la Repubblica, 20 agosto 2022
Pericoli svela il corpo di Kakfa
Per Tullio Pericoli c’è sempre uno strano coinvolgimento tra l’opera dipinta e la parola. Credo sia questo enigma che lo affascina e lo attrae. Misteriosamente parola e immagine si confrontano, si sfidano, si intrecciano, lui direbbe: accadono “sul farsi del mondo” (per riprendere il titolo di un suo libretto dedicato a un doppio racconto di Walter Benjamin), quel mondo che da indefinito prende forma sull’inesausto territorio della pittura come su quello della letteratura. E pittura e letteratura si danno ancora appuntamento nel nuovo libro in cui, attraverso le immagini di Alberto Giacometti, commenta e trascrive Un digiunatore ,uno strano apologo scritto da Kafka in prossimità della fine.
Verrebbe da chiedersi se il digiunatore sia lo stesso Kafka. Dopotutto, la tubercolosi che lo affligge, fino a condurlo alla morte nel 1924, gli impedisce a costo di enormi sforzi di ingerire il cibo e di alimentarsi normalmente. Sappiamo – dalle Lettere e daiDiari – quanto fosse sensibile alle mutazioni del proprio corpo, a quel lento e inesorabile deperire che la malattia aveva accentuato. Negli ultimi tempi percepiva il proprio corpo come estraneo. Avvertiva una certa goffaggine in quella sagoma ossuta, spigolosa, teatrale ma in modo sgradevole. La malattia ne rivelò l’ossessione. Che questa ossessione torni nello scritto del 1922 è del tutto plausibile. Ma bisogna al tempo stesso guardarsi dagli eccessi biografici e autobiografici.
Quel racconto, che Kafka getta giù in un giorno e una notte, vive soprattutto di vita propria. È lieve e drammatico, iroso e sarcastico, ilare e soffocante, come un po’ tutta la sua opera. Pericoli trascrive quel corpo narrato (e vissuto) nelle fattezze filiformi de L’uomo che cammina realizzato da Giacometti quarant’anni dopo. È sorprendente la somiglianza delle forme, l’asciutta tragicità con cui lo scultore svizzero sembra intenzionalmente dialogare con lo scrittore boemo. Ma del resto non è egli stesso a dar vita tra la fine degli anni quaranta e i primi anni cinquanta alla serie di Gabbie? A un’idea di spazio che segrega l’umano, gettandolo beckettianamente nella più grottesca solitudine? E non è la stessa condizione che Kafka sperimenta su di sé e Pericoli dispiega nel segno che interpreta altro segno? Apparentemente il “Giacometti” reinterpretato da Pericoli spiega il Kafka che lo precede. In realtà, è solo un gioco di corrispondenze tra l’immagine e la parola che ne viene risucchiata. È nota, oltretutto, la scarsa tolleranza di Kafka all’interpretazione dei propri testi. La sua scrittura – al pari di certi suoi personaggi – doveva sottrarsi alla contaminazione del critico, evadere dalle sbarre dell’estetica. Per collocarsi in un punto indefinito tra il mondo e l’opera stessa. Un punto dove tutto sembra sfuggire di mano. Scrive Giacometti: «Io cerco di fare quello che vedo. Il mio sforzo consiste nel cogliere un’apparenza che continuamente mi sfugge», questa frase potrebbe benissimo trovarsi in qualche punto dei Diari di Kafka. Gli stessi personaggi di Kafka, come osserva Pericoli, sfuggono, non sanno o non vogliono rivelarsi. È la loro inadeguatezza al mondo a renderle figure reticenti. Del resto, fu la coscienza di essere inadeguato a dare a Kafka la forza di trasmettere ai suoi personaggi, quello che lui stesso avrebbe voluto diventare: un’entità imprendibile, sapendo di essere solo una presenza incompiuta. Era tristemente attratto dall’incompiutezza di quelle figure che disegnava nei loro destini sconnessi, nella loro rassegnata e ineluttabile obbedienza. Sperava che attraverso esse gli si chiarisse l’enigma di quelle vite senza fondo. Sia lui che Giacometti erano consapevoli di reagire alla terra che franava sotto i loro piedi. Resistere per non essere travolti. Il digiunatore appartiene alla galleria dei personaggi che Kafka ha toccato con malinconica perfidia: l’acrobata, l’asceta, il sognatore, la cavallerizza. È evidente che il digiunatore è un essere che sta al mondo senza parteciparvi. Non ha nulla in comune con gli altri uomini. È semplicemente nuda vita. Perciò sacrificabile. Fuori dalle legge, ma pur sempre attratto da essa. È deforme e difforme, come la figura allampanata e aguzza di Don Chisciotte. Kafka insinua che Don Chisciotte sia un’invenzione di Sancio Panza. In effetti, il diabolico Sancio costruisce la gabbia onirica entro cui l’hidalgo esibirà i propri fraintendimenti sul passato. Sembra un digiunatore che la folla sottopone ad atroci scherzi. Le esistenze del digiunatore e di Don Chisciotte sono tanto più incongrue per chi le osserva quanto più si mostrano inattuali. Sono artisti di vite perdute. Le proprie. Parti della fantasia, che abitano le parole come fossero gabbie. La loro peculiarità è di regredire alla condizione animale, ma soprattutto di somigliare a delle marionette. Risulta che Kafka apprezzasse il saggio di Von Kleist sul teatro delle marionette, quel grado zero della coscienza capace di rivelare la piena animalità di queste figure (non è irrilevante che l’ultima metamorfosi del digiunatore sia la pantera). Non diversamente da Odradek (il racconto che Kafka imbastisce attorno a un rocchetto), anche questefigure risultano essere a metà strada tra il meccanismo e la creatura umana. Come una specie di errore antropologico, vivono senza partecipare alla vita. Vivono il male che subiscono con rassegnata indifferenza. Al di fuori da ogni questione etica. Il tribunale, la colpa, il verdetto non cadono sotto la lama della giustizia ma sotto quella dell’enigma. Nessuno sa il motivo per cui verrà condannato. E se ci si fa caso, ci si accorge che i personaggi kafkiani non dormono mai, al più sonnecchiano. Non hanno la facoltà del sognare e se sognano, come Don Chisciotte, delirano a occhi aperti. Dell’arte coltivano la virtù più crudele: l’assenza del presente. È la ragione per cui nessuno potrà mai prenderli sul serio. Fanno quel che fanno, perché non possono fare altro. Scrisse Benjamin che Kafka voleva annoverarsi tra gli uomini comuni. Liberarsi dalla minaccia di essere lui stesso (come la sua scrittura) un’eccezione riconducibile al capro espiatorio. Poteva un’agognata esistenza ordinaria sottrarsi alla punizione per un delitto che non si era commesso? Ecco il dilemma che lo accompagnò per tutta la vita e che, in qualche modo, ritroviamo nelle figure giacomettiane. Tanto comiche le prime quanto tragiche quest’ultime. Essere artisti per Kafka e per Giacometti non implica nessuna forma di salvezza né di libertà. Ma un illusorio tentativo di sfuggire alla morte. Le illimitate possibilità che l’arte contempla cadono una a una e non resta che la necessità di un gesto, di un corpo che nel momento in cui si esibisce resta prigioniero non più della gabbia ma dello sguardo bramoso del pubblico. Così l’arte si dissolve. Muore. Ecco il segreto che Pericoli ci svela.