ha fatto decidere di nascondersi dietro il più anonimo dei mestieri: il netturbino. Nessuno presta loro alcuna attenzione. E pensare che senza saremmo in guai seri. Joe trova oggetti rotti nella spazzatura e li ripara, c’è un forte simbolismo in questa azione. Samaritan mostra le nostre paure nella vita di tutti i giorni e riflette su come dovremmo liberarci dell’odio e della violenza».
Siamo dunque lontani dai film ultra-spettacolari che vediamo oggi.
«Negli ultimi anni Marvel e Dc hanno ottenuto risultati straordinari con i loro prodotti, tutto quello che si può immaginare lo hanno già creato.
ConSamaritan abbiamo voluto invece riportare la figura del supereroe a una dimensione terrena: Joe salva le persone prima che vengano investite da un’auto, difende i ragazzi dai criminali che li attendono nei vicoli. Nel nostro film non ci sono pericoli che arrivano da altri universi, la minaccia è tangibile e plausibile. È più una fiaba con un discorso preciso sulla necessità di prendersi le proprie responsabilità civili. Non posso più realizzare le scene d’azione di Rambo, non sarei credibile. Ma qualcosa posso ancora metterla in piedi. Così abbiamo pensato a Joe non come un supereroe che può volare o cose del genere, ma semplicemente come a un uomo con una forza enorme, il che in qualche modo lo avvicina un po’ al mondo reale».
Nel film Joe stringe amicizia con il giovane Sam, interpretato da Javon “Wanna” Walton. Come ha lavorato con un attore alle prime armi?
«C’è qualcosa che ti rinvigorisce a recitare con colleghi alle prime esperienze, Javon ha un’energia contagiosa. In un certo senso lui ha riportato indietro l’orologio per me.
Ricordo la prima volta che arrivai su un set c’erano leggende come Robert Mitchum o John Wayne. Può metterti in difficoltà, pensi di essere pronto a recitare ma non lo sei. Così ho cercato di mantenere l’atmosfera leggera sul set. Penso sia fondamentale che le generazioni più anziane rimangano in contatto con i giovani: si verifica uno scambio di saggezza ed energia».
Cosa le piacerebbe il pubblico facesse proprio, vedendo il film?
«La possibilità di redenzione è tutto, una seconda opportunità può farti rimediare agli errori che hai commesso in passato. Quasi tutto quello che ho fatto in carriera affronta questo tema. Lo stesso vale per Joe: Sam lo costringe a fronteggiare la realtà. È un uomo che non vuole ricordare i suoi errori, le brutte giornate, mentre il ragazzo lo forza a rivivere cosa era un tempo, così Joe suo malgrado deve tornare a riabbracciare la sua natura.
Joe mi ha ricordato molto il primo John Rambo, un outsider che vorrebbe tornare nella società ma non sa come reinserirsi, uno che vuole soltanto tornare a casa alla fine della giornata».
Cosa può svelare invece dell’antagonista del film, Cyrus?
«La vera chiave perché un eroe funzioni è sempre l’antagonista.
Interpretare il buono è piuttosto semplice mentre il villain è un ruolo complesso: se lo tratteggi in maniera talmente forzata non sarà credibilecome minaccia. Deve essere qualcuno cui non vuoi essere vicino. Quando ho visto Pilou Asbæk ne Il Trono di spadeho pensato avesse qualcosa di speciale: era minaccioso, prima di tutto, per via della sua intelligenza e questo elemento lo rendeva credibile. È una persona gentile, magnifica con cui lavorare, ma possiede un lato oscuro che esprime con forza quando recita».
Cosa rende il cinema d’azione tanto popolare?
«È un genere che meriterebbe maggior rispetto. Quando ho iniziato a recitare c’erano film con inseguimenti in macchina e scazzottate, ma non l’action-movie come lo interpretiamo oggi. Ha un suo codice preciso, se togli l’audio puoi ugualmente capire qual è la storia. Questo dovrebbe aprire gli occhi su quanto importante questo genere potrebbe diventare.
È una mitologia moderna, è la riproposizione dell’eroe classico».
Lei ha anche diretto numerosi lungometraggi. Non ha pensato di farlo con “Samaritan”?
«Dirigere un film non è un’esperienza semplice o divertente. È un lavoro durissimo: durante le riprese la tua vita privata sparisce, perdi il sonno e devi rispondere a ottomila domande al giorno. A una certa età sai di aver perso un po’ di energia, di velocità. I giovani come Julius Avery invece hanno ancora entusiasmo, la voglia di fare, e un film come Samaritanrichiedeva quel tipo di impegno».
Quale è il segreto della longevità del mito Sylvester Stallone?
«Umiltà e voglia di divertirsi. Prima di sfondare come attore ho fatto molti lavori: da barista a usciere, ho tagliato le teste dei pesci al mercato e ho fatto la maschera in un cinema. Tutti questi mestieri mi hanno fatto imparare molto, mi hanno fatto fare esperienze. E confesso che recitare mi piace molto più adesso di quando avevo trenta, trentacinque anni.
Quando credevo di sapere tutto e invece non sapevo nulla».