Corriere della Sera, 21 agosto 2022
Biografia di Alex Britti raccontata da lui stesso
«Quando aiutavo papà in macelleria, la mia specialità era preparare gli hamburger: macchinetta, carne macinata, sale e pepe. Ne facevo uscire 180-250 in un pomeriggio. Ogni tanto mi toccavano pure le pulizie e le consegne a domicilio: da piccolo in bicicletta, da grandicello in motorino».
Però il giovane Alex Britti non ha mai visto un futuro nella bottega del padre Umberto e della madre Annita. «Volevo suonare da quando avevo sei anni. Da bambino ero già determinato e cocciuto», racconta il cantautore romano e golden boy della chitarra. Aveva ragione. Alla fine degli anni Novanta il debutto con Solo una volta (o tutta la vita), la prima hit di una lista di canzoni dalla quale persino Mina ha attinto. Una lista lunga quasi quanto gli amori veri o presunti che gli sono stati attribuiti (all’inizio degli anni 2000 la storia con Luisa Corna ha riempito le pagine di cronaca rosa). Ora porta due tour in giro per l’italia: in uno c’è la sua anima pop, nell’altro quella blues con le canzoni dall’album strumentale Mojo. «Il pubblico è contento: non so se erano stanchi di ascoltarmi cantare o se sono soltanto molto felici di sentirmi alla chitarra. Io suono blues e dintorni, non cerco di imitare Muddy Waters e Steve Ray Vaughan vado oltre, come facevano loro che sono stati degli innovatori. Ma il mio non è un disco per intrippati. Ci sono temi che puoi fischiettare sotto la doccia. Io lo faccio, canticchio pure Pat Metheny, John Coltrane, Miles Davis».
La prima chitarra gliel’hanno regalata i suoi genitori.
«Al mio compleanno, avevo sette anni… non mi sopportavano più. Non gli davo pace. All’inizio l’hanno presa come un gioco, poi si sono preoccupati, alla fine si sono arresi e ora sono orgogliosi. La volevo perché ce l’avevano due fratelli che abitavano sul mio pianerottolo. Erano gli anni Settanta, girava l’adesivo di un hippie con i capelli lunghi, una specie di Rambo con una sei corde sulle spalle al posto del mitra. Lo appiccicavano sui vetri delle Renault 4. A quei tempi per i ragazzini era un mito. Per me si trasformò in un’ossessione».
In che modo?
«In prima media tutti i giorni andavo in classe con la chitarra. I professori chiamarono i miei: “Ditegli di mollarla o lo bocciamo”. Fui promosso. Ma in seconda dovevo consegnarla alla professoressa. E io, alla fine delle lezioni, mi piazzavo a suonare sul muretto di fronte alla scuola. Facevo il primo Bennato quello più incazzato, rivoluzionario. Gli insegnanti mi hanno pure lasciato esibire al concertino di fine anno. E poi m’hanno bocciato... ’sti maledetti (ride). Nel frattempo avevo conosciuto un impresario che mi procurava contratti per piccoli live estivi. Andavo anche ai veglioni di Capodanno e di Carnevale, ormai era il mio lavoro. Volevo fermarmi alla terza media. Papà mi disse: “O studi o vieni in bottega”. Mi iscrissi al magistrale, frequentato soprattutto da donne. Mi hanno cacciato un mese prima della fine dell’anno: ero un pischelletto sveglio, con un capoccione di capelli lunghi e ricci, il motorino e l’inseparabile chitarra. La mattina manco entravo… organizzavo gitarelle con le ragazze. Era una scusa per non lavorare».
Funzionò?
«Con la formula del due in uno mi sono rimesso in carreggiata. Ho cambiato scuola, ragioneria. Comoda, era sotto casa: dormivo vestito, scendevo dal letto ed ero arrivato. Intanto avevano aperto il Big Mama, dove incontrai il primo vero musicista, Roberto Ciotti, un gigante del blues in Italia. Diventai il suo chitarrista. Ero bravino, je l’ammollavo, come si dice a Roma. Mi iniziarono a chiamare altri locali. Da lì ho iniziato a non dormire: tornavo alle 3 del mattino e alle 7 avevo le lezioni. Non so come, ho preso un diplomaccio con il 36».
Ai suoi genitori deve la passione per la cucina che l’ha portata a Celebrity MasterChef?
«Papà e mamma sono buongustai, a casa si mangiava tanto e bene. Vengo da una famiglia in cui il cibo è sempre stato importante e continua a esserlo. Mio padre a cena parlava già di quello che avremmo mangiato a pranzo e la sera del giorno dopo».
Come ha imparato a stare tra i fornelli?
«Con le note e il cibo sono un autodidatta. Rubo con gli occhi. A 13 anni chiedevo a mia madre: “Che ci metti dentro la carbonara, cosa usi per lo spezzatino?”. Ad Amsterdam vivevo a casa della cantante di Rosa King, la sassofonista. Che aveva un compagno di Aruba. Era una guerra. Quando non si andava in tour, una sera cucinava lui e una io. Ero bravino ma preparavo piatti romaneschi: matriciana e carbonara, carne e pesce. Mi insegnò a usare le spezie. Ricordo un baccalà con il sugo nel platano fritto, usato come cucchiaio. Per me, che non ero mai uscito dal Grande Raccordo Anulare, era una sorpresa. Poi ho imparato da una fidanzata belga e dalla zia di una dolcissima ragazza africana che viveva a Parigi. La signora preparava il cibo per terra, sopra a un telo, dove poggiava le ciotole con gli ingredienti».
