la Repubblica, 21 agosto 2022
Intervista a Giuliana Pavarotti, la figlia di Luciano
«Quando mi chiedono: che significa essere la figlia di Luciano Pavarotti?, sorrido. Non so cosa voglia dire essere la figlia di qualcun altro, non ho altre esperienze. So che sono fiera di lui e che questo riconoscimento lo avrebbe reso orgoglioso e felice».
Giuliana Pavarotti, classe 1967, è la terza figlia del tenore, nata dal matrimonio con Adua Veroni.
Racconta con emozione che il 24 agosto a Los Angeles sulla Walk of Fame verrà posta la stella dedicata al padre, morto nel 2007 a 71 anni.
Hollywood omaggia il tenore con James Conlon, il direttore musicale dell’Opera di Los Angeles, e a nome delle sorelle Giuliana, Lorenza, l’adolescente Alice nata dal matrimonio con Nicoletta Mantovani, ci sarà la primogenita Cristina. La produttrice Cinzia Salvioli con Albedo Production e Paolo Rossi Pisu ( Genoma Films) sono i promotori delle iniziative per festeggiare il tenore.
La cerimonia sarà accompagnata da una serie di appuntamenti celebrativi intitolati Luciano Pavarotti, la Stella(la sigla sarà il cortometraggio inedito dell’artista Gianluigi Toccafondo), il 24 si terrà la proiezione di due registrazioni, inedite per gli Usa: laMessa da Requiem di Verdi, diretta da Claudio Abbado con l’Orchestra della Rai nella Basilica di Santa Maria Sopra Minerva a Roma nel 1970, restaurata dalla Cineteca di Bologna (si potranno seguire su Rai 5 in prima serata); oltre a una selezione di cinque brani dall’ultimo dei tre recital che Pavarotti tenne alla Scala nel 1983. La mattina del 25 agosto verrà inaugurato al Grammy Museum uno spazio espositivo dedicato a Pavarotti.
Giuliana, papà era amato in tutto il mondo ma con l’America ha sempre avuto un legame speciale.
«Sono molto felice di questa iniziativa partita da Cinzia Salvioli e Paolo Rossi Pisu, noi eredi l’abbiamo accolta con gratitudine. Mia sorella Cristina ha cercato tra l’immenso materiale d’archivio e ha scelto un repertorio italiano restaurato maiproiettato nelle sale in America.
Come tanti altri luoghi nel mondo gli Stati Uniti erano casa per Pavarotti artista e non solo. C’era un rapporto d’amore corrisposto, quando andavamo a New York era pieno di gadget che lo raffiguravano».
Davanti ai grandi negozi di dischi, che oggi a Manhattan sono spariti, c’era sempre il suo cartonato.
«Era di casa. Spesso inaugurava la stagione del Metropolitan, festeggiato e atteso come una star».
Com’era Pavarotti padre?
«È stata sua cura fornirci di radici familiari molto solide. Ha organizzato lo spazio e il tempo anche per essere padre, pensava a case dove poteva abitare la famiglia in senso allargato: sorelle, zie, cugini, nonni. Pensava a una famiglia rural patriarcale, che rimaneva alla base mentre lui andava in giro. C’era la casa dove vivevamo e quella estiva, la teneva libera per studiare a Pesaro le nuove produzioni».
Ce lo racconti nel privato.
«Era un papà molto casalingo. Oltre a studiare era un gioia sentirlo cantare, era capace di creare un clima rilassato. Il tempo libero era un tempo per rilassarsi, raramente lo riempiva di stress lavorativo. A casa non portava lo stress, ma il pathos».
E invece in teatro vinceva l’emozione?
«Prima di entrare in scena ci chiedeva di pregare per lui. Ti guardava negli occhi e diceva: “Ma tu mi vuoi bene?”. Era molto mammo, molto bisognoso di costante contatto fisico, molto gattone».
Cosa significa essere sua figlia?
«In sintesi: è una responsabilità, nel bene e nel male».
Pensa di assomigliargli nel carattere?
«Sì. Immagino che i caratteri dei genitori influenzino la vita dei figli.
Più che altro è un patrimonio, essere sua figlia vuol dire essere cresciuta con quegli orizzonti e il suo mondo .
Questo sicuramente ha ampliato la mia sensibilità e mi ha arricchito».
Non ha mai pensato di seguire le sue orme?
«Non avevo nessuna capacità e devo dire la verità, nostro padre non ha mai spinto perché facessimo canto lirico. Pianoforte sì. Papà ha avuto una vita meravigliosa grazie alla sua arte ma ha dovuto sacrificare una vita stanziale che forse si augurava per noi. Era molto saggio, non ha mai imposto nulla, forse solo gli sport.
Però sulle scelte individuali i miei non ci hanno mai imposto niente».
Il ricordo di un momento bellissimo, indimenticabile?
«Aveva cantato all’Arena di Verona, ero ragazzina. Eravamo andati a vederlo con famiglia e amici. Eraestate. Abbiamo fatto ritorno a Pesaro di notte, tre ore di viaggio, e quando siamo arrivati era l’alba.
Abbiamo apparecchiato la tavola e mangiato tutti insieme guardando il sole sorgere nel mare. Ho pensato: la felicità è questa cosa qui».
Invece una lite epocale?
«Mai fatto questo genere di cose, torno alla responsabilità di essere sua figlia. Ma mi viene in mente uno scontro quando stavamo andando in Cina col teatro di Genova, aveva istituito un concorso per i giovani cantanti a Filadelfia: chi vinceva si esibiva insieme a lui. Organizzammo due spedizioni meravigliose una in Cina e in Argentina, abbiamo riempito due aerei e siamo volati tutti. In quell’occasione ho avuto una piccola crisi perché avevo i miei spettacoli della scuola di teatro, ma c’erano altre priorità. Poi posso aver avuto scazzi caratteriali sì, ma non so più le cause».
Che cosa insegna la carriera di Luciano Pavarotti?
«Non è da tutti. Tutti hanno doni, lui ha fatto tante rinunce per essere quello che era. La sua unicità era di sapere consolare attraverso il canto.
Ti consolava e sapeva portarti in un altro piano dell’esistenza, ti connetteva a qualcosa di più esteso, ti sollevava da terra. Questo è quello che sento quando lo ascolto» .
Cosa ha capito del talento?
«Che devi avere la tenacia di coltivarlo e il carattere di veicolarlo.
La cosa straordinaria di papà è l’apparente mancanza di sforzo, invece la naturalezza richiede tantissimo lavoro. Lui faceva correzioni semplici. Mi ricordo che fino all’ultimo, fin nel letto di morte, gratuitamente ha continuato a dare lezioni ai giovani cantanti. Diceva una frase importante: “La differenza tra un buon cantante e un cantante straordinario, è nelle sfumature”» .
Aveva talento ed era un uomo generoso, non è da tutti.
«La generosità io la chiamo devozione, lui era devoto alla sua arte. Non si è mai tolto la sciarpa dal collo».