la Repubblica, 19 agosto 2022
Contro la par condicio
Troppagrazia, Par condicio! Creatura poliedrica dell’astuzia politica, del vittimismo funzionale e della più cervellotica rigidità all’italiana, è vero che fin dall’inizio quell’ampollosa entità normativa aveva poco a che fare con le motivazioni che nel febbraio del 1994 spinsero l’allora presidente del Senato Giovanni Spadolini a darle titolo e dignità. Ma diamine, invocare adesso la Par condicio addirittura a proposito delle bandiere e gli ospiti di una festa dell’Unità, oltre che inedito, pare grottesco, tanto più in una campagna elettorale quasi interamente giocata sui social e quindi libera da qualsiasi regolamentazione.
Tanto più vano risuona quindi l’appello della Prefettura di Bologna al buonsenso, risorsa bandita in questo scorcio di settimane, ma che ci vuoi fare?
Per quanto al suo esordio fosse fondata la necessità di un eguale accesso agli schermi, e magari lì per lì la normativa svolse il compito di riequilibrare la sproporzione delle forze dopo la discesa in campo di un imprenditore dotato di tre reti televisive (e almeno altre due dopo la vittoria elettorale del 1994), beh, si sa come finiscono queste cose nel nostro Paese. E così dapprima la sinistra, con la copertura del Quirinale (regnante Oscar Luigi Scalfaro), lanciò l’idea di Par condicio per contenere l’arrembante potenza di fuoco mediatico del Biscione Fininvest; poi nel 2000, cioè non appena quella stessa sinistra sentì che avrebbe perso le elezioni, in frettae furia approntò una legge vera e propria che venne fuori insieme vaga e stringente, giustificata e pretestuosa, insomma convenientemente adattabile.
Già allora, nel Paese della commedia, fioccarono spunti comici e satirici a partire dal nome latino, presto trasformato in “Bar condicio”; ma Berlusconi, cui peraltro l’impossibilità di mandare in onda spot aguzzò l’ingegno dando vita ai maxi manifesti 6x3 sul “presidente operaio” e “meno tasse per tutti”, oltre al rotocalco spedito per posta agli elettori, con un colpodei suoi indirizzò la faccenda verso il melodramma inscenando un gran teatro contro il «colpo di stato», nientemeno, che aveva imposto una «legge liberticida» che «ci discrimina e uccide il Paese»; e vinse alla grande le elezioni del 2001.
Tutto lasciava pensare che una volta a Palazzo Chigi avrebbe abrogato l’oltraggioso parto del “regime”; ma un po’ a causa di Fini, un po’ degli alleati democristoidi del Cicidì e un po’ anche perché per qualche ragione conveniva a lui e a Mediaset, la Par condicio, dasoluzione apocalittica che era, non solo rimase in voga, ma entrò placidamente nelle dinamiche e nel costume del potere ora come una leva, ora come un pretesto, ora come uno scappellotto. Così le norme vennero a sommarsi al preesistente e altrettanto ipocrita tran tran sugli indirizzi Rai, questi ultimi segnati da incessanti richiami al pluralismo, il quale a sua volta era destinatario delle attenzioni di quell’altra ineffabile authority, l’Agcom, ai cui membri una volta, irritato da una trasmissione di Santoro, il Cavaliere-premier chiese: «Ma che cazzo di organismo siete e che ci state a fare?».
E anche qui, riguardando un ciclo di avvicendamenti che supera il ventennio e l’inesausta, corale tentazione di mettere le mani sugli spettacoli politici, dalle presenze del dopo Sanremo (gruppo rock presunto dalemiano per riequilibrare Apicella) fino al divieto di partecipazione di Renzi alla partita del cuore, chi è senza peccato scagli la prima pietra.
Con il che si può dire che la Par condicio è servita ad aggiustare, per quanto possibile, la realtà televisiva in termini di sospensioni, integrazioni, contraddittori coatti, teleduelli mancati, allargamenti di ospiti, affossamenti di conduttori, risarcimenti di trasmissioni oltre a quanto, nell’universo delle visioni a distanza, tornava utile ai padroni del momento.
L’arrivo dei social, almeno in questo benvenuto, rende tutto ciò obsoleto e malinconico, figurarsi l’estensione alle feste dell’Unità.