Corriere della Sera, 21 agosto 2022
Al lavoro prima dell’alba per risparmiare elettricità
Sorge un sole feroce dietro i monti dell’alto Tevere, mentre da un capannone con la scritta «Noi» si spande già sui campi di tabacco un ronzio meccanico.
È il suono di una macchina che divora gas e elettricità e restituisce 450 piatti di ceramica all’ora nelle mani sapienti di sette donne sedute in fondo a un nastro automatico. Sono lì da prima dell’alba, concentrate, vigili, nessuna traccia di sonno sui loro volti. Le sette operaie raccolgono i pezzi di ceramica ancora caldi e, con una rapidità e precisione che si impara solo in lunghi anni, sistemano le decalcomanie fino a farne uscire i piatti più belli del mondo. Li preparano per lo shopping del lusso a San Francisco, Dubai, Sidney, Kuwait City, dove si vendono con marchi di fama globale a prezzi di venti o trenta volte il costo di produzione. L’imballaggio si farà tra poco in un altro angolo del capannone, in orari modificati e centellinati perché il sole inondi in pieno le finestre il più a lungo possibile e si possa limitare così il tempo in cui i neon restano accesi.
Da quando in Ucraina è iniziata la guerra e il prezzo del metano è decuplicato rispetto alle medie dell’ultimo decennio, anche la giornata di queste sette operaie non è più la stessa. Hanno smesso di preparare le colazioni dei figli piccoli, di controllare che escano di casa con i vestiti in ordine o anche solo di vederli al mattino. Sono tutte e sette alle macchine da prima dell’alba, in questo turno ritagliato apposta per sfruttare le tariffe elettriche più basse, risparmiare anche sull’aria condizionata e contribuire così a tenere a galla la cooperativa «Ceramiche Noi» – il nome in sé è una visione del mondo e del fare impresa – nella più grande tempesta dell’energia da mezzo secolo.
A tremila chilometri da qui Vladimir Putin dosa il gas come un’arma per punire, vendicarsi, piegare il volere altrui. Ha tagliato le forniture più volte, fino a far valere la materia prima 200 euro ogni mille metri cubi, quando il prezzo che in Europa consideravamo normale era di venti. Era il prezzo sul quale si basava la struttura dei costi di milioni di imprese, per decine se non centinaia di milioni di posti di lavoro.
I conti per «Noi», cooperativa nata da undici operai licenziati nel 2019 a causa di una delocalizzazione in Armenia, sono presto fatti. Con consumi di 2.200 metri cubi di gas e mille kilowattora al giorno, la bolletta energetica trabocca da meno di un quinto a quasi la metà dei costi d’impresa o da 182 mila euro nel già difficile 2021 a 327 mila solo nei primi sei mesi del 2022, aspettando il nuovo strappo all’insù che si annuncia per ottobre.
E dire che nel 2019 questi undici ci avevano messo tutto quel che avevano, per salvare l’impresa e se stessi: hanno versato qui dentro il trattamento di fine rapporto, l’indennità di disoccupazione (la Naspi) e soprattutto tanto cuore, fegato e altrettanto cervello per rilevare l’azienda che l’azionista aveva abbandonato nel miraggio dei bassi costi dell’Armenia. La delocalizzazione, quanto a quella, è naufragata nel giro di pochi mesi perché una sedimentazione secolare di sapienza artigiana non si sposta da un continente all’altro come un pacco postale. E a Città di Castello gli undici soci operai, gli ex dipendenti licenziati, lo hanno dimostrato: in tre anni il fatturato della vecchia impresa da loro rilevata impresa è più che quadruplicato a oltre due milioni di euro, conquistando quote di mercato in tutto il mondo, un rapporto di fiducia con alcuni grandi marchi americani e francesi e assumendo altre undici persone, che ora stanno per entrare anche loro nel capitale della cooperativa.
