Corriere della Sera, 21 agosto 2022
Ritratto di Luigi Di Maio
Quanti padri in questo nostro Paese dove si resta figli per sempre, fine pena mai. Uno, Beppe Grillo, onirico e onnipotente, che aveva bisogno di un facchino sveglio per diffondere il Verbo. Un altro, Gianroberto Casaleggio, che la vocazione del Pigmalione l’ha sempre avuta. Un terzo, quello biologico, missino per passione e mai eletto consigliere comunale a Napoli, che un po’ ha sofferto questo suo ragazzo scapocchione, che diventava prima deputato, poi vicepresidente della Camera e infine ministro e vicepremier, togliendogli il primato del maschio alfa della famiglia. Certo, quando pure Giuseppe Conte ha provato a fargli da padre, o per lo meno da fratellone maggiore, la voglia freudiana di mordere il freno e farlo fuori ha prevalso. Anche se è dovuto passare per la benedizione di Beppe Sala, per poi finire nelle mani amorevoli di Bruno Tabacci, possessore del simbolo che libera dalla schiavitù della raccolta delle firme per presentare la lista e che, affettuosamente, ha pronunciato l’impronunciabile: «Luigi Di Maio? È il più giovane dei miei figli».
Certo, il piano era spericolato, l’approccio impavido, il risultato oltre le previsioni. Portare via decine di deputati e senatori all’avvocato del popolo, rendere la sua levata di scudi ininfluente, sostituirlo nell’appoggio a Mario Draghi, svuotando a mano a mano i Cinque Stelle. Ma non ha funzionato. Perché la politica ha tante variabili e Silvio Berlusconi e Matteo Salvini hanno deciso di ingoiare il rospo da girino, consegnandosi, in cambio di aver salva la vita, a Giorgia Meloni, e facendo naufragare il governo di larghe intese. Ma, se non si viene trafitti sul campo, all’ardire si dà una seconda chance, ed eccolo qui, Di Maio, a provarci di nuovo, o a cercarsi un impiego, come dicono quelli che lo hanno già sprofondato nel girone dei traditori.
Un metro e settanta per settantatré chili, nasce il 6 luglio del 1986 in quel di Avellino, sotto il segno del Cancro. Fortemente orientato alla difesa dei propri spazi, l’Uomo Cancro è governato dalla Luna, alcuni direbbero lunatico, il suo giorno fortunato è il lunedì, che, guarda caso, è anche quello che segue la domenica delle elezioni. Si trasferisce presto a Pomigliano D’Arco, sua patria d’adozione, e l’esordio in politica è da rappresentante degli studenti. Con successo li convince che non è il caso di occupare la scuola e che ci vuole il confronto con i professori, che vanno coinvolti nella soluzione dei problemi. Spirito rivoluzionario e animo consociativo saranno la misura della sua politica dai tratti bipolari. Frequenta il liceo dedicato a Paolo Emilio Imbriani, che riuscì a sfuggire alla condanna a morte dei Borbone ma non alla furia dei napoletani, quando, diventato sindaco, cambiò il nome di via Toledo con via Roma. Luigi si diploma con il massimo dei voti, e se qualcuno arriccia il naso su una presunta, eccessiva generosità dei docenti al Sud, nessuno può togliergli il fatto che la sua valutazione si esprime in centesimi, e non come per gli altri leader in sessantesimi, a testimonianza di quanto sia ancora giovane, quasi ragazzino.
Con la politica dei grandi ci prova una prima volta proprio al comune di Pomigliano D’Arco, con i Cinque Stelle. Prende 59 voti, che neanche tutti i parenti lo sostengono, di sicuro non il padre, che aveva promesso la preferenza a un suo amico. Ma poi, inarrestabile slavina, l’elezione in Parlamento, ad appena 27 anni. In meno di un amen è vicepresidente della Camera, vicepremier insieme all’altro ragazzotto Matteo Salvini, ministro di due ministeri, Lavoro e Sviluppo economico, capo delegazione dei Cinque Stelle al governo e ancora capo politico del Movimento, con tanto di benedizione di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. E siamo ormai, allora, appena ad anni 32.
Il bibitaro non l’ha fatto mai, non ha mai gridato «aranciata, birra, coca, caffè Borghetti» facendosi largo sugli spalti dello stadio, è una panzana, faceva invece lo steward, accompagnava i cosiddetti vip ai loro posti d’onore. Trascorsi che gli valgono una vignetta in cui, quando si parla per lui di un seggio sicuro nelle liste del Pd, Osho gli fa dire: «Sto diritto di Tribuna non c’entra col San Paolo, vero?». È il coronamento di una carriera sia come gaffeur che come amante dell’iperbole: il leader cinese che lui chiama Ping, la povertà abolita dal balcone di Palazzo Chigi, lo scivolone sui Gilet gialli e quello sull’impeachment di Sergio Mattarella, il giustizialismo su Bibbiano, la sbandata su Salvini che poi bollerà come l’uomo più falso che abbia mai conosciuto, per finire con qualche inciampo sui congiuntivi, costringendo la madre professoressa a giurare che a casa loro si mangia pane e consecutio temporum.
Ora, all’età di 36 anni, Luigi Di Maio dovrebbe tornare dove tutto è cominciato, in Campania, a combattere per un seggio uninominale. Anche se la destinazione non è ancora certa. Lì comunque non troverebbe l’amico di un tempo, Roberto Fico, azzoppato dalla regola dei due mandati. Virginia Raggi e Alessandro Di Battista gli gridano da sotto il balcone, poco rassicuranti: «Scendi, che dobbiamo parlare», ma sono già impegnati ad aspettare di fuori tanti altri, a cominciare da Giuseppe Conte. Grillo dice che non è ambizioso, ma punta al massimo a un impiego da mezze maniche al ministero, e Grillo è uomo d’onore. E quindi un brivido percorre la Penisola: ce li ha un po’ di voti o è tornato quello che prendeva appena 59 preferenze a Pomigliano D’Arco?