A proposito di donne. Come va l’amore?
«Sono single da un pezzo. Attenzione però: sono un papà single».
La danno per sposato con la madre di suo figlio.
«Mai messo la fede. Ci siamo lasciati quando Edo aveva due anni, ora ne ha cinque. È un bimbo sereno, vive metà mese con me e l’altra metà con la mamma».
Quando Edoardo sta con lei che fate?
«Lo lavo, lo vesto, ci chiacchiero, lo porto a scuola, gli ho pure insegnato a nuotare. Giochiamo: pallone, racchettoni, le lotte con i Pokémon, andiamo a cercare i ragni in giardino. A due o tre anni mi chiedeva sempre la chitarra, ora non più. Però canta bene, è intonato e conosce tutte le sigle dei cartoni animati. Se da grande volesse suonare, core de papà, per me sarebbe una gioia».
Lei alla musica non ha mai rinunciato?
«Mai. Una volta, non guidavo io, ho fatto un incidente pauroso sulla tangenziale di Napoli nella notte di Capodanno. Tre automobili distrutte, fuoco e fiamme, sono arrivati polizia e pompieri. Per fortuna non si è ferito nessuno. Ricorda i Blues Brothers quando gli sparano addosso? Si rialzano, si danno due pacche sulle spalle per togliersi la polvere e dicono: “Andiamo”. Io ho controllato che stessero tutti bene e poi ho chiesto a dei poliziotti se mi accompagnavano con la volante a suonare. Sono arrivato con tre quarti d’ora di ritardo, ma il concerto è andato liscio».
Non è da tutti ricevere i complimenti di un mito come B. B. King...
«Per due volte ho aperto i suoi live allo Smeraldo di Milano, nel ’98. Non lo incontrai, ma mi fecero sapere che era stato lui a volermi sul palco la seconda volta. Non c’avevo creduto a questa storiella… spesso le persone cercano di compiacerti. Insomma, arrotondano. Un anno dopo, al Pavarotti & Friends, dove suonavo per Luciano e Joe Cocker, mentre io e Joe stavamo per salire sul palco, belli, truccati e pettinati, incontriamo B.B. King che aveva appena finito di esibirsi. Cocker lo saluta e gli fa: “Blues Boy ti presento Alex”. Lui mi guarda e dice: “Io ti conosco, hai aperto il mio concerto. Ti ho sentito suonare sei bravissimo, fortissimo”. Quella che io pensavo fosse una bugia era la pura verità. Non ho ancora capito come sono riuscito a salire sul palco quella sera. In un attimo sono cresciuto di dieci centimetri. Ero più basso».
Quando ha del tempo libero e suo figlio sta con la mamma che fa?
«Con il mio lavoro e la vita che faccio non ho una regola per niente. Se posso mi alleno, corro soprattutto. Ho le scarpe per qualsiasi di tipo di superficie: da asfalto, su strade sterrate. Mi piace allenarmi: stretching, addominali. Nuoto, faccio ginnastica in acqua, magari mentre Edoardo gioca vicino a me. In valigia metto sempre elastici e maniglie per flessioni».
Un’altra grande passione è la Roma. Francesco Totti è un mito per lei?
«Sono tifoso da sempre e vado allo stadio. Totti è stato un calciatore importante, ma rimango pragmatico e poco romantico. Lo stimo come atleta e come uomo. Me lo ricordo giovane, abitava vicino a casa mia. Ci incontravamo al supermercato. Chi veniva a fare la spesa ci vedeva chiacchierare davanti agli scaffali della pasta: “Cosa preferisci: spaghetti o bucatini?”. Totti ha cambiato casa quando si è sposato. Ma ci siamo rivisti a una festa natalizia della Roma, prima del Covid. Io ho bevuto un prosecco, lui un succo d’arancia. È una persona eccezionale, carina, gentile, educatissima, umile nonostante quello che è diventato. I miti però appartengono ai sogni che si fanno da ragazzini. E per quelli della mia generazione l’idolo era Falcao. Mi dispiace, non volermene France’, te vojo bene».
Nelle partitelle di calcio che ruolo ha?
«Sono il difensore che ogni tanto si infila e va avanti. Ma la mia maglietta è la numero cinque, come quella di Falcao. Ogni volta che trasloco mi porto dietro un quadretto con due foto: quella di Paulo Roberto, comprata a 15 anni allo stadio, e quella di Dizzy Gillespie presa ad Amsterdam. Lo appendo sempre in cucina. Quando mi sveglio, la prima cosa che faccio, anche a occhi chiusi, mi preparo un caffè. E tutte le mattine li guardo. Falcao, grazie a un amico in comune, mi anche ha mandato un messaggio con gli auguri per il mio compleanno».
Le piacerebbe incontrarlo?
«No, non sono uno che fa altarini. Porto sempre il portachiavi della Roma dentro al beauty soltanto perché quando lo guardo mi fa sorridere. Uno molto figo, non ricordo chi, ha detto che i sogni sono come la Stella Polare: la inseguiamo tutta la vita per tornare a casa, ma non la raggiungiamo mai».