Un’epopea operaia eroica, fatta di disperazione e ostinazione, ma anche di visione, gusto, competenza. Questi undici avevano ereditato un’azienda che ormai erano solo quattro mura di capannone e un unico forno da ceramiche, lasciato lì dal vecchio padrone giusto perché smontarlo e portarlo in Armenia sarebbe costato di più.
Hanno ricostruito tutto meglio di prima, letteralmente inventandosi macchinari nuovi là dove erano rimasti solo spazi vuoti e polverosi. Marco Brozzi, un operaio di 47 anni che è qui da quando ne aveva 14, ha disegnato le tecnologie che ora portano avanti la «Noi» al tavolino di un caffè nella piazza alta di Città di Castello e ha dato gli schizzi da realizzare a Roberto Albi, 45 anni, elettricista e programmatore autodidatta di software che a duecento metri da qui produce essiccatrici per il tabacco. Non ci sono titoli accademici in gioco («Ho un diploma da ragioniere, comprato» dice Brozzi con un sorriso perfido) ma c’è tanta competenza sul tessuto profondo di un mestiere artigiano trasferito al ventunesimo secolo.
Ne sono usciti una spruzzatrice di smalto rotante del diametro di quattro metri; una pressa idraulica che tramite le forza dell’acqua preme l’argilla fresca sui suoi stampi, quindi imprime la loro forma ai piatti, ai vassoi e alle ciotole; una rifinitrice automatica che leviga i bordi e infine gli essiccatoi che riusano il calore del forno a gas e usano anche tanta elettricità per asciugare la terra di cui sono fatti i piatti e farne ceramica bianca e dura.
Tutto questo divora energia e di conseguenza si è mangiato anche il primo dividendo da diecimila euro ciascuno che i soci fondatori speravano di distribuirsi a metà di quest’anno. Avevano fatto di tutto per meritarselo. Per produrre di più e con meno sprechi si erano disegnati con l’aiuto di Albi, l’artigiano delle essiccatrici, un software a cui ciascuna macchina è collegata tramite un tablet per avere in ogni momento il quadro esatto di ogni passaggio in fabbrica. Per risparmiare sulla terra, hanno smesso di farla venire da Roma da quando l’incidenza del carburante è raddoppiata al 30% sul costo finale; si sono costruiti in casa un’altra macchina apposta. Per anticipare la grande scarsità di materiale da imballaggio, anch’essa frutto perverso del boom nei costi del gas, si sono indebitati per accaparrarsi carta e cartone a primavera scorsa. Ora fanno funzionare certe macchine elettriche solo la sera fino a mezzanotte e oltre, avendo calcolato un risparmio del 15% sulla bolletta.
Ma lo choc della guerra in Europa continua a allungare la sua ombra sull’epopea di «Ceramiche Noi». Il caolino che prima arrivava solo dall’Ucraina, materia argillosa che rende la ceramica così bianca, dura e smaltata, sta finendo. Dopo che farete? «Non lo so – dice Lorenzo Giornelli, che in azienda tiene i rapporti con i grandi clienti internazionali —. Abbiamo i libri strapieni di ordini fino all’anno prossimo, ci cercano i più grandi nomi della moda e del lusso, eppure faticheremo a chiudere il bilancio in pareggio». Sono le prime luci dell’alba, momento prediletto perché le lampadine si spengono ma si può ancora fare a meno di avviare gli impianti di aerazione. I volti degli azionisti operai sono segnati dalla fatica e dalla tensione del sentirsi preda di una tempesta molto più grande, lontana, ingovernabile dalle loro volontà di ferro. «Almeno potessimo fare previsioni, invece non sappiamo cosa sarà dei nostri costi tra tre mesi». Accanto a Lorenzo Giornelli, il responsabile di produzione Marco Brozzi tiene il naso incollato al cellulare: come fa di continuo ormai, sta controllando le quotazioni del gas al mercato dei futures di Amsterdam. «189 euro in questo momento, siamo al limite», fa a Giornelli. E accarezza una a una le sue macchine con un orgoglio che neanche Putin potrà mai piegare.